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Un mare di avventure.

Che cos’è un genere? Sostanzialmente un’etichetta nuova che appiccichiamo su uno scatolone bello grande dove abbiamo messo un po’ di libri che magari hanno un particolare in comune. Per alcuni motivi che ora sarebbe lungo spiegare, si è deciso che ci sono i racconti dell’orrore, che fanno spavento, i romanzi d’avventura che manco a dirlo, sono avventurosi e poi i gialli, dove si risolve un crimine. Poi c’è chi dice che ci siano i thriller, che fanno spavento come i racconti dell’orrore ma che non sono proprio così…

Ma di cosa sto scrivendo? Ingarbugliarsi in discorsi teorici all’inizio di una recensione è quanto meno sconsigliabile. Ma che fare? Il libro di oggi sfugge da una parte e dall’altra, come una saponetta bagnata. Non si lascia afferrare. Certo, potrei scrivere tranquillamente che si tratta di un libro di “avventure per mare”. Ma mancherebbe qualcosa, nella definizione di questa massa multiforme eppure perfettamente organizzata. Sento, si, credo proprio di sentirlo…lui, l’autore. Ride. Una risata sabbiosa, quasi una tosse, che arriva da un luogo lontano e chiuso, dove non c’è spazio per l’eco. I secoli cominciano ad accumularsi sopra alle assi di legno marcito della sua bara, ma sono sicuro che lui, proprio ora, stia ridendo. Di gusto. Sarebbe una risata cristallina e piena di gioia, se non fosse per le condizioni non proprio presentabili del suo cadavere, costretto in pochi metri per l’eternità. Ride perché ha raggiunto il suo scopo: mi ha portato a spasso per i mari, tra tempeste e ammutinamenti, fino ai mari inesplorati dell’Antartico. Mi ha condotto per mano, dosando con sapienza artigianale una quantità incredibile di dettagli inutili con avvenimenti inverosimili. Ha stuzzicato la mia curiosità, la mia voglia di scoprire fino a che punto potesse arrivare la sua immaginazione. E poi mi ha abbandonato. Solo, disperso. Come un naufrago tra le pagine. Era il suo obbiettivo fin dall’inizio e ora ride.

Le avventure di Gordon Pym (Feltrinelli, pp. 229, euro 8,50) è il libro. Il signor Edgar Allan Poe di Richmond, Virginia, è l’uomo che ride sottoterra. Ci troviamo di fronte senz’altro a un oggetto curioso: è l’unico romanzo propriamente detto scritto dal signor Poe; è stato letto e ha influenzato autori diversissimi come Melville e Verne; è tra i primi a spingere lo sguardo del lettore verso il Polo Sud; potrebbe essere tranquillamente definito “postmoderno”, se solo non fosse stato pubblicato ancora prima che ci fosse qualcosa da definire “moderno”.

L’autore gioca con la sospensione dell’incredulità fin dal titolo, che nell’originale era The narrative of  Arthur Gordon Pym of Nantucket, specificando quindi che si tratta di un racconto, e non di un resoconto affidabile. Qui cominciano i problemi. Edgar Allan Poe autore introduce il romanzo con una nota scritta da Gordon Pym personaggio, che racconta di aver affidato a Edgar Allan Poe personaggio la pubblicazione della sua storia, senonchè da un certo punto in poi sarà Gordon Pym autore a continuare il racconto delle avventure di Gordon Pym personaggio. A questo punto a me faceva già male la testa. Queste premesse vengono però fatte passare in secondo piano dall’abilità dell’autore che ci fa vivere un’ottima avventura marinaresca, condita da una buona dose di orrore ai limiti dello splatter, di ansia claustrofobica e di rapidi colpi di scena ai limiti della credibilità. Il giovane Pym viene sballottato da una situazione pericolosa all’altra, ma sono i rischi del mare. Abbordaggi, ammutinamenti, navi fantasma e naufragi sono all’ordine del giorno nella letteratura del genere. Aggiungete personaggi grotteschi, come DIrk Peters, mezzosangue indiano dalla forza straordinaria ma con una curiosa passione per le parrucche di pelliccia. Come nei viaggi in mare alla tempesta può seguire la bonaccia e da un certo punto il racconto si trasforma in un diario di bordo dettagliato al millimetro che indica con precisione latitudine longitudine e il numero di pelli di foca raccolte nella stagione di caccia. La noia. Perché? Per preparare i lettori a tutto quello che ci sarà dopo. Lo spazio libero nella mappa, che attirava Conrad come un magnete, viene riempito dalla più sfrenata fantasia di Poe. Folli idee antartiche impresse sulla carta senza senso logico, l’immaginazione riempie le fredde regioni polari di allucinazioni e scoperte incredibili. La tensione viene portata al limite, la pagina scorre veloce e inesorabile fino alla fine più sorprendente che possiate immaginare. Cosa? Cosa si nasconde dietro la cortina di nebbie? E quando anche voi avrete letto l’ultima frase e ciò che la segue, la vostra mente si riempirà di inutili domande, a cui è impossibile rispondere. E la sentirete, la risata. Non il riso impastato di un alcolizzato ma la genuina espressione di gioia di un gentiluomo del Sud che vi ha giocato un bello scherzo, mentre sedevate alla sua tavola. E riderete anche voi.

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Nota del recensore.

A pagina 235 di Le avventure di Gordon Pym, nella postfazione scritta dal traduttore e curatore Davide Sapienza si può leggere:

E come non ricordare che Howard Phillips Lovecraft, nel 1931, scrisse Le montagne della follia, la continuazione di Gordon Pym.

Non è vero. Come si può facilmente trovare anche sulla pagina di Wikipedia dedicata al libro, si spiega come Lovecraft abbia solamente tratto ispirazione da alcuni brani del romanzo di Poe. L’unico libro che può essere definito la continuazione o, in italiano, il seguito di Le avventure di Gordon Pym è stato invece scritto da Jules Verne ed è La sfinge dei ghiacci, che sto leggendo. A questo punto viene da chiedersi perché un curatore che abbia perso un po’ del suo tempo per cercare il nome completo di H. P. Lovecraft non abbia controllato che il suo riferimento fosse corretto. Viene da chiedersi perché abbia fatto un’affermazione del genere. Viene da chiedersi perché sia stato scelto questo curatore per Poe e se costui abbia effettivamente una competenza specifica dell’autore americano e dei suoi eredi di qua e di là dell’Atlantico. Viene da chiedersi. Ma siccome al vostro recensore di fiducia manca la lettura di Alle montagne della follia, risposte fino ad allora non ce ne saranno, almeno su Muninn. Per quanto ne capisco però il resto della traduzione non sembra malvagio, nonostante il seme del dubbio sia stato piantato. Se qualche appassionato lettore di Poe conosce un’edizione migliore si faccia avanti, sarà ricompensato.

Se volete saperne di più su La sfinge dei ghiacci leggete QUI.

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Paura del buio.

Io non sono nato nell’epoca in cui sulle mappe c’erano ancora spazi vuoti, non sono nato all’epoca della corsa verso l’ignoto, incontaminato, inaccessibile. Non sono nato neppure all’epoca della conquista dello spazio, dell’esplorazione dei poli o della ricerca delle sorgenti del Nilo. Ma le cartine geografiche mi hanno sempre affascinato. Se hai sotto agli occhi il disegno di un territorio, di una nazione, le anse di un fiume o una catena montuosa per piccole che siano, pare che tu possa dominarle dall’alto, controllare il tuo minuscolo regno. Fantasticare su città da costruire, canali da aprire, cime da traforare, mura da innalzare. Foreste impenetrabili, torrenti insidiosi, popoli ostili o amici. Con un piccolo atlante si può essere facilmente dei piccoli re. E probabilmente non la pensavano diversamente i migliaia di esploratori che hanno dato il loro nome o quello di una regina ad altrettanti laghi e cascate. Mappare un continente era come rubarne un pezzettino d’anima, un trofeo come un altro, una testa di rinoceronte.

Ora, quando ero bambino avevo una passione per le carte geografiche. Stavo ore a guardare il Sud America, l’Africa o l’Australia, e mi perdevo nelle glorie dell’esplorazione. Allora c’erano parecchi spazi vuoti sulla terra, e quando ne trovavo uno che sembrava particolarmente invitante sulla carta (ma lo sembravano tutti) ci mettevo il dito sopra e dicevo: «Quando sarò grande andrò là».

In quell’epoca nacque invece Joseph Conrad, che nel 1899 pubblicò “Cuore di Tenebra” (Mondadori, pp. 271, euro 8,50) da cui sono tratte le parole qui sopra. Figlio di un generale polacco, Konrad scappò di casa e si imbarcò su un naviglio inglese, con cui solcò i mari e conobbe il mondo come pochi scrittori d’avventura fecero. Leggendo il suo libro più noto si è come ostacolati nella lettura dal suo particolare realismo: è come se l’autore avesse vissuto veramente quelle esperienze, senza inventarle ma meditandole a lungo. Da queste rimuginazioni continue nascono poco più di cento pagine (infatti l’edizione Mondadori è con il testo inglese a fronte) rade di avvenimenti ma densissime. Nella scrittura espressionista di Conrad sono le crepe nel terreno a parlare, sono i pilastri immobili della foresta, il suono dei tamburi nell’oscurità, le luci e le ombre. Grazie alle parole del suo alter-ego Marlow queste presenze sono spiegate, interpretate, filtrate, non si può arrivare alla Verità direttamente, c’è bisogno di un intermediario, o più di uno, come in una Divina Commedia primordiale.

Così siamo condotti lungo le rive del fiume Congo, nell’Africa più profonda, nera, oscura, dove la foresta è più fitta e dove gli uomini si perdono anche se rimangono vicino al sentiero, dove la tenebra è vera, come solo la notte nel bosco può essere. Mentre risaliamo il corso del possente fiume scendiamo sempre più nella pazzia umana, i personaggi che si incontrano sono dei disadattati, dei folli, che sparano contro le ombre della foresta, che inseguono sogni di gloria impossibili, o si isolano nella loro camicia inamidata e perfetta mentre il mondo attorno a loro si sgretola. Su per il fiume fino alla meta, al motivo di tutto un viaggio, di una vita quasi, Kurtz. Un incontro deludente ma che non avrebbe potuto essere altrimenti ed è necessario per capire che lui e tutti gli altri, Marlow compreso, sono uomini vuoti. Il cui vuoto interno non può essere colmato dal mondo intero, da tutto l’avorio dell’Africa. Eppure per l’autore è forse meglio essere vuoti che essere pieni di stupidità, come i rappresentanti della Compagnia belga che saccheggiano e violentano, o come gli abitanti della città sepolcrale. Il viaggio all’interno della propria ombra lo si paga a caro prezzo, “Cuore di tenebra” non è un libro semplice da leggere, non è un libro semplice da capire, nonostante sembra che non racconti proprio nulla. Non è un libro che si può leggere una volta sola, o almeno che lascia soddisfatti alla prima passata. Perché dice delle cose semplici ma da sentire, non da scrivere e ci vuole una lettura calma e attenta, per farle entrare. Un’opera che racconta di cose vere ma che sembrano artificiali da quanto lo sono.

Mentre gli eroi dell’imperialismo europeo portavano a termine i compiti imposti dal fardello dell’uomo bianco, cancellando gli spazi vuoti dalla cartina, veniva scritto questo libro; che non è più di tanto un libro di denuncia sugli stupri che sono stati commessi in Congo, ma un semplice romanzo di formazione, pessimista e disperato, Il viaggio è dentro l’anima e alla fine non resta niente, nient’altro che una tenebra immensa.

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