Buio fuori, buio dentro.

Di giorno, dalla finestra della mia piccola camera, si vede un grande prato e poi un monte ricoperto di alberi. La notte invece è una finestra sul buio. Niente lampioni, niente macchine che passano. La sagoma della montagna si distingue a malapena sul cielo senza stelle, nascoste dalle nuvole. E’ più del nero. E’ l’assenza del colore, è il vuoto. Qui il buio è più fitto. Nessun conforto per chi guarda fuori dalla porta aspettando qualcuno. Nella foresta il buio è totale, quasi fisico. Quando ero piccolo, al paese di mia nonna, si giocava tutti assieme a nascondino. Quando cominciavamo a non vederci più si tornava a casa. Per raggiungere la porta c’era e c’è ancora, una salita ripida che poi prosegue, inoltrandosi nel bosco. La casa della nonna era l’ultima e non c’era nulla aldilà, solo una  strada che sfumava nelle tenebre. Appena lasciata la luce dell’ultimo lampione correvo fino alla soglia senza quasi guardare quella porta nel bosco. Nessun pericolo reale, gli orsi, che pure vagano per quei luoghi, non si fidano a scendere tra gli uomini. Lupi non ce ne sono. Ma quante proposte di terrore puro arrivano da una stanza vuota e senza luce?

Immaginate quindi di tornare un po’ indietro nel tempo, appena prima della Rivoluzione Industriale, in un qualsiasi paese di campagna, circondato dai boschi di qualche signore terriero. La notte è sconsigliabile andare in giro da soli, le uniche luci a disposizione sono quelle dei propri occhi. Di lupi ce ne sono, o almeno si dice ce ne siano, questo basta. Cosa può fare l’uomo medievale che vive in queste terre se non chiudersi in casa a raccontare storie? Di cosa parleranno questi racconti del focolare? Di quello che c’è fuori, della immensa massa tenebrosa e degli orrori che nasconde.

Alexandre Dumas (padre) si appropria di una di queste storie e ci mette  il titolo di Il signore dei lupi (Piano B, pp. 163, euro 12). Non sarebbe poi tanto strano se l’avesse effettivamente sentita da un anziano cacciatore, come dice lui stesso, uno di quei vecchi che amano spaventare i bambini irrequieti.

Ed ecco la storia di Thibault, giovane e invidioso zoccolaio che vendette l’anima al Diavolo per poter esaudire ogni desiderio che recasse danno agli altri. Per ogni richiesta un capello diventerà rosso, rosso come il sangue e come le fiamme dell’Inferno. Suoi amici saranno i lupi della foresta, devoti servitori di Satana. Questa è la storia. E niente più. Si sa come vanno a finire i contratti stipulati con Belzebù. Ma niente filosofia, niente tragedia marlowiana o mattonelle faustiane. E’ un libro dell’ottocento, scritto da uno che i libri li voleva vendere.  Allora perché leggerlo?

Innanzitutto perché qui Alexandre Dumas (padre) è tenuto in altissima considerazione e poi perché…beh non servono altri motivi, è stato capace di rendere avvincente anche un ricettario…se vi sono piaciuti i Moschettieri e Montecristo vi piacerà anche questo. Rimprovererete al povero scrittore al massimo di non aver reso quest’idea, che pure ne aveva le potenzialità, uno di quei colossi a cui ci aveva abituato. Ma se ne può poi farne una colpa? Non credo. Troverete infatti la teatralità tipicamente francese dei suoi intrecci, colpi di scena e vignette grottesche. Da poche righe nasce un personaggio che si muove sulla scena: un piccolo magistrato di campagna amante del vino, un grande barone orgoglioso, la piccola e tenera Agnelette, vittima predestinata di Thibault, il lupo mannaro. Ma anche il buio della foresta, quell’oscurità antica e ormai dimenticata, popolata da animali parlanti con poteri sovrannaturali.

Come un esperto sociologo l’autore porta al limite le coscienze, per toccare con mano dove l’anima si strappa. Fin dove si può arrivare nel fare del male agli altri? Qui non si parla di aver osato troppo nella conoscenza, di voler essere uguali a Dio. Infatti Lui nella storia arriva solo alla fine, frettolosamente. Niente filosofia o teologia. Solo l’uomo. Dumas (padre) conosceva gli uomini e scriveva di loro, dei loro dolori, dei loro desideri nascosti. Ha scritto questo piccolo libro che sedimenta al buio e lascia domande fastidiose. Con il suo stile inimitabile.

I cavalli, irrequieti, indietreggiavano rabbrividendo, fiutando lo strano vento notturno. Le guardie, che fino ad allora avevano riso e scherzato, a poco a  poco erano ammutolite. Fu la volta di Thibault di mettersi a ridere. «Perché ridi?», chiese una guardia. «Perché voi non ridete più.» Al suono della voce di Thibault le luci si avvicinarono ancora, e il calpestio si accentuò; poi si udì il rumore sinistro, il secco rumore di mascelle che cozzano l’una contro l’altra.

12 commenti

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12 risposte a “Buio fuori, buio dentro.

  1. Vado pazza per Dumas! Questo proprio mi manca….
    Che bello rivederti Qui!
    Spero verrai a trovarmi nel mio nuovo post!!!!
    Baci
    Luna

  2. rob

    Per ora, un solo commento, con sospiro di sollievo incorporato: BENTORNATO, MUNINN!!!

  3. Fabio

    Probabilmente non riuscirò mai a leggere il libro ma la tua recensione e senza dubbio un bellissimo invito a farsi coraggio per entrare nel buio dell’animo umano……

  4. rob

    È possibile che nessuna biblioteca della provincia di Varese disponga di questo libro? Lo segnalerò subito nel libro dei “desiderata”, appoggiato là sul banco prestiti della biblioteca del mio paese.

    Argomento “buio” e il pensiero è tornato al mese scorso. Le tue rievocazioni del buio hanno acceso in me quel senso di inadeguatezza e di miseria, che in un paio di occasioni, nello scorso mese, ho avvertito in Algeria.
    Sono tornato a quei soliti miei duecentocinquantacinque passi dall’appartamento alla moschea, duecentocinquantacinque passi che compievo cinque volte al giorno. Oramai li potevo fare anche a occhi chiusi. Meglio, anche perché, pur con gli occhi aperti, di notte sarebbe stata la stessa cosa: l’impianto di illuminazione pubblica andava spesso a farsi benedire, per via dei troppi climatizzatori accesi nelle case.
    Bello, affidarsi al chiarore della luna, come aiuto nelle tante trappole fatte a forma di marciapiedi che si interrompevano e riprendevano, di micro-muretti a bordo strada, di gradini del palazzo. Il buio, poi, come lenzuolo sul quale proiettare ricordi, paure, speranze. Il buio come sfida.
    Bello, meraviglioso, affascinante, sì; che ci facevo io, allora, con l’APP “torcia” del mio Galaxy Nexus? Certo, la caviglia si è salvata, ma la poesia è morta.
    E ai miei nipotini io cosa potrò raccontare? Di quanta RAM aveva il mio smartphone? Già posso respirare la loro soffocante aria di compatimento.
    CIAO!

  5. Pingback: Preparativi. | Muninn

  6. I classici – non classici mi incuriosiscono sempre…
    Tra l’altro la copertina è stupenda!

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