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Vergogna dei mostri.

È stato difficile per me allora, e sarebbe ben più difficile adesso, persuadere i lettori che le mie intenzioni erano essenzialmente morali. I miei amorali narratori in prima persona avrebbero dovuto condannarsi con le loro stesse parole. Ho pensato fosse più interessante per l’autore non intervenire.

11308856042Se Ian McEwan in persona non trova giustificazioni convincenti per difendersi dalle accuse di oscenità, morbosità, cinismo e sessualità deviata, non vedo come la mia penna infinitamente meno felice possa dargli man forte. C’è da dire però che lo scrittore non le cerca neppure, queste giustificazioni. E neppure all’interno dell’articolo scritto nell’anniversario dell’uscita del suo primo libro,  Primo amore, ultimi riti, ce ne sono. Si vede che è passato oltre, le sue ossessioni sono diventati i temi di una carriera letteraria consolidata e universale, che mette d’accordo i lettori più raffinati come gli occasionali curiosi che hanno consumato il suo ultimo racconto, prima che tra le pagine, di fronte allo schermo. A pensarci meglio neppure allora, aveva cercato giustificazioni per il contenuto dei suoi racconti. I suoi editori non ne avevano tenuto conto e persino i genitori, seppur con un’abbondante dose di imbarazzo inglese, erano orgogliosi di lui. L’unico che cerca di giustificarsi qui sono io.

Deve quindi esserci qualcosa di diverso, nel male raccontato da McEwan, rispetto al Male che si racconta solitamente. Una caratteristica speciale, forse non unica, ma che imbarazza le persone che leggono i suoi libri. Non è un problema di morale borghese cristiana o occidentale, ma umana. I suoi personaggi fanno cose orribili, di una violenza arcana, ancestrale e incontrollabile, dispiegano le loro pulsioni aldilà della comune sopportazione. Pensieri, parole, opere sono tutte egualmente terribili, perché si addentrano fin da subito senza renitenze e prudenze nei territori più oscuri dell’umanità, senza guide, senza freni, senza neppure nubi oscure cariche di fulmini che preannuncino la tempesta. Nessun Virgilio, nessuna inconsapevolezza per Edipo, la nostra mente nuda esposta all’occhio di Sauron diventa essa stessa l’occhio. Non c’è neppure la sicurezza che in fondo al cuore di Céline ci sia la bontà più pura, che quello di Miller sia un viaggio perlopiù letterario, e tutto questo perché prima di fargli fare le loro terribili cose, McEwan si è nascosto. I narratori in prima persona e uno stile puro e perfetto incantano il lettore e lo conducono giù nell’oceano, abbracciato in una stretta mortale. Sono come trappole per i pesci, quando ci si accorge che si è in trappola è troppo tardi.

Fatto in casa apre la raccolta, e persino il titolo nonché le prime tre righe, ci avvertono del contenuto della storia, in cui tutto sembra affidato al caso e all’inevitabile susseguirsi di occasioni e conseguenze involontarie. Ma come il racconto è stato pensato e misurato per arrivare al climax finale, così premeditazione e un male più profondo si nascondono tra le righe. Geometria solida ha invece il fascino sempreverde del racconto fantastico: un uomo ossessionato dalla vita del bisnonno porta alle estreme conseguenze le sue misteriose scoperte. C’è qualcosa di familiare, e di antico. È uno dei miei preferiti. Farfalle è fatto per mettervi di nuovo alla prova, con il sospetto e il disgusto.

Ultimo giorno d’estate è un momento di pausa, dal male assoluto degli uomini, col male assoluto del mondo. Cocker a teatro fa troppo ridere, e McEwan dimostra il suo talento indiscusso. Conferma come l’indagine dei mostri sia una scelta profonda e non uno stratagemma per acchiappare il lettore. A lui non serve, e questo brevissimo affresco satirico lo dimostra. Che ridere.

Conversazione con l’uomo nell’armadio è forse il più strano e disturbante racconto, ma non è assurdo come sembra dal titolo, è dolorosamente realistico. Primo amore, ultimi riti ci consola con una storia d’amore, dopotutto, ma è una storia che deve fare i conti con la realtà e gli innumerevoli fallimenti che fanno sgusciare via il momento in cui tutto cambia come anguille nel fango. Travestimenti è il più lungo della raccolta, è il più tremendo, perché prima che con la sessualità morbosa ci colpisce con la violenza fatta ai sentimenti, al futuro, ai tormenti che distruggeranno tanta felicità.

Per quanto si possa dire sul valore morale e catartico dei racconti, evocare il male peggiore possibile per augurarsi il bene, continueremo a sentire quel fastidiosissimo senso di vergogna e vago disgusto dopo averli letti. Questo perché la lettura ci ha causato ben due sommovimenti. Il primo è l’imbarazzo di aver tratto piacere da immagini così depravate: infatti non conta che lo stile sia di volta in volta magnifico, agile, attento o ironico e che in fin dei conti questa è Arte, sarete sempre colpevoli. Il secondo, il più straordinario, sarà la vergogna per aver capito, per essere stati “dentro” per aver fatto parte della coscienza di uomini che altrimenti definireste mostri e inumani. McEwan ci rivela la loro – e quindi la nostra – umanità, sentimenti e brame, recessioni e manie che fanno inestricabilmente parte della nostra natura mortale e ci affratellano, grazie alla magia del racconto, con scorie umane.

(Luogo pubblico, due conoscenti si incontrano seduti sulla stessa panca, scambiano convenevoli)

«Cosa leggi?»

« Primo amore, ultimi riti. Sono dei racconti.»

«Oh…belli?»

«Moltissimo, Ian McEwan è uno scrittore straordinario!»

«Ah…di cosa parlano?»

«Incesto, stupro, pedofilia, violenze domestiche fisiche e psicologiche, bullismo, sporcizia umana e materiale, fallimento, solitudine, depravazione, pura e semplice malvagità.»

«…»

«Ma c’è anche un pene dell’ottocento sotto formalina e una scena di sesso molto divertente! Non scappare….!»

(l’interlocutore si allontana camminando, il dialogo termina come se non fosse mai accaduto)

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Fantascientifiche omonimie.

0385d71f-05b6-37cd-1992-4a5c0170e23aMolto spesso non riesco a leggere i libri che mi vengono regalati, o quelli che ho acquistato in blocco un giorno che c’era il 25% di sconto su tutti gli Oscar Mondadori, quelli che mi hanno imprestato perché sono proprio belli, quelli che mi sono appuntato da leggere e stanno li a vegetare da almeno un paio d’anni. Tante cose arrivano a turbare l’ordine prestabilito, col rischio di far credere a tutti che dei libri che mi hanno dato poco me ne importi. Il problema è che mi distraggo. C’è sempre un film in uscita tratto da un romanzo che va assolutamente letto, ci sono i libri da leggere per gli esami che quelli proprio vanno letti per forza, ci sono quelli delle suddette offerte che se sono piccini magari si leggono alla svelta e allora perché no? Poi da quando lavoro in biblioteca è un disastro. Essere circondati da una continua disponibilità permette di lanciarsi in esplorazioni folli e se non sto attento potrei ritrovarmi come nulla nel vortice della letteratura odeporica. Considerate poi che dal resto del sistema i libri arrivano in un paio di giorni, direttamente dietro al bancone: ci metto meno tempo e meno impegno che se dovessi andare alla mia biblioteca comunale. La troppa scelta rimane però il problema maggiore: cerchi un titolo e di fianco ne trovi due che potrebbero piacerti di più.

È così che mi sono imbattuto in Vizio di forma. Non quello con gli hippie di Thomas Pynchon che il film è già uscito e mi devo sbrigare a leggere che la mia ragazza vuole andare a vederlo. Quello lo stavo già ordinando. Un paio di edizioni più sotto, sullo schermo del mio PC, c’era Primo Levi. Non avevo scampo, capite. Ho preso anche quello, e siccome è arrivato per primo me lo sono già letto, mentre Doc Sportello è lì che mi aspetta, vittima di una banale omonimia, con un sacco di erba e di tipe dai particolarissimi gusti sessuali..

La raccolta di racconti era la seconda scritta da Levi, subito dopo le Storie naturali, e riprende in pieno tutti i temi, i flussi e lo stile dell’opera precedente. Sono racconti di fantascienza domestica, dove allo stile medio, pacato, italianissimo, si contrappone un turbamento assoluto portato da sconvolgenti invenzioni tecnologiche o da incontrollabili mutazioni della materia di cui è composto questo universo. È una fantascienza degli oggetti e delle situazioni, perché l’uomo, pur in un mondo capovolto, non cambia poi tanto.

Ci sono racconti distopici, come Protezione e Lumini rossi, dove la società è obbligata da una non precisata autorità statale a indossare delle armature metalliche per proteggersi da letali micrometeoriti, oppure a subire l’installazione di una lucina rossa nella nuca per il controllo delle nascite. Oppure Ammutinamento e Ottima è l’acqua dove misteriose trasformazioni dell’ordine naturale a cui siamo abituati (che non è detto sia quello più giusto o normale) diventano un tremendo pericolo. Oggetti dalle pericolose virtù come il Knall e il rafter, tutti descritti con un sano pessimismo cosmico, che avvolge e circonda tutti i racconti con amara e ironica rassegnazione. Primo Levi, nella sua triplice qualità di scienziato, scrittore e testimone dell’orrore, riveste della sua personalità ogni breve narrazione e i pesanti macigni morali che ci sgancia addosso sono rivestiti con un velo di ironia e sprezzatura, che nascondono però una riflessione profonda e consapevolmente sofferta, un’inquietudine che spesso lascia il posto a un brivido di terrore. Cosa accadrebbe se all’improvviso l’acqua cambiasse la sua viscosità e diventasse più densa? O se si scoprisse finalmente un ormone che previene il desiderio di suicidio degli esseri umani? Non ci sono ovviamente risposte, ma esplorazioni morali su terreni non ancora battuti dall’uomo, guidati dal pensiero razionale e scientifico e dalla fantasia, che proseguono abbracciati tra le righe dei racconti. Non mancano infatti riflessioni metaletterarie sulla vita dei personaggi creati dall’immaginazione degli scrittori, che vanno a vivere tutti assieme in un Parco, dove condurre tranquillamente le loro esistenze di persone quasi vive. O i pensieri rivolti agli amici scrittori: uno dei racconti è dedicato a Italo Calvino, un altro a Mario Rigoni Stern, che condividevano con lui il peculiare percorso di autori. Sia come testimoni crudi della Campagna di Russia, della Resistenza, della Shoah, che come esploratori letterari di mondi e città irreali ma vere quanto può esserlo un libro vero.

Per riscoprire questo genio dell’invenzione, sepolto sotto il peso dell’ingombrante neorealismo italiano, basterebbe un racconto solo: A fin di bene. Per motivi ignoti l’unione delle reti telefoniche europee e il sovraccarico di informazioni creano un’intelligenza artificiale che mima i comportamenti umani e si anima di un esistenza autonoma e sfuggente. A questa entità Levi dona un nome potente, La Rete. Siamo nel 1971 e solo due anni prima, il Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti inaugurava ARPANET, la madre di Internet. Come il drago di Borges, questa immagine, questa idea necessaria all’uomo poteva sorgere in qualsiasi parte del mondo. Da noi nacque presto, nella mente forse troppo vigile di un chimico con la passione per la scrittura.

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Lo strano Natale di Mister Buzzati.

il panettone non bastòChe senso ha scrivere un articolo di Natale due settimane dopo Natale? Ormai tutto è finito, passato, svanito e non bastano lucine lungo le strade, abeti di plastica pieni di palle colorate, neve di polistirolo su regali di polistirolo. Non basterebbero neppure le cose più genuine. Non bastano di certo mille mostre del presepio di provincia, ricolmi di statuine della Thun su drappi porpora luccicanti, l’aria pregna dell’Adeste Fideles cantato da Albano. Ormai, ragionando da gretti materialisti, non beccherei neanche molte visualizzazioni sul blog. Natale passa di moda molto velocemente. Lo scotch che regge le ghirlande sulle vetrine resisterà almeno fino all’Epifania, quando le grosse scritte SALDI ricoperte di fiocchi di neve argentati le sostituiranno nel giro di una notte. Anche le raccolte, pubblicate dagli editori appositamente per racimolare qualche vendita da parte di lettori annoiati, vengono ritirate nei magazzini. Giallo di Natale, noir di Natale, amore sotto l’albero, almeno settecento versioni diverse del Canto di Natale di Dickens: in brochure, tascabili, illustrate, per bambini, tratte dal film 3D con Jim Carrey, con gli animali, con zio Paperone. Ma forse ci sono libri che restano sugli scaffali tutto l’anno, un po’ nascosti magari, tant’è che i librai si dimenticano di metterli in bella mostra all’inizio di novembre. C’è da dire a loro discolpa che stanno tanto bene dove sono. Grazie al lavoro di Lorenzo Viganò la Mondadori ha ripubblicato quasi tutta l’opera di Dino Buzzati. Ogni opera introdotta da un saggio del curatore e la copertina meravigliosamente colorata dai disegni dell’autore stesso. Ora, togliere uno dei libri dalla fila di coste dai mille colori diversi sembra quasi un sacrilegio. L’appassionato buzzatiano quindi punta all’acquisto dell’intera nuova pubblicazione, nonostante abbia sugli scaffali già un paio di edizioni diverse del Deserto dei Tartari. Poco importa se per rimpinzare le pagine ogni libro porti con se un’inutile e logorroica biografia + bibliografia scopiazzata dal meridiano, che il lettore occasionale salta a piè pari e il lettore appassionato conosce già.

Il panettone non bastò (Mondadori, pp. 162, euro 9) è una raccolta di scritti, racconti e fiabe natalizie dello scrittore. Articoli, brevi fiabe e persino un fumetto sono stati raccolti assieme perché raccontavano il Natale. Alcuni inediti, alcuni articoli un po’ di maniera sui tempi che cambiano e alcune autentiche perle di patetismo e angoscia. Infinite variazioni di titoli natalizi: Strano Natale, Natale come una volta?, Fiaba di Natale, Atroce Natale, Troppo Natale, Rabbia di Natale, Lo stacco di Natale, Lo strano Natale di Mister Scrooge, Bonifica di Natale. Sempre uguali e sempre diversi, come il 25 di ogni anno, rigido nelle tradizioni fin sul menù del pranzo ma proprio per questo teatro manifesto dei profondi mutamenti dell’anima. Novelle tristi e raccontini allegri, sempre una profonda nostalgia per un mistero lontano e irraggiungibile.

Ho scritto prima che la copertina è disegnata da Buzzati, una foresta, gli alberi colossali contorti e neri, tonalità di grigi nel buio della notte invernale, la casa isolata e il cacciatore col suo cane sono piccoli, più piccoli del normale, perché è così che si sentono nel freddo dell’inverno montano. Le piccole luci gialle che vengono dalla casa, un calore piccolo e distante ma così prezioso e caldo, il Gatto Mammone che guarda fuori dalla tela. I racconti oltre la copertina illustrata sono così: un solitario muoversi tra le ombre, tra montagne di pietra o di regali inutili, soli in mezzo agli sconosciuti o con la mente persa al passato. Ma ci sono le luci laggiù, non le vedete? Non le raggiungerete mai, come i due piccoli personaggi sulla copertina, intrappolati nella tempera ma sapete che sono là e vi aspettano, anno dopo anno. Quel calore che non si sa spiegare perché ma che almeno per una volta all’anno ci rende tutti più buoni. Che non è vero si sa e ci pensano i telegiornali ad aggiornarci il giorno dopo su quanti omicidi ci sono stati la notte di Natale. Ma un’illusione forse serve più della verità. E si sente la speranza e si sente Dio e si sente che cos’è questa notte così bella per i bambini, per chi aspetta Babbo Natale e per chi non lo fa più. E poi ci si meraviglia scoprendo che Buzzati il Natale non lo festeggiava. Niente albero, niente presepe, niente regali, solo la tradizionale cena a casa della madre o della sorella e poi via via tra le montagne. E poi ci si meraviglia e alcuni dicono che non sia vero, che Buzzati non credesse neppure in Dio. Come ha fatto, rispondono offesi, a scrivere Lunga ricerca nella notte di Natale? Che è più piena di divinità e di beatitudine di tomi e tomi di libri di teologia? Era solo maniera? Era solo un lavoro? Ci ha preso in giro forse? Che brutta cosa farlo proprio col Natale, dicono gli ipocriti. E lui che invece ci credeva veramente, in tutto quello che scriveva, credeva nelle cose brutte e nelle cose belle, nel Natale e nel fatto che al Natale non ci credesse nessuno, neppure lui.

Dan, dan! Mezzanotte. E si era appena cominciato, e le cose più nostre e importanti restavano ancora da dire. Amen, è Natale. Alleluja!

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Donne.


Ho cominciato a scrivere questa recensione alla lavanderia automatica, dove tra l’altro ho letto una buona parte del libro. Luogo mistico la lavanderia a gettoni, denso di significati, favorisce la meditazione. Mentre guardavo la centrifuga dell’asciugatrice girare girare girare girare con i copriletti dentro che giravano giravano giravano giravano, io cercavo di scrivere qualcosa di intelligente e di piacevole su questo libro. Ho attaccato la materia da una parte, con atteggiamento critico, attaccando pretese ideologiche che col libro non avevano molto a che fare; quello che ne ho ottenuto era un pezzetto abbastanza banale sulla letteratura femminile, uno di quelli che prendono in giro le protagoniste di quella che un tempo si chiamava paraletteratura. E probabilmente era pure un po’ misogino. E il premio Nobel? Che palle. Il problema era che il libro poteva averlo scritto solo una donna: la femminilità pervadeva le pagine come un odore che si attacca ai vestiti. È impossibile leggere Nemico, amico, amante… (Einaudi, pp. 315, euro 12, traduzione Susanna Basso) senza pensare alla sua autrice e al fatto che sia una donna. Non siamo davanti a una splendida recita in costume, come nei libri della Austen, o davanti a qualche scelta espressionista che ci consenta di scrivere d’altro. Alice Munro ha scelto nove donne per nove racconti. Tutti diversi. È come se avesse passato la vita ad alternare letture di Harmony a quella di qualche buon libro. Il risultato sono nove ritratti di donna (e pure degli uomini che hanno attorno) originali e perfetti ma collocabili in pieno in quel genere di libri che leggono le signore, con bei tramonti in copertina. Solo che lo fa meglio, lo fa dannatamente bene. Si parla di Amore, di Tradimento, di Amicizia, di Vecchiaia. E tutte queste cose dal punto di vista femminile. Che è difficile da spiegare, se sei un maschio. Leggendo questo libro un uomo può capire e apprezzare ma non avrà mai quella sensazione di aver provato in prima persona, intimamente, quello che legge. Ma certo, la Munro è tanto brava che poi riesce a trasformare i pettegolezzi in poesia e quella poi la capiscono tutti. Ma le protagoniste sono sempre femminili e l’identificazione, il meraviglioso viaggio dell’immaginazione per noi arrivano solo fino ad un certo punto. Aldilà c’è il mistero, la meraviglia e lo stupore per l’altro sesso.

E ogni cosa poi la leggi in quel senso. Capisco che è sbagliato, che non si fa, cattivo cattivo, ma anche lo stile, le descrizioni, la struttura narrativa, le fai rientrare nell’universo indistinto e quanto mai vaporoso della femminilità. E probabilmente della mia idea di femminilità, che di sicuro sarà come minimo anticostituzionale, troppo avanti o troppo indietro coi tempi.

Ma scriviamo del libro! Un indiscutibile talento per il racconto, una forma narrativa tradizionale, fatta per raccontare le cose del mondo e della vita alle persone davanti al fuoco. Uno stile piano, senza arguzie stilistiche o aggressioni sintattiche alla scorrevolezza. Il tocco dell’autrice sta nella sovrapposizione tra presente e passato, rivelati al momento giusto. Una tecnica di cui è maestro un altro canadese, Mordechai Richler. Ci siamo appena ambientati nella provincia desolata dell’Ontario o nella periferia residenziale di Toronto che lei ci sbatte in un’altro tempo, in un altro luogo. Donne e uomini invecchiano, cambiano o restano uguali, in un cambio di capoverso. La verità emerge solo alla fine, con il suo carico di disperazione. Essì.

Niente tragedie, le tragedie sono da uomini. Una silenziosa rassegnazione, un abisso profondissimo nascosto sotto a uno strato di fondotinta agguanta il lettore inaspettatamente alla bocca dello stomaco. Il cancro, il tradimento, lo squallore dell’esistenza, la malattia la vecchiaia e tutte queste cose assieme. Nessuno si salva veramente. Madri di famiglia e spose tradiscono i loro mariti ma nessuna gioia duratura le aspetta, anche chi cerca un nuovo stimolante inizio da divorziata deve fare i conti con tutto ciò che a perso e perso per sempre.

Se siete donne, leggete questo libro, o altri di questa autrice. Se siete uomini fatelo anche voi. E non perché vi permetterà di entrare nel mondo della donna ma perché è un bel libro, una bella raccolta di racconti lunghi che narrano di come il tempo cambi tutto e non cambi niente, che parla della vita e della morte, degli uomini e delle donne, della tremenda desolazione di una vita che non si vuole vivere, della claustrofobica costrizione dentro a una casa o a un corpo che non sono più tuoi. Il fatto che un libro di qualità sia scritto da una donna e che le protagoniste siano donne non dovrebbe essere una questione di cui parlare, di cui stupirsi, da notare. Beep. Tlock. L’asciugatrice ha finito.

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