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Lo strano Natale di Mister Buzzati.

il panettone non bastòChe senso ha scrivere un articolo di Natale due settimane dopo Natale? Ormai tutto è finito, passato, svanito e non bastano lucine lungo le strade, abeti di plastica pieni di palle colorate, neve di polistirolo su regali di polistirolo. Non basterebbero neppure le cose più genuine. Non bastano di certo mille mostre del presepio di provincia, ricolmi di statuine della Thun su drappi porpora luccicanti, l’aria pregna dell’Adeste Fideles cantato da Albano. Ormai, ragionando da gretti materialisti, non beccherei neanche molte visualizzazioni sul blog. Natale passa di moda molto velocemente. Lo scotch che regge le ghirlande sulle vetrine resisterà almeno fino all’Epifania, quando le grosse scritte SALDI ricoperte di fiocchi di neve argentati le sostituiranno nel giro di una notte. Anche le raccolte, pubblicate dagli editori appositamente per racimolare qualche vendita da parte di lettori annoiati, vengono ritirate nei magazzini. Giallo di Natale, noir di Natale, amore sotto l’albero, almeno settecento versioni diverse del Canto di Natale di Dickens: in brochure, tascabili, illustrate, per bambini, tratte dal film 3D con Jim Carrey, con gli animali, con zio Paperone. Ma forse ci sono libri che restano sugli scaffali tutto l’anno, un po’ nascosti magari, tant’è che i librai si dimenticano di metterli in bella mostra all’inizio di novembre. C’è da dire a loro discolpa che stanno tanto bene dove sono. Grazie al lavoro di Lorenzo Viganò la Mondadori ha ripubblicato quasi tutta l’opera di Dino Buzzati. Ogni opera introdotta da un saggio del curatore e la copertina meravigliosamente colorata dai disegni dell’autore stesso. Ora, togliere uno dei libri dalla fila di coste dai mille colori diversi sembra quasi un sacrilegio. L’appassionato buzzatiano quindi punta all’acquisto dell’intera nuova pubblicazione, nonostante abbia sugli scaffali già un paio di edizioni diverse del Deserto dei Tartari. Poco importa se per rimpinzare le pagine ogni libro porti con se un’inutile e logorroica biografia + bibliografia scopiazzata dal meridiano, che il lettore occasionale salta a piè pari e il lettore appassionato conosce già.

Il panettone non bastò (Mondadori, pp. 162, euro 9) è una raccolta di scritti, racconti e fiabe natalizie dello scrittore. Articoli, brevi fiabe e persino un fumetto sono stati raccolti assieme perché raccontavano il Natale. Alcuni inediti, alcuni articoli un po’ di maniera sui tempi che cambiano e alcune autentiche perle di patetismo e angoscia. Infinite variazioni di titoli natalizi: Strano Natale, Natale come una volta?, Fiaba di Natale, Atroce Natale, Troppo Natale, Rabbia di Natale, Lo stacco di Natale, Lo strano Natale di Mister Scrooge, Bonifica di Natale. Sempre uguali e sempre diversi, come il 25 di ogni anno, rigido nelle tradizioni fin sul menù del pranzo ma proprio per questo teatro manifesto dei profondi mutamenti dell’anima. Novelle tristi e raccontini allegri, sempre una profonda nostalgia per un mistero lontano e irraggiungibile.

Ho scritto prima che la copertina è disegnata da Buzzati, una foresta, gli alberi colossali contorti e neri, tonalità di grigi nel buio della notte invernale, la casa isolata e il cacciatore col suo cane sono piccoli, più piccoli del normale, perché è così che si sentono nel freddo dell’inverno montano. Le piccole luci gialle che vengono dalla casa, un calore piccolo e distante ma così prezioso e caldo, il Gatto Mammone che guarda fuori dalla tela. I racconti oltre la copertina illustrata sono così: un solitario muoversi tra le ombre, tra montagne di pietra o di regali inutili, soli in mezzo agli sconosciuti o con la mente persa al passato. Ma ci sono le luci laggiù, non le vedete? Non le raggiungerete mai, come i due piccoli personaggi sulla copertina, intrappolati nella tempera ma sapete che sono là e vi aspettano, anno dopo anno. Quel calore che non si sa spiegare perché ma che almeno per una volta all’anno ci rende tutti più buoni. Che non è vero si sa e ci pensano i telegiornali ad aggiornarci il giorno dopo su quanti omicidi ci sono stati la notte di Natale. Ma un’illusione forse serve più della verità. E si sente la speranza e si sente Dio e si sente che cos’è questa notte così bella per i bambini, per chi aspetta Babbo Natale e per chi non lo fa più. E poi ci si meraviglia scoprendo che Buzzati il Natale non lo festeggiava. Niente albero, niente presepe, niente regali, solo la tradizionale cena a casa della madre o della sorella e poi via via tra le montagne. E poi ci si meraviglia e alcuni dicono che non sia vero, che Buzzati non credesse neppure in Dio. Come ha fatto, rispondono offesi, a scrivere Lunga ricerca nella notte di Natale? Che è più piena di divinità e di beatitudine di tomi e tomi di libri di teologia? Era solo maniera? Era solo un lavoro? Ci ha preso in giro forse? Che brutta cosa farlo proprio col Natale, dicono gli ipocriti. E lui che invece ci credeva veramente, in tutto quello che scriveva, credeva nelle cose brutte e nelle cose belle, nel Natale e nel fatto che al Natale non ci credesse nessuno, neppure lui.

Dan, dan! Mezzanotte. E si era appena cominciato, e le cose più nostre e importanti restavano ancora da dire. Amen, è Natale. Alleluja!

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Il Grande Gatsby.

Devo ammettere che, prima di vedere il film, non avevo ancora ben chiaro cosa scrivere in questa recensione. Il libro era carino, scritto bene, ben composto, anche avvincente se vogliamo. Un classico della letteratura americana, elogiato, sulla bocca e sulla penna di tutti. Anche nei libri di storia: “Prima della crisi del ’29…come è ben descritto…nella famosa opera di…lusso sfrenato…costumi rilassati”. Ma nulla più. Niente che meritasse di essere ricordato. Devo ammettere che ero rimasto quasi deluso quando il libro dell’età del jazz mi aveva lasciato orfano del jazz. Era una storia, raccontata bene, ma una storia quasi fine a se stessa, senza picchi lirici di abbacinante bellezza, senza abissi di espressività materica. Sono arrivato a chiedermi perché il libro fosse diventato così famoso. Forse era solo un’altro esempio di come gli americani riescano a conservare, valorizzare ed esaltare qualsiasi sciocchezza appartenga alla loro storia, come il tacchino dei Padri Fondatori e il ciliegio di Washington. Un nostalgico sguardo verso un passato che sembra sempre più luminoso di oggi. Forse era solo un’altro esempio di come funzioni bene l’ufficio promozionale della Warner Brothers.

Eppure qualcosa c’è. Il sospetto che cresceva man mano che passava il tempo e riflettevo, venne confermato ieri sera. D’accordo con la mia ragazza, dopo aver letto entrambi il libro, siamo andati insieme alla prima del film. Ecco, che dalle profondità della memoria dove erano state lasciate, riemergono, col sottofondo di Jay-Z, le eccitanti, spassoseSOPRALERIGHEESALTANTI! F E S T E ! Gente strafatta e ubriaca che balla in una sequenza zoomata, gente che balla a testa in giù in un’altra sequenza zoomata. Divertimento assurdo, si intravede pure un barman che sembra preso da una qualsiasi discoteca milanese, proprio in quel momento magico in cui sta preparando gli sciottini.

Ma ecco, in quel momento ho capito. Io, e Baz Luhrmann il regista, eravamo inciampati nello stesso, identico errore. Anche lui lo aveva capito. Probabilmente, appena finito di girare il film, nella sua vasca idromassaggio, mentre leggeva per la prima volta il romanzo. Sul suo volto si dipinse lentamente il terrore: ommioddiochecosahoffatto. Ma era troppo tardi. Inutilmente cercò di rinviare il film sostenendo che se Tarantino aveva messo il rap in Django allora lui voleva più rap. Ma aveva già Jay-Z. E non si può avere più rap di Jay-Z. Non poté quindi impedire l’inevitabile. Forse è per quello che il film è uscito con così tanto ritardo.

Entrambi e chissà quanti altri, avevamo pensato di trovare il luccichio delle pailettes, il tintinnio del ghiaccio, la sfrenata velocità del jazz nelle pagine di Fitzgerald, ma non le avevamo trovate. C’era un arido paesaggio, sepolto sotto le ciminiere e le montagne di carbone della valle delle ceneri, sullo sfondo i pinnacoli dei grattacieli di New York. Una serie di personaggi ben delineati, descritti con cura, poche pennellate, due battute e loro già vivono di vita propria nel mondo di carta. Tutti perfetti nel loro esistere letterario ma banali nel loro essere umani. Nessuno mostra di godersi veramente la festa. Tutti bevono, cantano e ballano, ma per coprire l’assordante frastuono della propria infelicità e solitudine. Solo uno emerge, svettando su tutti gli altri. L’uomo di cui il libro racconta la storia: Jay Gatsby. Il Grande.

Con un tono leggero, quasi opaco, partecipe ma mai schierato, Francis Scott Fitzgerald racconta con spietata leggerezza e quasi noncuranza la straordinaria esistenza di un individuo simile, in grado di esistere solo nei libri. Fitzgerald scrive così bene da far sembrare sciocche le cose che dice. Nato dal nulla, incarnazione del sogno americano, Gatsby organizza grandiose feste per attirare l’amore di gioventù, che aveva perso a favore di un più ricco partito. Ma lui è più di un’incarnazione del sogno, lui vive nel sogno.

Il grande Gatsby (Einaudi, pp. 162, euro 8,50) è un libro breve, non c’è molto altro da dire. Ma mentre lo stavo leggendo per la prima volta ho sbagliato a prendere la metro TRE volte di seguito. Lo rileggerò per capire com’è potuto succedere. È un buon libro, quando e se lo leggerete, scordatevi il jazz, per favore. Vi resterà così per sempre l’immagine, il ricordo di una persona, quasi l’aveste conosciuta di persona. Con affetto lo difenderete dalle accuse, quasi vergognandovi di non aver capito prima chi era e di aver creduto anche solo per un attimo che potesse essere un bugiardo.

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