Sono appena tornato da una lunga passeggiata giù in città, vicino al mare. Siedo sudaticcio sul letto, portatile in grembo, la finestra spalancata, la voce delle rane fa grrrra grra grra da qualche parte dove è umido. Ho camminato a lungo insieme a mio fratello sul lungomare, passando veloci attraverso folle numerose, luci colorate, imitatori di Ligabue. Il mare, immobile e nero che assorbe tutte le luci della costa, alla nostra sinistra mentre risalivamo. Migliaia di storie dai fili intricati si svolgevano attorno a noi veloci viaggiatori, tutt’altro che disattenti: nella notte già matura ogni faccia sotto i lampioni racconta una storia importante, così importante da riflettere le nostre e rimandarcele indietro svuotate, e riportate alla loro sostanziale miseria, piccolezza. Tutti inseguono qualcosa nella calda e umida notte estiva e noi passiamo attraverso alle loro piste odorose, ininfluenti sul tragitto tra il cane e il suo tartufo. Siamo rientrati presto, la nostra meta questa volta era casa e niente altro, ma non ho potuto non pensare all’ultimo romanzo letto. Non saprei dire se il libro è arrivato a me proprio nel momento in cui avevo la giusta predisposizione umorale, oppure se tutto è una suggestione fantastica provocata dal libro stesso. Ma sicuramente è lui che mi ha riportato a scrivere e a raccontare, dopo troppi e lunghi giorni. Per un po’ mi accompagnerà: adesso, e per chissà quanto tempo, camminando da solo o con altri in silenzio lungo le notti affollate e solitarie delle nostre città, penserò al meraviglioso viaggio nelle notti come questa.
Quello di cui sto scrivendo, assieme a Moby Dick e a chissà quanti altri, è il tipico libro di cui puoi trovare citazioni ovunque, ma che difficilmente viene letto. Io, per mio conto, confesserò di essere tornato al titolo proprio grazie a una citazione, quella che apre La grande bellezza. Ma non importa il come il dove, importa solo il riverbero che le pagine mi hanno lasciato addosso. Seguitemi allora nella notte, non quella densa e organica dei boschi profondi, ma quella piena di luci, odori e rumori della città, mentre Louis-Ferdinand Céline mi precede. Prendete fiato e lasciate una traccia, perché c’è il rischio di perdersi.
Viaggio al termine della notte (Corbaccio, pp. 553, euro ***, trad. Ernesto Ferrero) è esattamente quello che dichiara di essere: un viaggio, declinato contemporaneamente in tutte le sue possibilità. Parte dalla Francia fatta di villaggi che bruciano nella Grande Guerra, fa sosta nei sanatori appena inventati per curare le ferite della mente, scappa lontano, in Africa, per sfuggire alla miseria materiale e morale postbellica solo per scoprire che la miseria è una malattia dell’animo umano e si può trovare in ogni parte del mondo. Nei sobborghi puzzolenti che Parigi fagocita alla campagna, lungo un fangoso fiume tropicale, nelle gioiellerie sotto la Madeleine, nelle fabbriche della Ford a Detroit e tra le guglie di pietra di Manhattan, nella pulciosa provincia francese, nelle case dei ricchi, nelle umide catapecchie dei poveri e nelle ancora più miserevoli case di una piccola borghesia che è la classe più povera di tutte, Ferdinand Bardamu viaggia ma non cerca più niente. Non vuole raggiungere il termine della notte, perché sa che non può raggiungerlo, sa che l’unica cosa che può fare è immergersi sempre più nella notte più nera, quella della sua anima. E allora si sovrappone un altro viaggio, dove i luoghi reali, animati e agitati dalla forza devastante dell’argot si crepano, mostrando la loro natura profondamente onirica, in un gioco infinito di specchi, che annulla la differenza tra verità e finzione, tra confessione e invenzione narrativa. Non c’è nulla, se non il sospetto, la leggera sfasatura e incomprensibilità di certi passaggi a svelarlo, a voi il gusto di trovarlo, di capire quando, mentre galleggiate tranquilli nel flusso ritmato della scrittura Céliniana. Una serie stupefacente di doppi, pseudonimi, somiglianze, che non vengono e non devono essere spiegate o rese coerenti, perché creano l’incredibile e quasi incomunicabile magia che avvolge questo libro. Louis Destouches, Louis-Ferdinànd Céline, Ferdinànd Bardamu, e poi altri ancora: medici per davvero, dentro e fuori dal libro, scrittori e mentecatti, perdenti in partenza perché il loro obiettivo masochista è proprio la sconfitta, verso un abbruttimento totale e umano.
Questo libro non parla di niente, non vuole arrivare da nessuna parte, perché tutto è niente. Vuole solo scappare da dov’è appena arrivato, come tutti i personaggi che vi incontrerete dentro. Voi allora non fate resistenza, voi lettori lasciatevi andare e guidare tra bestemmie e immagini di poesia struggente, tra crimini di una bassezza e di uno squallore da non meritare neppure una pena e generosità di bontà vera, come chiatte lungo i canali che tagliano la pianura francese, seguendo la corrente.
Cosa vi lascerà? Non so. A me ha lasciato una tremenda voglia di fuggire, e poi tornare, all’infinito, inseguendo la notte.
Notre vie est un voyage
Dans l’Hiver e dans la Nuit
Nous cherchons notre passage
Dans le Ciel où rien ne luit
Canzone delle Guardie svizzere, 1793