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In latino classem era il nome della flotta di stanza a Ravenna. Con il tempo cominciò ad indicare le navi scelte, le migliori della flotta. Queste sono le imbarcazioni più belle, più utili, o soltanto più strane, del mondo globalizzato.

La fine degli dei

byatt-ragnarock-recensioneIn tutti questi mesi non ho certo mai smesso di leggere ma soltanto di scrivere. A parte qualche sparuto articolo che il tempo il dovere o l’impellenza mi hanno fatto scrivere, di settimana in settimana diminuisce lo spazio sulla mensola della cucina dove tengo i libri che sto frequentando di recente. Il fatto che non abbiano cominciato a cadere dal bordo è dovuto solo al fatto che all’appello mancano tutti quelli restituiti in ritardo alla biblioteca, quelli restituiti alle persone che me li hanno prestati, quelli che per abbandono sono stati presi e riposti al sicuro sotto la polvere della mansarda. I recenti regali hanno causato un accumulo anche maggiore, i solleciti di restituzione si fanno più insistenti e da qualche parte dovrò pur cominciare, per smaltire gli arretrati. Il fatto di pubblicare quando mi pare sta diventando pubblicare mai. Per la gioia dei miei creditori comincerò non dai libri che gli devo, ma da uno che ormai da mesi è tornato a casa sua, in biblioteca. Scriverò di un libro che lessi tempo fa e di cui mi ricordavo neppure il nome dell’autore.

Questo sforzo di memoria però non è privo del suo fascino, perché questo libro racconta i ricordi d’infanzia della sua autrice e per farlo sceglie di usare anche la mitologia epica norrena, nel migliore dei modi possibili. Certo sarete d’accordo con me che se il blog si chiama Muninn, il corvo di Odino il cui nome significa proprio memoria, tutta questa operazione potrebbe smettere i panni della buffonata e assumere un’apparenza quasi seria, professionale e postmoderna. Ricordare i ricordi di una persona, che per ricordarli ha usato storie che sono care a entrambi. Io e la signora Byatt non ci incontreremo mai, credo, ma i libri molto spesso mettono in contatto le persone nei modi più impensabili.

A. S. Byatt ora è una famosa e rispettata scrittrice britannica. I suoi raffinati libri sono bestseller ed è anche ovviamente apprezzata come critica ed esperta di letteratura. Dico ovviamente perché il suo è un modo di scrivere che del rubare agli altri ha fatto una bandiera: alla fine puoi chiamare postmoderno un autore che ruba ad altri autori ma che mette in mostra il suo gesto. Ottima imitatrice di stili infatti, la scrittrice riesce a riprodurre con destrezza documenti di epoca vittoriana o frammenti epici scandinavi. Un tempo però è stata una piccola ragazza magra, che con la madre (e una sorella di cui non parla mai) si rifugiò in campagna durante la guerra, mentre i tedeschi bombardavano Londra ogni giorno e il padre volava sopra l’Africa settentrionale, forse ancora vivo, forse già morto.

È questa bambina sola, a cui la colta madre regala un libro di racconti sui miti nordici, che attraversa le colline inglesi lungo stradine sterrate, lungo i cui bordi, tra le fessure dei muretti a secco, nelle zone umide o sotto certi alberi, crescono piante aromatiche e si muovono insetti, descritti con la precisione del loro nome scientifico, appena usciti dal manuale di botanica che la ragazzina sfoglia con altrettanta passione. La bambina, per non pensare al crudele destino che attende il padre in guerra si rifugia nella natura e nelle pagine del mito, dove trova conforto nel caotico tempo di Odino e dei suoi figli, destinato a collassare su se stesso durante il Ragnarock, la fine del mondo, a cui non possono porre rimedio perché loro stessi sono causa di esso.

Lei legge il libro per se stessa e lo rilegge per noi, raccontandoci di come il mondo fu creato da una vacca che leccava il sale sull’orlo del gorgo primordiale e di come nacquero i fiumi e le montagne, dal corpo di un gigante. Racconta del re di tutti gli dei, che ha ottenuto la sua saggezza a costo di grandi sacrifici e delle imprese bellicose dei suoi numerosi figli e sudditi. Racconta di Loki, il mutaforma, la fiamma, l’ingannatore. Amico e nemico, causa della fine del mondo solo perché vuole difendere i suoi mostruosi figli, generati con una altrettanto mostruosa consorte. Ma l’obiettivo della Byatt non è cercare di spiegare da dove arrivano questi dei: se sono forse i nomi di antichi guerrieri indoeuropei che combatterono antiche guerre dimenticate o se sono riflessi dei nostri istinti universali. Il suo obiettivo era trovare conforto e per farlo è entrata in quel mondo e in quelle storie, condannate ad una fine certa e ineluttabile e ad un eterno ritorno. Ha cominciato a raccontare anche lei, rubando il suono alle parole di popoli estinti, per esplorare zone della storia rimaste oscure, trattando la materia epica nel solo modo possibile, inventandone altra. Con gli stessi ritmi, accenti e vocali con cui ci parla di Fimbulvetr, l’infinito inverno, o della morte di Yggdrasil enorme frassino che sorregge i mondi, la Byatt ci parla del possente albero marino di alghe dove vivono gli dei del mare e dell’enorme serpente che lo divorerà alla fine del mondo. Così la storia di quella piccola bambina ha preso il suo posto in mezzo a quella degli antichi bardi, imitando i suoni dei loro nomi e dei loro tristi destini. Così infine ha scritto dell’epica, giusto qualche anno dopo il secondo millennio Avanti Cristo.

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Mago della fuga.

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Gli escapisti sono quegli illusionisti, maghi, prestigiatori, artisti (chiamateli come volete) che intrattengono il pubblico con mirabolanti fughe ed evasioni dalle più disparate situazioni costrittive. Legati con una corda piedi e polsi, incatenati o ammanettati, chiusi in baule o in sacco, dentro una cassa o in una teca di vetro riempita di acqua, oppure molto più spesso tutte queste cose assieme, gli escapisti devono liberarsi nel minor tempo possibile, a maggior godimento del pubblico pagante. Purtroppo, accompagnati già per molto tempo da una fama non molto lusinghiera, i maghi (chiamiamoli con il loro nome) anche questa volta sono dovuti correre ai ripari. La disciplina che studiano gli escapisti infatti non è l’escapismo, ma l’escapologia, inamidatissimo sostantivo sicuramente scelto dalla comunità scientifica internazionale per evitare a un mestiere, frutto di anni di pratica ed esercizio, l’accostamento con pratiche ritenute grandemente disdicevoli. L’escapista infatti, nonostante la liberazione finale sia sempre legata ad un trucco, deve confrontarsi con ambienti angusti, costrizioni varie, apnee, lucchetti, ed è inaccettabile che fantasie di fuga dalla dura realtà vengano confuse con un mestiere che affronta il gelo del ferro sulla nuda pelle e interminabili ore di esercizi ginnici preparatori.

Noi però rifuggiamo da sterili eufemismi. Cos’è meglio? Escapologo od escapista? Non sembra anche anche a voi che il primo ricordi troppo da vicino parole come podologo e proctologo? A quella laringale che chiude la voce, non preferite il lungo sibilo che sfugge tra i denti di escapisssssssssta?

Joseph K. vive a Praga ed è ebreo. All’improvviso si trova invischiato in una situazione particolarmente spiacevole. Un potere superiore ed oscuro comincia ad accusarlo di qualcosa di indefinito, senza che lui possa fare niente per impedirlo o per difendersi, intrappolato fin da subito nelle pastoie di una burocrazia tra le più raffinate mai comparse sulla Terra. Combattere un potere tanto grande è fuori discussione e anche la fuga, più il tempo passa, più diventa impossibile. Ma non vorrei portarvi fuori strada, la K. sta per Kavalier, e siamo già alla fine degli anni trenta. Il potere è nelle mani del partito nazionalsocialista tedesco anche in quella che fu la Repubblica Cecoslovacca, e i nazisti non sono abituati a fare processi, prima di esprimere una condanna. Grazie all’aiuto di un vecchio maestro prestigiatore, ai suoi genitori e a un’incalcolabile dose di fortuna, il giovane Kavalier riesce a raggiungere la terra delle opportunità, l’America. Qui, insieme al cugino Clayman inventerà l’Escapista (guarda guarda), il più grande supereroe dei fumetti dopo Superman e Batman. Questa è la storia, e non vi dirò niente più di quello che succede, perché ogni cosa in questo libro, trama e sofferenze comprese, è stata pensata per intrattenere e deliziare il lettore. Con una maestria indubbia, Micheal Chabon padroneggia i ferri del mestiere, grimaldelli e cappelli con il doppio fondo, al punto che l’unica cosa che riesco a dirvi è: state seduti e godetevi lo spettacolo.

Dopo aver dato forma e spessore ai due protagonisti de Le fantastiche avventure di Kavalier e Clay, gli fa fare esattamente quanto promesso nel titolo: formidabili avventure, fortune e sventure, coincidenze e ritrovamenti. Chi crede che un romanzo debba essere realistico cercherà inutilmente, ma in fin dei conti, quale racconto lo è veramente? E poi a volte la vita è anche più assurda dell’invenzione. Attraverso la New York scintillante e ricolma di opportunità di prima della guerra, distese di ghiaccio perenne, o gli sconfinati labirinti segreti che si nascondono sotto all’Empire State Building i due personaggi crescono, imparano, perdono, e noi trepidiamo con loro, seguiti da uno sguardo familiare e onniscente, che ci svela il futuro mentre ci inganna sul presente, porta a spasso la nostra attenzione con rapidi movimenti delle dita, mentre il trucco è predisposto dentro la cassa fin dal giorno prima. Per ottocento pagine fuggirete da questo mondo, in un altro chiuso e confortevole, che profuma di assi di pino e fango della Moldova o che puzza di sigarette e adolescenti sudati, ma non per questo immune da scossoni e cadute. Nessuno è mai troppo lontano dalla violenza del mondo, nemmeno in quello della fantasia.

Micheal Chabon ha scritto questo libro riversandovi la sua passione per i fumetti e la loro Età dell’Oro, per la magia del grande Houdini, grazie alle sue origini ebraiche e al suo essere altrettanto americano, ma l’ha scritto per deliziare il lettore. Il quale, pur sapendo che tutto è un trucco, tutto è falso invenzione illusione magia prestidigitazione, si siederà di fronte al palco, nell’attesa del miracolo. Per quanto abili siano nella fuga, i maghi ricompaiono sempre per l’applauso.

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escapismo

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Stelle bicromatiche.

cop_Pietro-Scarnera-Una-stella-tranquilla Tra poche settimane tornerà il Giorno della Memoria, memoria di ciò che è accaduto e non deve più accadere. Come di consueto, verrano pubblicati libri nuovi, verranno ripubblicati libri vecchi. Incontri spettacoli e film. Alcune buone cose, altre molto meno. Qualcuno litiga già per i diritti sul Diario di Anna Frank. Per non sbagliarsi è cosa saggia affidarsi ad un autore la cui fama è dovuta a questo unico libro e a questa storia tanto terribile. Perché Primo Levi è il racconto del lager, da dove è uscito con il corpo ma non con la mente, dicono. Suo è il libro, la poesia, l’epigrafe in italiano nel campo di concentramento, a cui la nostra memoria nazionale ha affidato il compito di ricordare. Ma Levi non è stato solo un prigioniero e un testimone, è stato un marito, un padre, un chimico e uno scrittore. Racconti di fantascienza, fantabiologia, romanzi d’invenzione e resoconti autobiografici, poesie e racconti metanarrativi, l’unico esempio riuscito di racconti industriali. Un’abbondante produzione di qualità straordinaria, che lo rende uno dei più grandi scrittori italiani del novecento. Lentamente la sua opera, ricomincia ad essere letta e studiata. In libreria e in biblioteca trovate ora Primo Levi di fronte e di profilo, saggio totale di Marco Belpoliti, che si impegna a innalzare un monumento di 700 pagine all’autore torinese, segno per lo meno di un rinnovato interesse per un lavoro poliedrico e profondo, che comincia ora la lotta contro il tempo.

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Prima di affrontare a muso duro le centinaia di pagine del saggio però, sono inciampato in un altro libro di divulgazione a cui lo stesso Belpoliti ha scritto la prefazione, che raccoglie molto materiale e lancia molti ami nell’acqua, forte del medium scelto, capace di arrivare a tutti, anche da chi settecento pagine non le legge per principio. Una stella tranquilla, ritratto sentimentale di Primo Levi è un fumetto. Ed è esattamente quello che dice di essere: un ritratto sentimentale. Non un saggio di critica o un’analisi letteraria, ma l’immagine di un uomo ricostruita con affetto. Pietro Scarnera ha raccolto una grandissima quantità di materiale, foto, articoli, racconti, interviste e li ha ricomposti come un viaggio attraverso la vita artistica dello scrittore. Come la molecola di carbonio che apre la narrazione, che di volta in volta è albero, respiro, polvere e muscolo, Levi è declinato attraverso le immagini che ha attraversato: le foto della giovinezza, quelle con la famiglia, le lettere con l’amico Calvino, le copertine delle prime edizioni dei suoi libri, le immagini di Torino ora e dopo la guerra, le poesie dedicate alla moglie, le lettere dei lettori tedeschi, la mappa del ritorno in Italia, le sculture di filo di ferro a forma di maschera di gufo e i disegni dei fatti con il Mac, la tomba, la casa, gli occhiali da vista, la fabbrica di vernici e le foto di cronaca nera degli anni ’70, la Mole e il filo spinato, i quartieri ortogonali di Torino e i sampietrini, Mirafiori e le prime mostre sulla Shoah, la torre della Siva e Togliattigrad, tram e treni, la camicia del campo e la tavola periodica.

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Disegno semplice e pulito, una delicata bicromia bianco verdina, che accompagna e non distrae da ciò che il disegno contiene e dalle parole che lo accompagnano, Scarnera segue la vita dello scrittore, che nasce subito dopo il campo, che nasce dentro al campo, ma che ha le sue origini più profonde nella naturale predisposizione di Levi alla curiosità e alla voglia di raccontare. Evitando le questioni più morbose sul suicidio, liquidate come leggende metropolitane, e non limitando l’indagine alla tragedia su cui pur ruota la sua esistenza, il disegnatore ci racconta il Levi scrittore, oltre l’immagine di pacatezza e tranquilla ironia che ci è arrivata, persino dalle pagine di Se questo è un uomo. Aldilà della morigeratezza torinese Primo Levi celava una profondità di pensiero che non si fatica a intravedere tra le righe dei suoi versi, così semplici, ma così potenti.

Forse il modo migliore per definire Levi è il titolo di un suo racconto, “Una stella tranquilla”. Da Lontano sembrava calmo ed equilibrato, ed era anche a suo modo un punto di riferimento. Ma si sa che, dentro, le stelle ribollono. E quando si spengono lo fanno in maniera fragorosa.

Pietro Scarnera è stato in grado, come lettore e disegnatore, di agitare le acque nello stagno, invitare alla lettura di ogni libro, poesia e saggio scritti da Levi e su Levi, alla scoperta di un astro nascosto della letteratura italiana nel suo racconto per immagini.

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Vergogna dei mostri.

È stato difficile per me allora, e sarebbe ben più difficile adesso, persuadere i lettori che le mie intenzioni erano essenzialmente morali. I miei amorali narratori in prima persona avrebbero dovuto condannarsi con le loro stesse parole. Ho pensato fosse più interessante per l’autore non intervenire.

11308856042Se Ian McEwan in persona non trova giustificazioni convincenti per difendersi dalle accuse di oscenità, morbosità, cinismo e sessualità deviata, non vedo come la mia penna infinitamente meno felice possa dargli man forte. C’è da dire però che lo scrittore non le cerca neppure, queste giustificazioni. E neppure all’interno dell’articolo scritto nell’anniversario dell’uscita del suo primo libro,  Primo amore, ultimi riti, ce ne sono. Si vede che è passato oltre, le sue ossessioni sono diventati i temi di una carriera letteraria consolidata e universale, che mette d’accordo i lettori più raffinati come gli occasionali curiosi che hanno consumato il suo ultimo racconto, prima che tra le pagine, di fronte allo schermo. A pensarci meglio neppure allora, aveva cercato giustificazioni per il contenuto dei suoi racconti. I suoi editori non ne avevano tenuto conto e persino i genitori, seppur con un’abbondante dose di imbarazzo inglese, erano orgogliosi di lui. L’unico che cerca di giustificarsi qui sono io.

Deve quindi esserci qualcosa di diverso, nel male raccontato da McEwan, rispetto al Male che si racconta solitamente. Una caratteristica speciale, forse non unica, ma che imbarazza le persone che leggono i suoi libri. Non è un problema di morale borghese cristiana o occidentale, ma umana. I suoi personaggi fanno cose orribili, di una violenza arcana, ancestrale e incontrollabile, dispiegano le loro pulsioni aldilà della comune sopportazione. Pensieri, parole, opere sono tutte egualmente terribili, perché si addentrano fin da subito senza renitenze e prudenze nei territori più oscuri dell’umanità, senza guide, senza freni, senza neppure nubi oscure cariche di fulmini che preannuncino la tempesta. Nessun Virgilio, nessuna inconsapevolezza per Edipo, la nostra mente nuda esposta all’occhio di Sauron diventa essa stessa l’occhio. Non c’è neppure la sicurezza che in fondo al cuore di Céline ci sia la bontà più pura, che quello di Miller sia un viaggio perlopiù letterario, e tutto questo perché prima di fargli fare le loro terribili cose, McEwan si è nascosto. I narratori in prima persona e uno stile puro e perfetto incantano il lettore e lo conducono giù nell’oceano, abbracciato in una stretta mortale. Sono come trappole per i pesci, quando ci si accorge che si è in trappola è troppo tardi.

Fatto in casa apre la raccolta, e persino il titolo nonché le prime tre righe, ci avvertono del contenuto della storia, in cui tutto sembra affidato al caso e all’inevitabile susseguirsi di occasioni e conseguenze involontarie. Ma come il racconto è stato pensato e misurato per arrivare al climax finale, così premeditazione e un male più profondo si nascondono tra le righe. Geometria solida ha invece il fascino sempreverde del racconto fantastico: un uomo ossessionato dalla vita del bisnonno porta alle estreme conseguenze le sue misteriose scoperte. C’è qualcosa di familiare, e di antico. È uno dei miei preferiti. Farfalle è fatto per mettervi di nuovo alla prova, con il sospetto e il disgusto.

Ultimo giorno d’estate è un momento di pausa, dal male assoluto degli uomini, col male assoluto del mondo. Cocker a teatro fa troppo ridere, e McEwan dimostra il suo talento indiscusso. Conferma come l’indagine dei mostri sia una scelta profonda e non uno stratagemma per acchiappare il lettore. A lui non serve, e questo brevissimo affresco satirico lo dimostra. Che ridere.

Conversazione con l’uomo nell’armadio è forse il più strano e disturbante racconto, ma non è assurdo come sembra dal titolo, è dolorosamente realistico. Primo amore, ultimi riti ci consola con una storia d’amore, dopotutto, ma è una storia che deve fare i conti con la realtà e gli innumerevoli fallimenti che fanno sgusciare via il momento in cui tutto cambia come anguille nel fango. Travestimenti è il più lungo della raccolta, è il più tremendo, perché prima che con la sessualità morbosa ci colpisce con la violenza fatta ai sentimenti, al futuro, ai tormenti che distruggeranno tanta felicità.

Per quanto si possa dire sul valore morale e catartico dei racconti, evocare il male peggiore possibile per augurarsi il bene, continueremo a sentire quel fastidiosissimo senso di vergogna e vago disgusto dopo averli letti. Questo perché la lettura ci ha causato ben due sommovimenti. Il primo è l’imbarazzo di aver tratto piacere da immagini così depravate: infatti non conta che lo stile sia di volta in volta magnifico, agile, attento o ironico e che in fin dei conti questa è Arte, sarete sempre colpevoli. Il secondo, il più straordinario, sarà la vergogna per aver capito, per essere stati “dentro” per aver fatto parte della coscienza di uomini che altrimenti definireste mostri e inumani. McEwan ci rivela la loro – e quindi la nostra – umanità, sentimenti e brame, recessioni e manie che fanno inestricabilmente parte della nostra natura mortale e ci affratellano, grazie alla magia del racconto, con scorie umane.

(Luogo pubblico, due conoscenti si incontrano seduti sulla stessa panca, scambiano convenevoli)

«Cosa leggi?»

« Primo amore, ultimi riti. Sono dei racconti.»

«Oh…belli?»

«Moltissimo, Ian McEwan è uno scrittore straordinario!»

«Ah…di cosa parlano?»

«Incesto, stupro, pedofilia, violenze domestiche fisiche e psicologiche, bullismo, sporcizia umana e materiale, fallimento, solitudine, depravazione, pura e semplice malvagità.»

«…»

«Ma c’è anche un pene dell’ottocento sotto formalina e una scena di sesso molto divertente! Non scappare….!»

(l’interlocutore si allontana camminando, il dialogo termina come se non fosse mai accaduto)

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Trilogie pericolose.

Riporto i fatti accaduti per come li riporta alla mente la memoria. Non è questo un modo per giustificare errori o travisamenti della vicenda, ma è una semplice conseguenza dei molti impegni e contrattempi che mi sono occorsi da allora. Se poi questo avrà o meno delle ripercussioni sul resto della storia, non sta a me dirlo.

imageEra una normale giornata di lavoro alla biblioteca civica e la mattinata era già corsa via dietro a prestiti e restituzioni. Ad un tratto mi ricordai di aver qualche libro nello zaino: un libro di ricette sui dolci austriaci e tedeschi, la Retorica antica e Il vagabondo delle stelle. Passati rapidamente dalla tasca alla mano, rigirati alla ricerca del codice, identificati e infine ammonticchiati da parte per essere sistemati. Li posai assieme alla pila di volumi accumulata durante la mattina. Fu allora, tra le coste colorate, che apparve il libro. Non avrebbe dovuto essere lì, questo è chiaro, e non avrebbe dovuto per svariate ragioni, che però non sono probabilmente utili alla nostra storia. Infatti il libro avrebbe dovuto essere a casa mia. Il ruvido ceruleo della copertina era ancora là sul ripiano della cucina, là nella mia mente, sul carrello della biblioteca no di certo. Pensai subito a una coincidenza e balzai al computer per controllare. Tutto corrispondeva: il libro era quello, era stato prestato a me e da me riconsegnato. A confermarlo c’era l’angolino in basso a destra, sbucciato, che mostrava il cartone. Come era possibile? Come era possibile che non mi ricordassi di aver riportato il libro? Non doveva essere poi una cosa remota, il libro era ancora sul carrello. Qualche mio collega? Ma come, se io il libro non l’avevo con me? L’unica spiegazione logica era che il libro mi era stato sottratto, senza che io lo leggessi, da qualcuno che voleva impedirmi di leggere e scrivere la recensione.

Le ragioni c’erano tutte per compiere questo misfatto: la Trilogia di New York, quella di Paul Auster, era un libro compromettente per molti. Per lo stesso Paul Auster, ad esempio. È noto che il famoso scrittore, all’inizio degli anni ottanta, quando non sperava più di diventare famoso come poi sarebbe diventato, scrisse la trilogia come sfogo personale dopo il divorzio dalla prima moglie infarcendo le pagine, sotto multipli travestimenti, delle sue vicissitudini personali. Inaspettatamente le opere, uscite una dietro l’altra, avevano avuto un incredibile successo. È possibile che il Paul Auster non voglia che la sua opera torni alla ribalta dopo anni di oblio in cui le sue opere successive hanno preso il sopravvento. Un uomo determinato e ricco può benissimo arrivare fin qui. Non è da trascurare neppure l’influenza della ex moglie, dirigente alla Library of Congress, che potrebbe aver disteso la sua longa manus attraverso le pieghe sempre oscure della biblioteconomia internazionale.

Trascurai per un momento i possibili moventi e mi concentrai sull’unica cosa che andava fatta: se qualcuno non voleva che leggessi quel libro, non lo avrei permesso. Mi nascosi dietro uno scaffale e cominciai febbrilmente a sfogliare le prime pagine. A parte la sua balzana teoria sul Don Chisciotte non mi pareva ci fosse nulla di così compromettente: il libro, o meglio i libri, erano delle rivisitazioni postmoderne delle classiche storielle hard boiled che usavano così tanto dopo la guerra, appesantite da un carico di depistaggi, mezze bugie e mezze verità, giochini filosofici tra autore e lettore e astruse teorie letterarie.

Nella sua città di vetro manca il senso claustrofobico dei grattacieli di New York, le folle, il vorticoso ammassarsi della civiltà. La storia e le perone passano attraverso i vetri delle case di una città fatta di nomi di vie, palazzi, ponti, musei. È una metropoli senza sporcizia, o meglio dove la spazzatura può esistere solo se è utile alla storia. I personaggi, chiusi nelle loro case, in una stanza, tra le vie perpendicolari di un quartiere, in realtà volteggiano come fantasmi tra le foreste di Thoreau, le onde di Melville e i pudori di Hawthorne. Qualsiasi limite, ostacolo, tranello non veniva da fuori, ma da dentro di loro.

Trascorsi delle ore, seduto dietro lo scaffale, immerso nella lettura. Ad ogni pagina si rivelava come il disegno dell’autore fosse molto più vasto di quanto avessi pensato all’inizio. Attorcigliata alle storie e alla storia, c’era il rapporto tra scrittore e uomo e su quello che rubano l’uno all’altro. Come i migliori scrittori, tutto era suggerito e sussurrato, sdoppiato tra personaggi che si rispecchiano l’un l’altro, vampirizzandosi a vicenda.

Chiusi l’ultima pagina, felice di avere trovato un grande scrittore. Aveva preso il racconto investigativo e lo aveva fatto esplodere, ribaltandolo come un calzino. Attingendo dalle origini della letteratura americana e dai romanzi popolari aveva partecipato a creare quello che (ora lo sappiamo) è un genere come tutti gli altri, di romanzo. Il postmoderno. Con una bravura e un ironia mai scontate Auster tiene la tensione alta, pronto a far vibrare il colpo di scena come una frusta, senza mai deludere chi voglia seguirlo fino in fondo. Con gusto hitchcokiano gioca con i particolari e le tensioni, sessuali, nevrotiche, ossessive, per creare un meccanismo preciso e rispondente ai piccoli colpetti che gli arrivano dall’esterno, di cui non possiamo vedere l’interno finché non lo decide l’autore. Non provate neppure a cercare di ricomporre da soli il groviglio di personaggi riflessi tra le pagine del libro, la conseguenza è la follia, o semplicemente un vicolo cieco. Godetevi la strada e lasciatevi trasportare, il cervello non deve funzionare a pieno regime.

Ero rimasto solo, nella grande sala. Al buio. I miei colleghi erano già usciti. Rimaneva in sospeso l’inspiegabile faccenda del libro, cosa sarebbe accaduto ora? Squillò il telefono. Lasciai che si fermasse. Ricominciò. Risposi.

«Pronto…?»

«Non hai capito niente, rileggilo da capo».

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Bonus:

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La traduzione a fumetti del primo capitolo della trilogia Città di vetro, merita di essere letta. David Mazzucchelli, Paul Karasik – Coconino Press.

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Cosa è e cosa non è.

Cioè…tu arrivi alla fine del coso…del libro, che si chiama Vizio di forma e vuoi trovare una cosa scritta su quello che vuol dire e quello che non vuol dire, e invece no…eh…trovi che Inherent vice e Vizio di Forma non sono la stessa cosa…proprio per niente. Cioè. Vizi sempre ma…cioè…non sono mica la stessa cosa e quando tu sei il traduttore e lo traduci no? Certo te ne stai attento che sennò c’è la musicalità che non va bene e si…si…magari un titolo che in italiano è Vizio intrinseco….con tutte quelle T e R e S e poco spazio per l’aria in mezzo…cioè….però è un problema, cacchio. Che vogliono dire due cose diverse….una è tutta fuori…mentre l’altro poi è un problema della cosa…cioè….del dentro della cosa. Essenza…essenza.

_Viziodiforma_1297120817Mi sono intrufolato alla lezione di MM, sono venuto a trovare una mia amica, con un orecchio ascolto la lezione su Parini e con un occhio guardo i caratteri sullo schermo. Non sto prendendo appunti. Scrivo la recensione di un libro. Dovrei aver scritto il titolo già abbastanza volte che avrete capito. È un libro strano, per chi lo legge e per chi lo ha scritto. Titolo più “commerciale” più “leggibile” “comprensibile” di Thomas Pynchon, autore postmoderno famoso per le intricate trame complottiste, lo stile denso e per essere apparso ben due volte in una puntata dei Simpson. Autore che dopo un paio di titoli culto non ha scritto niente per 25 anni per poi far uscire questo.

E che poi c’è la storia di Primo Levi!…eh!…che c’è il titolo uguale e poi nessuno se lo ricorda…e un po’ fai confusione…no? Se poi pensi a quella storia di Arpanet…che c’è in tutte e due…anche se non lo dicono mica…eh…che c’è in tutti e due…e se invece vogliono che lo scopriamo? Cioè. Magari è come un gruppo di persone che decide i titoli dei libri…e magari uno vuole mandarci un messaggio. Un messaggio che c’è un vizio di forma nel continuospaziocoso. No?

Quindi il mio primo contatto con un autore più volte definito da nobel, che è circondato da un morboso interesse per la sua persona e che sembra anche abbastanza bravo a fare quello che fa, lo ho avuto con quello che sembra il suo divertissment. Un libro in cui ci sono tutte le cose che gli piacciono: i complotti, la droga, Nixon. E in cui sembra proprio che si prenda in giro, o forse no. Quello che posso dirvi è che c’è questo personaggio, Doc Sportello, investigatore privato hippie con una scontata passione per la marijuana e l’erezione facile. Ci sono gli anni sessanta, che stanno finendo in un’esplosione di pantaloni a zampa, droghe e amore libero. E c’è questa città, Los Angeles, che è senza dubbio la città di Dite, un posto infernale dove Dante avrebbe ambientato l’Inferno, salvo poi pensarci su e ambientarci anche il Paradiso. A L.A. nel 1994 (dopo Cristo) c’è stata una rivolta urbana e sono morte un sacco di persone. A L.A. un bambino una volta è morto perché è stato morso 110 volte dal suo topo domestico di nome Homer nella baracca dove viveva coi genitori. Ci sono i tuguri costruiti negli alvei dei fiumi in secca e le ville delle star, le spiagge infinite dove surfare tutta la vita e un traffico mostruoso che ingloba le vite dei pendolari. Una città sempre a rischio di distruzione totale, che sembra un’accozzaglia di chimere e fate morgane, vista con gli occhi arrossati di un fattone.

Che poi…perché proprio Nixon sui verdoni?…non che ci siano problemi certo…nono…ma…se è stata l’FBI che senso ha?…non ne hanno già abbastanza per fare le loro cose sbirresche…cioè…cose così…lo sai no? …noi, crediamo…io credo…che forse quella delle banconote con su la faccia del Grande Capo era una buona idea…ma che si poteva fare meglio… …. …Quello lo finisci?

Alla fine l’ambientazione e la narrazione sono quelle classiche del noir: la voce fuori campo del narratore/investigatore che racconta, i flashback nelle biografie assurde dei personaggi in cui si imbatte, pupe fantastiche, crimini intricati, complotti e tradimenti. Solo che in questo caso ci troviamo di fronte al tipico caso di un ottimo scrittore che prende in mano un genere popolare e lo fa esplodere tra mille fuochi artificiali. I personaggi prendono vita lentamente sulla pagina, non appena ti accorgi che non è un libro come tutti gli altri, è un libro scritto da un Pynchon. La trama si perde di vista dopo pochi capitoli, perché a Doc va sempre tutto alla grande, in una megalopoli di millemilamilioni di abitanti ha lo straordinario talento di trovarsi sempre nel posto giusto al momento giusto e, in un epoca dove i cellulari e internet non esistevano ancora, riesce a farsi trovare da tutti i suoi amichetti. Attraverso un numero incredibile di spinelli, scopate e pestaggi Doc insegue una pista dopo l’altra, tutto porta verso la Golden Fang che prima è una barca, poi un’organizzazione segreta, poi forse una persona e poi ritorna per un po’ ad essere una barca. Non preoccupatevi se perderete il filo, a nessuno interessa risolvere il caso, quanto continuare a gironzolare e lasciarsi trasportare tra palazzinari in crisi di coscienza e hippie convinti di venire dalla scomparsa Lemuria, neonazisti e vigilantes, sbirri polizziotteschi con la passione per le banane split, avvocati di diritto marittimo, pupe stratosferiche dai nomi come Jade, Bambi o Shasta e tipe toste dai gusti sessuali particolari, dentisti completamente fuori di testa e band di surf rock composte principalmente da zombie. In men che non si dica sarete trasportati nel gorgo di un trip psichedelico e irresistibile, guidati (?) da Doc Sportello che in fondo è una brava persona e per fortuna non è l’unico. Grazie all’autore e la sua qualifica di tessitore supremo e maestro del depistaggio totale, la nebbia sale e si mescola allo smog della città degli angeli, e tutto è ancora più vago, incomprensibile. L’unica cosa certa è che ci sia qualcosa di strano, di non detto, un sospetto, che spiegherebbe tutto.

…cioè…alla fine…chi diavolo è stato? E perché cavolo questo tizio…cioè. E quello coi denti d’oro scusa? Dove….? hmn. Senti, mi è venuta fame, hai qualcosa nel frigo?

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Hilda folk.

hilda coverQuando il corvo è comparso tra le pagine colorate dell’albo che stavo sfogliando, ho subito pensato che fosse un segno. Oltretutto si trattava di un corvo parlante, che aveva appena perso la memoria per colpa di un sasso e di un bambino molto preciso. Avere un animale totemico ha i suoi indubitabili vantaggi: ogni volta che incroci il tuo corrispettivo peloso, piumato o tentacolare il tuo cervello, opportunamente addestrato, riconosce una minima organizzazione in mezzo al caos dell’esistenza. Non c’è nulla di più rassicurante. Conferma le tue decisioni, le giustifica e le rafforza, se sei convinto di esse. Le annulla e le smorza se il dubbio è già alloggiato dentro di te. Ovviamente non c’è nulla di razionale e di scientifico in tutto questo, ma nella profondità dei gangli spugnosi delle circonvoluzioni cerebrali qualcosa si muove lo stesso. Badate. È da un annetto che rimugino su questa cosa, esploro e mi imbatto in cose straordinarie, quindi prima o poi avrei dovuto farla, questa recensione, ma aver trovato un Muninn così bello mi ha dato una bella mossa. Della nostra serie per il momento sono stati pubblicati solo tre libri, ma si spera che Luke Pearson continui a disegnarne molti molti altri. Qui l’elenco, si spera da allungare, delle avventure fin’ora pubblicate, tutte per Bao Publishing, tutte a 14,00 euro:

Hilda e il Troll.

Hilda e il Gigante di Mezzanotte.

Hilda e la Parata dei Pennuti.

Gli albi sono pubblicati nella collana Ba-Bao, dedicata ai bambini, la biblioteca dove faccio lo stage li ha catalogati nella sezione ragazzi e i residui di cibo rinsecchito appiccicati alle pagine testimoniano la loro lettura da parte di esseri sporchicci e bavosi. Si. Invece delle graphic novel che vanno di moda adesso, i fumetti per i grandi, io vi propino cose da ragazzini. La narrazione è semplice, i dialoghi pochi ma di una profondità incredibile, dovuta alla straordinaria capacità di sintesi del suo autore. C’è ad esempio l’uomo di legno, che viene sempre a casa di Hilda perché è consapevole di troppe cose in casa sua per sentirsi davvero a suo agio. Per la lunghezza di due vignette la ragazzina coi capelli blu si chiede cose importanti, consola la mamma o contempla la meraviglia del mondo, per poi gettarsi in un’altra avventura. Hilda incontra giganti altissimi dalla pazienza millenaria e piccoli elfi dalle abitudini burocratiche. Troll assetati di sangue e corvi parlanti con una missione dimenticata, ci sono i Woff che migrano ogni settimana verso non si sa dove, mostri marini e creature misteriose. E poi l’uomo di legno. Ogni sasso, muschio e rametto è importante e avventuroso quanto un drago sputafuoco e dormire sotto la tenda quando fuori piove è un’esperienza da non lasciarsi sfuggire.

Un folklore scandinavo moderno e raffinato, Hilda Folk è il titolo originale di un fumetto che insegna ai bambini a bambinare. Trame mai scontate e livelli che si intersecano continuamente, dal piccolo al grande, passando per la mamma di Hilda, che deve crescere da sola una bambina in un mondo molto vivo ma molto difficile.

Luke Pearson padroneggia con incredibile maestria le possibilità narrative del racconto per immagini, in ogni sua caratteristica, dal tratto al colore, portandoci in un mondo incredibile dove lo straordinario è la normalità, ma non per questo può essere meno meraviglioso. L’autore ha lavorato per Adventure Time e ricorda Tove Jansson e Hayao Miyazaki, per la loro multiforme fantasia che si insinua nella realtà. Al lettore attento però non sfuggirà un legame molto più intimo, per temi e tratto, con Bill Watterson, uno dei più grandi disegnatori contemporanei (quello di Calvin e Hobbes per capirci). Con la stessa delicatezza e ironia Pearson arriva nel profondo delle nostre coscienze assopite, lancia piccoli e innocenti sassi nello stagno che però lasciano cerchi concentrici che si allargano a dismisura. Con l’innocenza di una bambina fa domande scomode sui perché e sui percome della vita, senza neanche un punto interrogativo. Se non avete mai provato a leggere un fumetto “serio” cominciate da qui, entrate in un mondo nuovo e fresco, in continuo mutamento.

P.S. A proposito, nei tre libri non cambia solo la storia, ma anche il disegno. Tre Hilde tre mamme tre Twig. Ne aspetto ancora.

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Le immagini arrivano dal sito Good Ok Bad.

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Cinquanta isole.

atlanteNon mi sono restati molti ricordi della mia infanzia, o di tutto il resto della mia vita. Tendo a dimenticare molto facilmente tutto quanto, anche per questo scrivo in questo posto. Mi resta però, e spero mi resterà per sempre, la memoria di un viaggio fatto con i miei genitori alle Canarie. Incredibilmente mi porto dietro una quantità straordinaria di dettagli: il cappellino a righe colorate, una valigetta di cartone rossa e gialla dove mettevo i fogli per disegnare e una quantità assurda di pennarelli colorati, la gita al vulcano, il negozio di souvenir vulcanici e il messaggio registrato che avvertiva in tantissime lingue che era severamente vietato asportare detriti piroclastici dalle falde del monte. L’asfalto bollente della pista d’atterraggio. Ma soprattutto c’era l’isola. Non quella dove eravamo atterrati e dove avevano costruito l’albergo dove soggiornavamo, ma quella della piscina. Al centro esatto c’era una struttura piastrellata e riempita di terra, dove crescevano rigogliose piccole palme e arbusti dalle forme strane dai fiori colorati. Non sapevo nuotare e allora pregavo continuamente mio papà di portarmi sull’isola, così da poterla esplorare. Una ben misera esplorazione sul cornicione di una grossa aiuola, ma inspiegabilmente attraente. Nel mio universo di bambino era remota, solitaria e inaccessibile, perché nessuno ci voleva andare. Se stessi scrivendo un’autobiografia potrei dire per certo che erano i primi stimoli naturali ed innati verso la grande passione esplorativa del mio fulgente futuro. Ma non è il nostro caso: le isole continuano a piacermi, ma ne ho esplorate ben poche, dal mio cuscino.

Che fantastica occasione allora, il regalo di Natale della mia ragazza. Con l’Atlante delle Isole Remote di Judith Schalansky (pp. 143, euro 21.50, Bompiani, traduzione Francesca Gabelli) potevo finalmente darmi all’esplorazione immaginativa, sicura ed economica, da sotto le coperte o stravaccato sul divano. E questo era anche l’obiettivo dell’autrice, con cui condivido la morbosa passione per le carte geografiche e le loro lussuriose seduzioni esotiche e immaginarie. Cinquanta tavole per cinquanta isole diverse, accompagnate da tutti i dati topografici necessari, dalla cronologia delle esplorazioni e da un breve racconto, come potrebbe esserlo l’articolo di un blog.

L’Atlante ha vinto dei premi di design ed è stato nominato “Libro più bello dell’anno” in Germania, e il modo in cui è stato confezionato è parte integrante della sua bellezza. Si alternano pochi forti colori: l’azzurro del mare e l’arancione degli insediamenti umani, il bianco punteggiato dei reef sottomarini o la densa pennellata dei ghiacci perenni; mille sfumature di grigio tipografico che di volta in volta diventa roccia, sabbia, scogliera, pianura, rupe, collina, vulcano, fossa, costa, cima. In bianco i nomi delle cose acquatiche baie laghi golfi e insenature, in nero i nomi della terra città vette casupole e capi. Ogni segno topografico è portatore di significato e di elegante bellezza, come i nomi dei fiordi, che si incurvano per seguire il profilo del loro proprietario. Cinquanta forme e dimensioni diverse: lacrime, grossi sassi, pinne, triangoli, salsicciotti, anelli, draghi marini, padelle, asce, arance, o semplicemente isole a forma di isola, un confine frastagliato con attorno il mare. Cinquanta storie, bellissime e uniche, tremende e spietate, di alcune non troverete notizia se non in questo libro. Storie di esploratori e di naufraghi, di scienziati e di avventurieri, di pinguini e granchi. La storia di Amelia Earhart, donna e pioniera del volo, che scompare nel blu dell’oceano mentre la radio invia richiami sempre più deboli. Quella degli ammutinati del Bounty, e delle loro disgustose abitudini. Isole tropicali sommerse e distrutte dall’innalzamento del mare, per colpa del sale che brucia le radici delle palme e rovina la falda di acqua dolce. Colonie penali e spedizioni scientifiche frustrate. Anomalie genetiche trasformate in racconti poetici. Sogni in lingue sconosciute. Brevi squarci, senza pretesa alcuna di esaustività, che vi spingeranno a controllare su Wikipedia per saperne di più. Cosa che vi lascerà profondamente frustrati: molto spesso l’unica fonte sarà solo questo libro.

Un libro da leggere tutto d’un fiato una domenica pomeriggio piovosa, sognando mari cristallini e noci di cocco; oppure una calda mattina estiva, immaginando lontane distese ghiacciate. Questo album di sogni merita di essere letto e riletto, come un libro per bambini, tutte le volte che vorrete. Un biglietto economico per l’incontaminata isola della vostra fantasia. Immersa in cinquanta pagine azzurre.

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In fuga dalla realtà.

PANOPTICON_piattaDevo confessare un certo imbarazzo che provo quando amici e conoscenti sostengono il valore culturale della lettura. Leggere libri, leggerne tanti, pochi, belli e brutti non importa, rende persone migliori, più educate, civili. Cittadini esemplari. Tutti dovrebbero leggere. Ci si lamenta che il numero delle persone che leggono continui a scendere, la colpa è degli e-book e del cinematografo, della stampa a caratteri mobili, del cristianesimo. La conseguenza è un’inevitabile distruzione della cultura e della società, sprofondata in abissi di ignoranza e stupidità.

A parte l’evidente esempio di professori di letteratura italiana contemporanea gran lettori e grandissimi stronzi, forse non si pensa abbastanza a come funziona la lettura. Leggere è una dipendenza. Quando si parla di droghe leggere, e si cerca di equiparare la marijuana all’alcool o al fumo, dicendo che fa male solo se si esagera, bisognerebbe mettere nel gruppo anche i libri. Si legge per lo stesso motivo per cui ci si droga, per cui ci si ubriaca, per cui si sperperano gli stipendi davanti a uno schermo. La realtà, diciamocelo, a volte fa schifo. E a certe persone fa ancora più schifo. Morte malattia solitudine e la cosa peggiore di tutte: la noia. I libri, come l’alcool, sono un metodo escapistico socialmente accettato e con pochi rischi per la salute. Ad un prezzo tutto sommato onesto, a volte gratis in biblioteca, possiamo accedere ad alcune ore di evasione totale. Sollevati dal peso della quotidianità, un mondo di parole virtualmente infinito si spalanca ai nostri appetiti, sempre più insaziabili. Ogni volta che un libro ci piace, la nostra fame aumenta, tendente all’infinito e per questo impossibile da colmare. Alcune persone si perdono, precipitano dentro a questo abisso, auto-emarginati dalla società, tremendamente soli, ma sicuramente più considerati che un qualunque tossico. Bravo! Bravo! Com’è sapiente, quanta conoscenza! Lui sì che è infine giunto prossimo alla Verità. Considerate questo mentre leggete, nel caso lo facciate, lo strumento di perdizione di cui scrivo oggi. Perché Jenni Fagan, in Panopticon (ISBN, euro 17,50, pp. 399, traduzione Barbara Ronca), racconta proprio di alcuni nostri simili.

Sono sexy, sexy, sexy. Voglio essere toccata. Voglio scopare e baciare, e uscire dalla mia testa, però subito. È questa la cosa migliore quando scopi, il momento in cui la mente lascia il corpo. Se non fosse per quello non sarebbe così bello.

Queste sono le parole di Anais Hendricks, quindicenne scozzese e abituale frequentatrice di istituti e famiglie affidatarie da quando è nata. Alla periferia delle tristi città industriali del nord bisogna crescere alla svelta e Anais l’ha fatto prima di chiunque altro, avviandosi a una felice carriera di piccola delinquenza, brutte compagnie e una quantità di robaccia chimica inimmaginabile. Ora, ovviamente è nei guai, grossi guai, perché un’agente di polizia è in coma dopo essere stata pestata a sangue e forse è colpa sua. La nostra amica ci narra in prima persona il Panopticon, l’innovativo e già cadente istituto di ritenzione che la accoglierà in attesa della sentenza, la sua particolare architettura e popolazione, con una lingua quanto mai tagliente. Anais infatti potrà anche essere strafatta per la maggior parte del tempo, ma è una ragazza sveglia. Quando non è in botta e la obbligano ad andare a scuola prende sempre il massimo dei voti, ha una memoria formidabile e ha dei gusti decisamente particolari e stravaganti. Buttare giù schifezze da quando hai otto anni non ti lascia proprio tutto quadro e infatti Anais, come gli altri “ospiti” comincia a soffrire di allucinazioni, manie di persecuzione e altri disagi assortiti, mentali e fisici, che contemplano Malcom il gatto alato e L’Esperimento, misteriosa organizzazione che cerca di agguantarla.

Jenni Fagan cosa ci dà allora? Un libro scritto molto bene su una ragazza che cerca di scappare, in ogni modo possibile. Un occasione in più di espandere la nostra fame, vivere, comodamente seduti sulla poltrona, vivere per finta nel disagio sociale, nello schifo profondo della vita che alcune persone devono fare, percepire qualcosa di nuovo, un cibo, una bevanda prelibata. Anche il tartufo puzza, ma un pochino ogni tanto è molto buono e male non fa. Seguire Anais nelle sue disavventure ogni tanto vi farà attorcigliare lo stomaco, distogliere lo sguardo per il disgusto, e dubitare della sospensione dell’incredulità. Ma non importa. Perché tanto è tutto un libro no? Una fuga immaginaria, fine a se stessa, che mira alla soddisfazione di un nostro bisogno, della nostra dipendenza dalla fantasia altrui.

Non dovete pensare che l’autrice ha lavorato per anni in ospedali e carceri scozzesi.

Non dovete pensare che Rotherham non è molto lontano dalla Scozia e che tutto quello che ci racconta Anais Hendrick da qualche parte, in qualche tempo, è successo per davvero.

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Vita di un uomo semplice.

$(KGrHqVHJEwFFy,lgeEwBRcsQISqk!~~60_35C‘era una volta, o forse non c’era, una cosa che non ha neppure un nome preciso. Prima che il mondo esplodesse nella guerra e tutto venisse disintegrato, lasciando pezzetti ovunque, esisteva. O forse no, e ha cominciato a vivere solo nella fantasia e nella nostalgia di chi vi era nato, nei libri e nei quadri. Non potresti chiamarla cultura, regione geografica, stato, neppure nazione, perché era fatta di russi, di ucraini di polacchi di tedeschi di tartari di bielorussi di cattolici e di ortodossi di protestanti di ricchi di poveri di contadini e di conti di sudditi di imperi e, soprattutto, di ebrei. Non potresti neppure guardarla fissa per un momento, perché era in continuo movimento, un vortice impossibile, che ha preso coscienza di sé nel preciso istante in cui stava morendo. Al centro di questa cosa c’era la Galizia, e al centro della Galizia c’era Zuchnow, dove è nato Joseph Roth, l’autore di Giobbe, romanzo di un uomo semplice (Adelphi, pp. 195, euro 9, traduzione Laura Terreni).
E lì nasce anche il nostro protagonista:

Molti anni fa viveva a Zuchnow un uomo che si chiamava Mendel Singer. Era devoto, timorato di Dio e simile agli altri, un comunissimo ebreo. Esercitava la semplice professione del maestro. Nella sua casa, che consisteva tutta in un ampia cucina, faceva conoscere la bibbia ai bambini. Insegnava con onesto zelo e senza vistosi successi. Migliaia e migliaia prima di lui avevano vissuto e insegnato nello stesso modo.

Questo invece è l’inizio del libro di Giobbe, quello originale:

Viveva nella terra di Us un uomo chiamato Giobbe, integro e retto, timorato di Dio e lontano dal male. Gli erano nati sette figli e tre figlie; possedeva settemila pecore e tremila cammelli, cinquecento paia di buoi e cinquecento asine, e una servitù molto numerosa. Quest’uomo era il più grande fra tutti i figli d’Oriente.

Questo dovrebbe farvi capire, in che modo sottile, obliquo, Roth utilizzi la lingua, le parole e le immagini della tradizione ebraica: Giobbe non era un semplice, era il migliore. Mendel Singer invece è un uomo semplice e quasi meschino, semplice è la sua vita e semplici le sventure che gli capitano che, per quanto terribili, sono perfettamente inserite nel normale flusso delle cose, non c’è una forza superiore che sembra congiurare contro di lui: Mendel Singer è solo un numero nella percentuale. In tempi burrascosi, la normalità è sfortunata. Roth dosa ogni singolo particolare del suo romanzo per mantenerlo su un precario equilibrio e invece di creare un’interpretazione comprensibile continua a mescolare le carte, facendo oscillare la nostra attenzione di lettori da un particolare all’altro. Non si può, e non si deve, capire da quale peccato derivino le punizioni divine: forse sua figlia è entrata in una chiesa cristiana per sbaglio, forse la moglie è stata invidiosa, avida e insoddisfatta, forse lui ha picchiato i suoi figli. Per quanto si cerchi, tra le piccole e miserevoli azioni, tentazioni e peccati, nulla giustifica agli occhi di Mendel, e dei nostri, la punizione divina. Le loro vite erano già abbastanza miserevoli, senza che Iddio li punisse con la deformità di Menuchim, il loro ultimo figlio.
Il libro racconta della vita di un ebreo qualsiasi, vissuto nell’Europa orientale e poi nell’America dei primi anni del novecento. Non vi aspettate grandi riflessioni spirituali sulla natura del destino, ma piuttosto un grandissimo spettacolo teatrale, colorato e folle come i dipinti di Chagall, in cui i colori puri sfumano dal chiaro allo scuro, con la forza primordiale delle fiabe o della Bibbia e la profondità psicologica di un capace scrittore. In questo romanzo i bambini sono furbi come volpi e forti come orsi, le ragazze hanno gli occhi profondi come la notte, le labbra rosse e sono agili come gazzelle, le stelle parlano e i soldati non sono fatti di carne ma di odore di sudore umano, equino e profumo di sella di cuoio bulgaro. I pavimenti puliti delle case sono di colore giallo, come sole fuso, il mare è verde e la neve bianca, le fiamme delle candele danzano assieme agli ebrei in preghiera, che ondeggiano al ritmo dei loro salmi nella lingua antica dai suoni spezzati. Non c’è colpa in loro, non c’è colpa in nessuno, non c’è nella moglie Deborah, che ama tutti i suoi figli, non c’è nella figlia Shemariah, che ama tutti gli uomini, persino i soldati. Non c’è nel piccolo Menuchim, che dondola nella sua culla sospesa sopra ai bambini che ascoltano Mendel. Non c’è colpa nella guerra, non c’è colpa nella morte. C’è solo vita.

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