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Di Golem e dei.

coverLa nostra contemporaneità intellettuale, il nostro insegnamento universitario, saggi e libri di critica sulla storia della letteratura ci raccontano a lungo e con gusto del postmoderno e delle sue varie componenti alchemiche: l’ironia, la scomparsa dei generi o la loro ibridazione, la metaletteratura e i piani di lettura. I numi tutelari di Borges e Calvino ci guidano, il loro nome scritto su un foglietto e inserito nella bocca di argilla. Poi però, a guardarsi intorno, sembra che girino tutti a caso. La biblioteca immaginaria e la mappa dell’imperatore sono metafore utilissime quando si parla di Amazon o Maps, e Italo avrà detto sicuramente qualcosa di intelligente su questo o quell’argomento quando serve. Nella mia infinita pigrizia e arroganza posso tranquillamente affermare di aver conosciuto questi due grandi autori da lontano, in modo distratto e superficiale, ma ho l’impressione di essere in buona compagnia. C’è chi dice che il romanzo è morto, chi che non ha mai vissuto, che la trama è inutile, che comunque sono meglio le serie televisive, chi dà la colpa a Checco Zalone (ma non faceva cinema?) e che è tutto uno schifo ma alla fine scriveranno tutti racconti perché si adattano meglio alla nostra società. Lo ribadisco. Sono pigro e distratto da praticamente qualsiasi cosa che mi venga agitata sotto al naso, ma francamente non ci capisco niente. Da qui il tentativo di approfondire la faccenda in modo autonomo, leggendo più cose che spieghino la materia di cui sono fatti i libri.

Una spinta nell’affrontare lo gnommero arriva da un gruppo di lettura (IL gruppo di lettura della Capa) il tutto a discapito della mia vita lavorativa, sociale e sentimentale. Il primo stimolo, ovviamente collaterale e imprevisto, del gruppo è Micheal Chabon. Scrittore che in questo caso considereremo come autore dei saggi raccolti in Mappe e Leggende, trascurando la sua collaterale attività di vincitore di Premi Pulitzer e scrittore di bestseller.

Visti i pesi massimi BorgHes e Calvino che aprono la recensione, non si può non pensare che abbia con loro qualcosa a che fare, soprattutto se si parla di mappe e di leggende. Sia la cartografia che la mitologia sono un modo di immagazzinare informazioni: da dove arriviamo e dove possiamo andare. Possiamo discutere all’infinito sull’autorità di chi ci ha preceduto e sul piacere di perdersi, ma queste informazioni ci sopravviveranno comunque nella nostra eredità genetica. Bisogna solo imparare come non farsi schiacciare da terabyte di dati. Comunque. Mi spiace deludervi ma Chabon non ha scritto nulla di così organico, niente manuali di sopravvivenza, ma appena qualche indizio in più per la quest.

Mappe e leggende, avventure ai confini della lettura è solo una raccolta di articoli, prefazioni e discorsi che questo simpatico personaggio ha scritto nel corso degli anni. Largamente autobiografici, questi saggi brevi spaziano attraverso tutto ciò che interessa all’uomo e allo scrittore: i fumetti, la letteratura di genere, il perché le storie ci affascinano, il lavoro dell’autore di storie, quali sono gli spazi attraverso cui si può muovere. Chabon scrive e scrive molto bene, di tante cose che piacciono anche a me (Loki e gli dei nordici, i golem e gli ebrei, le mappe del tesoro) e di cose che mi interessano un po’ meno (i fumetti) ma sempre con l’obiettivo di affermare e liberare la letteratura da costrizioni e irrigidimenti. Di volta in volta, scrivendo di Sherlock Holmes o di Queste Oscure Materie, di Cormac McCarthy o di Walter Benjamin, di a me sconosciuti fumettisti d’oltreoceano o della sua esperienza di scrittore e di lettore e di ebreo, Chabon rivendica il diritto di intrattenere ed essere intrattenuti come mattone fondante della letteratura. Invoca il giusto mezzo, l’equilibrio tra la raffinatezza e la disinvoltura di genere, ma non lo fa tramite un’immagine rassicurante e di mediazione pacifica: evoca Loki il padre di mostri, il tessitore di inganni, l’astuto e il sottomesso, l’intrigante e il risolutore, colui che avvicina e ritarda contemporaneamente la fine del mondo. Il dio con i capelli rossi figlio di una razza diversa dagli dei di Asgard, ma fratello di sangue di Odino, saggio re degli dei. La fantasia e i mostri che genera, di volta in volta paurosi, divertenti, misteriosi e rassicuranti non possono essere canonizzati e irrigiditi in un corpo d’argilla. Cosa fosse successo se dal 1950 si fosse deciso che ogni tipo di racconto dovesse essere del genere “Medico e infermiera”? Infinite variazioni sul tema, alcuni certi capolavori, ma infine nel 2016, una gran noia mortale. Tutto questo sembra assurdo, ma a guardarsi intorno sembra la normalità, nonostante tutti spergiurino il contrario. Leggendo Chabon, e soprattutto I golem che ho conosciuto, il discorso che chiude la raccolta, sembra quasi che sia molto meglio essere ingannati da chi racconta frottole, che da chi pretende di raccontare la verità. I golem sono molto utili per difendere il ghetto, ma possono rivoltarsi contro chi gli ha insegnato regole troppo severe.

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La luce sopra la brughiera (secondo rapporto del dottor Watson).

Stamattina, quando mi sono svegliato per andare a spostare cose pesanti e pulire cose sporche, c’era la nebbia. Nonostante il posto dove viva si chiami Brugherio, non ha più molto a che fare con una brughiera, che dovrebbe essere una piatta pianura piena di arbusti, torbiere, cespugli e fossi. Anche la bruma mattutina è ormai un fenomeno decisamente raro per le nostre parti, il calore della città non le permette di formarsi. Quando c’è però tutte le strade diventano dei trampolini verso il nulla e quindi per il breve tragitto che mi separa da peso e sporcizia vivo in una nuvola; è piacevole ma non rassicurante. Alla lunga forse è meglio toccare tutti i giorni gli stessi oggetti di materia bruta, piuttosto che rimanere sospesi. L’indeterminatezza o il semplice mistero conturbano, ma alla fine c’è sempre bisogno di qualcuno che sciolga i nodi, che porti la luce nel buio.

Ecco forse perché ci piacciono tanto i romanzi d’investigazione: alla fine c’è sempre qualche tizio che riesce a capirci qualcosa, e non ci importa assolutamente niente di capire come faccia a farlo. Sì, perché ciò che conta è il risultato e tutta la tensione, tutte le strade che portano alla verità passano in secondo piano, rispetto alla sensazione di ordine e tranquillità che ci regala la soluzione del caso. Ogni pezzettino che l’eroe porta fuori dalla nebbia alla nostra vista riporta l’ordine che si era infranto.

“Alle sei la mia ragazza si vestì, si pettinò davanti allo specchio del bagno, si spruzzò addosso un po’ di acqua di colonia, si lavò i denti. Nel frattempo io me ne stavo seduto sul divano a leggere Le avventure di Sherlock Holmes. Il libro cominciava con le parole: «Il mio amico Watson ha poche idee limitate, ma estremamente tenaci». Un incipit strepitoso.”

Questo è quello che racconta il protagonista senza nome in “Nel segno della pecora”, (QUI c’è la recensione). Ed è questo, unito ad uno sconto del 25% su tutti i titoli, che mi ha convinto a comprare “Sherlock Holmes, tutti i romanzi” (Einaudi, pp. 679, euro 19). In modo decisamente arbitrario ho deciso di cominciare a conoscere così uno dei più famosi personaggi di carta che siano mai stati creati. Ero incuriosito soprattutto dal sapere chi fosse realmente Holmes, se l’azzimato gentiluomo inglese intabarrato nel completo scozzese della tradizione, o il nuovo sbarellato casinista interpretato da Robert Downey Junior dei recenti blockbuster. Ecco, nessuno dei due.

La soluzione è alquanto elementare se ci pensa bene, signor Watson. Sherlock Holmes non esiste.  Arthur Conan Doyle ha inventato un personaggio che ha qualsiasi qualità sia necessaria a risolvere un caso. In realtà l’investigatore serve solo a risolvere il caso. Tracce di cenere? É esperto di tabacco e sigari. Sospetto avvelenamento? Ha scritto un trattato sull’argomento. Rissa? Conosce il Basutsu, un’arte marziale che viene dal Cataio. Tutto il resto non conta. Anche il suo amico dottore, altro non serve che a fargli fare bella figura. È una sagoma di cartapesta.

Vengono prodotti libri in serie, tutti con una struttura simile: Holmes e Watson sono in soggiorno, Holmes si fa di cocaina perché si annoia, arriva un caso, un caso difficile, risolve il caso. Magari c’è una sparatoria, o Moriarty mette il bastone tra le ruote, ma si cavano d’impiccio e tutto finisce per il meglio. Conan Doyle che pure è molto bravo a scrivere, ci prova anche ad ammazzarlo, ma fallisce. La creatura oramai è già più potente dell’autore. Superbo, sfacciato, annoiato dall’inferiorità degli esseri umani, decisamente odioso. Ma. Una volta che si comincia a conoscerlo, non si può più fare a meno di lui. Provate a leggere Il mastino dei Baskerville: il famoso investigatore sparisce per gran parte del libro, lasciando il povero Watson solo nella brughiera. Che sospiro di sollievo quando torna, un senso di sicurezza, di conforto. Il metodo deduttivo analitico ci dice che dietro alla bruma i marciapiedi gli alberi e i lampioni hanno ancora la stessa forma. Ci sono ancora. Le leggi della materia sono fisse e invariabili. E chi sa leggerle può guidarci nell’oscurità. Ecco perché non possiamo fare a meno di ammirare Sherlock Holmes, di amarlo. Guardandoci dall’alto, con un sopracciglio alzato in segno di stizza, stringendo tra i denti una pipa puzzolente, ci prende per mano e ci porta fuori dalla nebbia. Anche se solo per un po’.

«Ha mai sentito parlare di Jonathan Wild?»

«A dir la verità il nome mi suona noto. Non è il protagonista di un romanzo? Non faccio molto caso agli investigatori nei racconti – ci sono sempre dei tizi che fanno qualcosa e non si capisce come arrivino a farla. Ma questa è pura fantasia, non realtà»

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