La fine degli dei

byatt-ragnarock-recensioneIn tutti questi mesi non ho certo mai smesso di leggere ma soltanto di scrivere. A parte qualche sparuto articolo che il tempo il dovere o l’impellenza mi hanno fatto scrivere, di settimana in settimana diminuisce lo spazio sulla mensola della cucina dove tengo i libri che sto frequentando di recente. Il fatto che non abbiano cominciato a cadere dal bordo è dovuto solo al fatto che all’appello mancano tutti quelli restituiti in ritardo alla biblioteca, quelli restituiti alle persone che me li hanno prestati, quelli che per abbandono sono stati presi e riposti al sicuro sotto la polvere della mansarda. I recenti regali hanno causato un accumulo anche maggiore, i solleciti di restituzione si fanno più insistenti e da qualche parte dovrò pur cominciare, per smaltire gli arretrati. Il fatto di pubblicare quando mi pare sta diventando pubblicare mai. Per la gioia dei miei creditori comincerò non dai libri che gli devo, ma da uno che ormai da mesi è tornato a casa sua, in biblioteca. Scriverò di un libro che lessi tempo fa e di cui mi ricordavo neppure il nome dell’autore.

Questo sforzo di memoria però non è privo del suo fascino, perché questo libro racconta i ricordi d’infanzia della sua autrice e per farlo sceglie di usare anche la mitologia epica norrena, nel migliore dei modi possibili. Certo sarete d’accordo con me che se il blog si chiama Muninn, il corvo di Odino il cui nome significa proprio memoria, tutta questa operazione potrebbe smettere i panni della buffonata e assumere un’apparenza quasi seria, professionale e postmoderna. Ricordare i ricordi di una persona, che per ricordarli ha usato storie che sono care a entrambi. Io e la signora Byatt non ci incontreremo mai, credo, ma i libri molto spesso mettono in contatto le persone nei modi più impensabili.

A. S. Byatt ora è una famosa e rispettata scrittrice britannica. I suoi raffinati libri sono bestseller ed è anche ovviamente apprezzata come critica ed esperta di letteratura. Dico ovviamente perché il suo è un modo di scrivere che del rubare agli altri ha fatto una bandiera: alla fine puoi chiamare postmoderno un autore che ruba ad altri autori ma che mette in mostra il suo gesto. Ottima imitatrice di stili infatti, la scrittrice riesce a riprodurre con destrezza documenti di epoca vittoriana o frammenti epici scandinavi. Un tempo però è stata una piccola ragazza magra, che con la madre (e una sorella di cui non parla mai) si rifugiò in campagna durante la guerra, mentre i tedeschi bombardavano Londra ogni giorno e il padre volava sopra l’Africa settentrionale, forse ancora vivo, forse già morto.

È questa bambina sola, a cui la colta madre regala un libro di racconti sui miti nordici, che attraversa le colline inglesi lungo stradine sterrate, lungo i cui bordi, tra le fessure dei muretti a secco, nelle zone umide o sotto certi alberi, crescono piante aromatiche e si muovono insetti, descritti con la precisione del loro nome scientifico, appena usciti dal manuale di botanica che la ragazzina sfoglia con altrettanta passione. La bambina, per non pensare al crudele destino che attende il padre in guerra si rifugia nella natura e nelle pagine del mito, dove trova conforto nel caotico tempo di Odino e dei suoi figli, destinato a collassare su se stesso durante il Ragnarock, la fine del mondo, a cui non possono porre rimedio perché loro stessi sono causa di esso.

Lei legge il libro per se stessa e lo rilegge per noi, raccontandoci di come il mondo fu creato da una vacca che leccava il sale sull’orlo del gorgo primordiale e di come nacquero i fiumi e le montagne, dal corpo di un gigante. Racconta del re di tutti gli dei, che ha ottenuto la sua saggezza a costo di grandi sacrifici e delle imprese bellicose dei suoi numerosi figli e sudditi. Racconta di Loki, il mutaforma, la fiamma, l’ingannatore. Amico e nemico, causa della fine del mondo solo perché vuole difendere i suoi mostruosi figli, generati con una altrettanto mostruosa consorte. Ma l’obiettivo della Byatt non è cercare di spiegare da dove arrivano questi dei: se sono forse i nomi di antichi guerrieri indoeuropei che combatterono antiche guerre dimenticate o se sono riflessi dei nostri istinti universali. Il suo obiettivo era trovare conforto e per farlo è entrata in quel mondo e in quelle storie, condannate ad una fine certa e ineluttabile e ad un eterno ritorno. Ha cominciato a raccontare anche lei, rubando il suono alle parole di popoli estinti, per esplorare zone della storia rimaste oscure, trattando la materia epica nel solo modo possibile, inventandone altra. Con gli stessi ritmi, accenti e vocali con cui ci parla di Fimbulvetr, l’infinito inverno, o della morte di Yggdrasil enorme frassino che sorregge i mondi, la Byatt ci parla del possente albero marino di alghe dove vivono gli dei del mare e dell’enorme serpente che lo divorerà alla fine del mondo. Così la storia di quella piccola bambina ha preso il suo posto in mezzo a quella degli antichi bardi, imitando i suoni dei loro nomi e dei loro tristi destini. Così infine ha scritto dell’epica, giusto qualche anno dopo il secondo millennio Avanti Cristo.

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In busta chiusa

:puntegg!atura,

 

punteggiatura_cartaresistente

Dott. H.G. Umlaut
Via cümunela 4, La Punt-Chamues
7522 CH

Caro. Dottore!

Le scrivo per: aggiornarla sui progressi della sua cura sulla mia malattia. Sto sperimentando grande sollievo…da quando ho cominciato, le somministrazioni di letteratura quotidiane da lei suggerite. Purtroppo, ho; ancora! Molto: spesso…delle. Ricadute? E come mi ha detto lei fin dalla prima seduta, i tempi per una completa guarigione potrebbero richiedere mesi; se non 12 mesi. Ma devo ammettere che ad oggi i sintomi si sono ridotti notevolmente. (Come da lei consigliato inizio la mattina) con una piccolissima dose, della Battaglia di Tripoli, ma diluita 1 bicchiere + vetro + acqua – zucchero. Questa cura d’urto mi, garantisce una relativa tranquillità per il resto della giornata. Sul lavoro sopra-t-tutto non sono da: segnalare grandi? problemi {anche perché si occupa di tutto il mio segretario [che trascrive per me, ogni tipo di documento (sia pubblico che privato) tutti i giorni] fortunatamente} Ho provato ad utilizzare anche del ZANG TUMB TUMB per vedere. Se gli effetti potevano essere potenziati, ma ho notato che aumentano le tendenze superomistiche e per ora + ora + ora dopo l’assunzione risulto particolarmente eccitabile sessualmente…soprattutto alla vista di CROMATURE!!!!! Per cui ho preferito non proseguire la sperimentazione. Anche per non compromettere ulteriormente il mio matrimonio – non – che a mia moglie sia dispiaciuto le prime volte – ma – l’ultima ho provato a gettarla in una vasca piena (!) di soluzione elettrolitica H2SO4. Capisce anche lei che non posso…cromare…mia moglie…solo per…curare la mia peculiare disgrafia.

A pranzo…quando proprio proprio rischio che mi torni una bella ricaduta…e che tutto vada a farsi fottere…che si sa come vanno queste cose!…Alè! Mi piglio una bella pagina del caro Luis-Ferdinand. Quel puttaniere. Senza però esagerare. Che senò…a me il torpiloquio libero non me lo toglie nessuno…! E poi senò…altro che caghetta! Di solito prendo il Viaggio, ma! Per verificare se ci sono eventuali controindicazioni…sto sperimentando…La trilogia del Nord.

Devo invece segnalare “i preoccupanti effetti collaterali di una sua prescrizione” e sto, ovviamente parlando dei volumi di. Joyce. Pur, nella riconosciuta efficacia nella cura della Pletopuntuazione Logorroica, la posologia deve essere completamente rivista, perché soprattutto alla sera quando coricato nel letto con mia moglie, poiché mi ha detto che quello è il momento migliore, la scrittura si alleggerisce e provo a scrivere e ammetto che non ci sono più problemi nessun problema e le parole escono dalla penna una dopo l’altra e tutti i piccoli pezzetti neri digitati scritti incisi segnati uno dopo l’altro che scorrono veloci sempre più veloci corrono attraverso la pagina all’improvviso non si possono più fermare escono escono escono e io so che me li posso girare come voglio e penso a Gibilterra solo a Gibilterra non c’è un’altra città nella Spagna che è tanto grande a cui pensare no proprio Gibilterra che alla fine è tutta aeroporto e sassi e tra un po’ non è più neppure nell’Unione Europea molto meglio Granada allora che c’è l’Alhambra e non c’è il mare che è sempre così umido Dio com’è umido il mare vede dottore la cura è quasi peggio della malattia e mia moglie comincia a lamentarsi che non la smetto di battere o di sfregare sulla carta e io cosa posso farci penso a lei e a Gibilterra e a tutti questi punti virgole trattini parentesi apici pedici comici cimici calici caporali tenenti punti e a capo quanto mi fa male la testa dottore capisce che è troppo forte quandopoicominciaafareeffettoveramenteèunmacellolasalutocoimiglioriauguridottorealeieallafamiglia

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Con affetto,
Un’paziente

Per chi si sta chiedendo qual è il senso di tutto ciò: Cartaresistente

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Berserk americano

The daughter who tranports him out of the longed-for American pastoral and into everything that is its enemy, into the fury, the violence, and the desperation of the counterpastoral: into the indigenous American berserk.

Pastorale_Americana_recensioneVincenzo Mantovani traduce quell’ultima parola di Philip Roth con altre due: indigenous American berserk diventa innata rabbia cieca dell’America. Ma cos’è questo berserk che la traduzione ci ha fatto perdere?

I berserk erano leggendari guerrieri scandinavi: leggende già nell’epoca buia e sanguinaria, o almeno così siamo soliti immaginarcela, dell’età vichinga. Ricoperti unicamente da teste pelli e artigli d’orso, di cui acquisivano così il nome e la potenza, erano i più temuti avversari sul campo di battaglia. Forse con l’aiuto di procedure sciamaniche o pozioni allucinogene i berserk precipitavano in uno stato di selvaggio invasamento: mordevano i loro stessi scudi, dalla bocca schiumante uscivano urla belluine, dai muscoli irrigiditi delle braccia partivano furiosi fendenti. Instancabili, insensibili, inarrestabili. Il loro obiettivo non era combattere con onore, non era neppure vincere, non era rimanere in vita per godersi i festeggiamenti nelle grandi sale di legno, non temevano la morte. Il loro unico scopo era squartare, spezzare, trafiggere, ricoprire il mondo di porpora, finché ogni forza li avrebbe abbandonati, lasciandoli indifesi e sprofondati nel sonno per giorni e giorni.

Il berserk della nostra storia non è Lo Svedese, lui è il nostro protagonista: Seymour Lvov ebreo di Newark, alto e biondo, intelligente e atletico, dotato negli sport come negli affari. Ammirato da tutta la popolazione israelitica del sobborgo perché rappresenta l’incarnazione stessa del sogno americano, figlio marito e padre fedele, la descrizione della sua vita è un’iscrizione sulla lapide. Uomo giusto e buono, fa sempre, la cosa migliore per tutti. Non lo guida l’ambizione o la bramosia, ma il rispetto per il padre, l’amore per la famiglia, per un guanto ben fatto, ama il sogno americano perché lui stesso ne è la più alta e vera realizzazione. Nessun rimpianto, nessun dubbio, nessun segreto, nessuna sofferenza esistenziale somatizzata nell’alcool. Lo Svedese non è Gatsby. Lo Svedese è felice di essere se stesso.

Il berserk della nostra storia è Merry, la figlia dello Svedese. Nonostante il nome non porterà a lungo felicità alla famiglia Lvov. Bambina balbettante prima, adolescente rabbiosa poi, è fonte di preoccupazione per i genitori, che cercano di aiutarla in ogni maniera possibile, forti del loro amore e delle loro risorse. Ma nulla serve a lungo per lei, ha scelto la sua strada e nulla può fermarla perché non ci sono argomentazioni razionali dietro ciò che muove lei nella lotta sempre più violenta contro la guerra in Vietnam. Dentro di lei si cela il caos, l’anarchia selvaggia, il desiderio di vedere crollare tutto, fare esplodere la perfezione della sua famiglia in miliardi di coriandoli colorati. Saranno le esplosioni infatti a coronare la ribellione totale di una sedicenne sovrappeso, tra le grida e la bocca balbuziente ricoperta di saliva. Lasciando il padre ad affrontare per la prima volta in vita sua l’orrore e il disgusto, ma soprattutto il dubbio e l’esitazione, un germe che presto infetta tutto il piccolo paradiso della vita dello Svedese.

Ancora una volta sono i personaggi, grandiosi, tragici, profondamente umani e veri, che siano protagonisti o accessori narrativi, l’arma segreta di Roth. Come per i grandi russi, di cui lo scrittore stesso non fa mistero essere un gran ricopiatore, gli umani che si agitano sulla carta sono personalità vaste e profonde, la cui esplorazione supera quella della trama, che alla fine segue sempre quello schema di peripezia arcaico e fisso e che emerge facilmente grattando la superficie moderna e nichilista del romanzo. Come il Roth di Nemesi, come l’altro Roth, quello che invece nel sogno americano aveva creduto, tutti gli ebrei del mondo, che sono solo un modo per dire quelle persone che meditano troppo a lungo sul significato delle cose fino a rompersi la testa, Pastorale Americana è di nuovo il libro di Giobbe, solo senza Yawhe a cui inviare le lamentazioni. Senza nessuno che ascolti la domanda, siamo noi gli unici interlocutori, a cui viene chiesto di capire perché basti una scheggia impazzita, un microscopico virus, un battito di farfalla, a far crollare il nostro castello. I suoi personaggi passano le loro brevi esistenze a cercare di capire cosa ha causato la loro rovina, se la colpa è delle fondamenta o della forza del cancro alla prostata, della ricchezza o della povertà, del capitalismo o del socialismo, del troppo amore o del poco amore, dell’integrazione multiculturale o dell’integralismo islamico. Philip Roth passa un’intera vita a gridare ai suoi smarriti personaggi che non possono sentirlo: nessuno ne ha colpa! Nessuno! Con un gesto che sembra di clemenza costruisce una cornice, ci fa sperare che la storia non sia andata davvero così, che sia un artificio letterario di Zuckerman, ma la cornice regge solo metà del quadro e l’abisso che spalanca oltre i suoi confini è colmo delle potenze del caos, che danzano sbavanti di sangue terra e saliva, coperte da pelli d’orso. Mentre le sue domande riverberano nel vuoto, scuotendo ogni certezza.

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Preparativi IV

pablo-picasso-reading-book-cigaretteI riti e i miti, come la giusta ricetta per il tiramisù, non sono altro che convenzioni reiterate all’infinito per cementare la comunità attorno a pochi punti fissi che non sbrodolino lungo i flussi vorticanti dei mutamenti storici. Questo post è in effetti uno di questi riti. Oramai alla sua quarta edizione, è definitivamente sfuggito al controllo del suo creatore, come un Golem impazzito. E’ costituito da alcuni elementi bizzarri, sicuramente superflui, ma che non sono più nella posizione di modificare, nonostante sia sempre più difficile soddisfare i requisiti. Prendete ad esempio la foto qui a sinistra: perché Picasso? Perché è quasi impossibile trovare altri vip che leggono un libro in costume. E gli scrittori non vanno al mare, evidentemente. E la grafica? Non la trovate fastidiosa? Quella in effetti la cambierò. Poi, questa storia dei conigli, ma a voi piace? Non sta diventando un tantinello imbarazzante? Ma niente da fare, sarà così per sempre, anche quando Muninn diventerà una voce conosciuta e rispettata nel mondo della critica letteraria, portandolo a un rapido declino e a una lunga decadenza come recensore di libri su Amazon.  Quindi ecco a voi sette libri non ancora letti e scelti a caso dagli scaffali delle librerie, di cui non possiamo essere certi del contenuto, che quindi consigliamo a scatola chiusa, mentendo e mentendo sulla menzogna stessa. In un tempo in cui tutti inneggiano alla Verità e al suo Tradimento qui sapete di trovare un porto sicuro zeppo di menzogne. Comunque, dicevamo, i riti, questo rito serve soprattutto a me, che così posso riprendere il ritmo e preparare ad agosto qualche pezzo per settembre (e immagino a nessun altro) anche perché ce ne saranno quanti, diecimila? Di altri consigli per le vacanze. Anzi no di

CONIGLI PER LE VACANZEEE!!!

image011Questa creatura delle tenebre – Harry Thompson

Questo è fico, parla del tizio che ha portato a spasso Darwin per i Mari del Sud. Non saremmo noi se non infilassimo da qualche parte un’avventura di mare, eccovela. Molto fico il titolo, ma mi sa che si riferisce alla depressione, e non ai mostri degli abissi. Fico comunque.

Anima – Wajdi Mouawad

Questo è un libro per la gente che scappa e va in un posto che non è più casa sua. Ma in realtà ci sono un sacco di animali schifosi che raccontano la storia, che deve essere un omicidio. Riproviamo con i narratori extraumani, Io sono un gatto faceva proprio schifo, ve lo dico.

Ragnarock – A.S. Byatt

WOW per essere un blog che prende il suo nome dal corvo di Odino ammetto di essere particolarmente carente e colpevolmente manchevole di rimpinzare le pagine con troll e martelli divini. Provvediamo con questo racconto potente ed evocativo che prende il mito nordico e lo strapazza dispiegandolo sulle molli colline verdi della campagna inglese. Ci sono gli elenchi, ci sono i nomi strani. Si inventa un sacco. Grandi aspettative.

Mercoledì delle ceneri  – Ethan Hawke

Storia d’amore per adolescenti scritta da un attore di Hollywood o gran bel pezzo di letteratura scritto da un autore di razza? Si piange e si ride e si balla a New Orleans in questo libro che tutti dicono molto bello. Fa salire un’ansia a un certo punto che quasi non si riesce a finire, ma è pieno di luce. Dicono eh, io non l’ho letto. Forse.

Pasto nudo – William S. Burroughs

Omamma mia, ho visto un fotogramma del film che Cronenberg ha fatto e c’erano tipo dei tizi in una stalla che succhiavano qualcosa da delle creature aliene appese al soffitto tramite delle cannucce. Che robe matte. Forse per leggerlo aspetto che legalizzino la marijuana. O forse no.

Olive Kitteridge – Elizabeth Strout

Ho visto la serie tivi con la moglie dei fratelli Coen. E anche se ho visto in tivi come va a finire, mi sembra che alla storia mancassero dei pezzi, ho comprato il libro a 5 euro in una bancarella dell’usato, questo si legge.

Zero K – Don DeLillo

Quel mattacchione di Don me lo immagino sempre in un loft di New York col pavimento in parquet completamente vuoto, senza mobili o abbellimenti tranne un Rothko alla parete (quindi senza abbelimenti). Seduto per terra, scrive a macchina con un cappello di stagnola in testa così non gli intercettano i pensieri. Forse c’è la radio  per sentire il baseball. Che matto Don! Chissà se il suo ultimo libro è bello o se la demenza senile si è già fatta strada in questo gigante della letteratura mondiale.

Ciao ciao amici, ci vediamo presto, prendete il sole, fate il bagno nel mare, camminate sui sentieri e cercate i funghi! Non bevete troppo ne troppo poco, leggete i libri che ho scritto qua ma anche quelli che vanno a voi. Un abbraccio.

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Mago della fuga.

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Gli escapisti sono quegli illusionisti, maghi, prestigiatori, artisti (chiamateli come volete) che intrattengono il pubblico con mirabolanti fughe ed evasioni dalle più disparate situazioni costrittive. Legati con una corda piedi e polsi, incatenati o ammanettati, chiusi in baule o in sacco, dentro una cassa o in una teca di vetro riempita di acqua, oppure molto più spesso tutte queste cose assieme, gli escapisti devono liberarsi nel minor tempo possibile, a maggior godimento del pubblico pagante. Purtroppo, accompagnati già per molto tempo da una fama non molto lusinghiera, i maghi (chiamiamoli con il loro nome) anche questa volta sono dovuti correre ai ripari. La disciplina che studiano gli escapisti infatti non è l’escapismo, ma l’escapologia, inamidatissimo sostantivo sicuramente scelto dalla comunità scientifica internazionale per evitare a un mestiere, frutto di anni di pratica ed esercizio, l’accostamento con pratiche ritenute grandemente disdicevoli. L’escapista infatti, nonostante la liberazione finale sia sempre legata ad un trucco, deve confrontarsi con ambienti angusti, costrizioni varie, apnee, lucchetti, ed è inaccettabile che fantasie di fuga dalla dura realtà vengano confuse con un mestiere che affronta il gelo del ferro sulla nuda pelle e interminabili ore di esercizi ginnici preparatori.

Noi però rifuggiamo da sterili eufemismi. Cos’è meglio? Escapologo od escapista? Non sembra anche anche a voi che il primo ricordi troppo da vicino parole come podologo e proctologo? A quella laringale che chiude la voce, non preferite il lungo sibilo che sfugge tra i denti di escapisssssssssta?

Joseph K. vive a Praga ed è ebreo. All’improvviso si trova invischiato in una situazione particolarmente spiacevole. Un potere superiore ed oscuro comincia ad accusarlo di qualcosa di indefinito, senza che lui possa fare niente per impedirlo o per difendersi, intrappolato fin da subito nelle pastoie di una burocrazia tra le più raffinate mai comparse sulla Terra. Combattere un potere tanto grande è fuori discussione e anche la fuga, più il tempo passa, più diventa impossibile. Ma non vorrei portarvi fuori strada, la K. sta per Kavalier, e siamo già alla fine degli anni trenta. Il potere è nelle mani del partito nazionalsocialista tedesco anche in quella che fu la Repubblica Cecoslovacca, e i nazisti non sono abituati a fare processi, prima di esprimere una condanna. Grazie all’aiuto di un vecchio maestro prestigiatore, ai suoi genitori e a un’incalcolabile dose di fortuna, il giovane Kavalier riesce a raggiungere la terra delle opportunità, l’America. Qui, insieme al cugino Clayman inventerà l’Escapista (guarda guarda), il più grande supereroe dei fumetti dopo Superman e Batman. Questa è la storia, e non vi dirò niente più di quello che succede, perché ogni cosa in questo libro, trama e sofferenze comprese, è stata pensata per intrattenere e deliziare il lettore. Con una maestria indubbia, Micheal Chabon padroneggia i ferri del mestiere, grimaldelli e cappelli con il doppio fondo, al punto che l’unica cosa che riesco a dirvi è: state seduti e godetevi lo spettacolo.

Dopo aver dato forma e spessore ai due protagonisti de Le fantastiche avventure di Kavalier e Clay, gli fa fare esattamente quanto promesso nel titolo: formidabili avventure, fortune e sventure, coincidenze e ritrovamenti. Chi crede che un romanzo debba essere realistico cercherà inutilmente, ma in fin dei conti, quale racconto lo è veramente? E poi a volte la vita è anche più assurda dell’invenzione. Attraverso la New York scintillante e ricolma di opportunità di prima della guerra, distese di ghiaccio perenne, o gli sconfinati labirinti segreti che si nascondono sotto all’Empire State Building i due personaggi crescono, imparano, perdono, e noi trepidiamo con loro, seguiti da uno sguardo familiare e onniscente, che ci svela il futuro mentre ci inganna sul presente, porta a spasso la nostra attenzione con rapidi movimenti delle dita, mentre il trucco è predisposto dentro la cassa fin dal giorno prima. Per ottocento pagine fuggirete da questo mondo, in un altro chiuso e confortevole, che profuma di assi di pino e fango della Moldova o che puzza di sigarette e adolescenti sudati, ma non per questo immune da scossoni e cadute. Nessuno è mai troppo lontano dalla violenza del mondo, nemmeno in quello della fantasia.

Micheal Chabon ha scritto questo libro riversandovi la sua passione per i fumetti e la loro Età dell’Oro, per la magia del grande Houdini, grazie alle sue origini ebraiche e al suo essere altrettanto americano, ma l’ha scritto per deliziare il lettore. Il quale, pur sapendo che tutto è un trucco, tutto è falso invenzione illusione magia prestidigitazione, si siederà di fronte al palco, nell’attesa del miracolo. Per quanto abili siano nella fuga, i maghi ricompaiono sempre per l’applauso.

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escapismo

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Il dramma scozzese.

Macbeth-coverDa dietro una quinta osservo teso i miei compagni di classe. Sul palco una tredicenne vestita di bianco sfrega le mani cercando di rimuovere macchie immaginarie e nel sonno lancia grida tormentate che fanno rabbrividire il pubblico e noi, oltre le pesanti tende. Tra poco tocca a me, altro mondo, altro tempo, altre strida, prima di tornare nella Scozia dell’Anno Mille o su un treno che viaggia verso una meta sconosciuta, nella Sicilia degli anni venti o in un paesaggio ucronico e assurdo. Di nuovo Scozia, di nuovo Medioevo. Alle ragazze più carine toccava la parte delle streghe, ovviamente, per un Macbeth smarrito e disperato, ipnotizzato come noi dalla ridda in rima.

Fair is foul, and foul is fair.
Hover through the fog and filthy air

È tremendamente difficile accostarsi a Shakespeare. All’enorme peso che le sue opere hanno avuto e continuano ad avere nella storia della letteratura e dell’arte mondiale, corrisponde una opposta e irriducibile sfuggevolezza della materia su cui si basa questa fama. Drammi incompleti, ricopiati, interpolati, ricuciti e tradotti, in prosa e in altre lingue, raccolti per essere letti o recitati ad alta voce, in teatro in mezzo ai popolani che si accoppiano sulle gradinate o di fronte al re nei suoi appartamenti privati. Opere che parlano di sogni, di incubi, fantasmi e visioni. Nebbia e illusione affollano il teatro del Bardo. Il regista poi, ogni volta, e con lui gli attori, interpretano, inventano, tagliano e aggiungono, ogni volta una cosa nuova eppure così antica. Nel 1936 Orson Welles, prima del film, ne curò una versione teatrale, nota come Voodoo Macbeth. Gli attori erano neri e invece che in Scozia il dramma era ambientato ad Haiti. Nei buchi della trama i lettori del copione riversano pulsioni sessuali inespresse, maternità interrotte, allusioni politiche, teologiche. A causa della straordinaria densità semantica riversata in ogni verso, una singola parola detta o solo immaginata, può cambiare il senso a tutta l’opera. How tender’tis to love the babe that milks me Da dieci anni però, ho ancora in mente le grida dell’attrice, e le esitazioni dell’attore che impersonavano Macbeth e la sua sposa. Mentre molto altro è già scivolato via, a raggiungere tutta l’altra materia di cui sono fatti i ricordi, loro li vedo ancora.

Out, damned spot! Out, I say!

Facciamo allora una cosa vietatissima. Togliamo, uno alla volta tutti i personaggi di contorno. I Thane di di Scozia e i soldati inglesi, Macduff e famiglia, medici e dame di compagnia, servitori e vedette, togliamo il portiere ubriaco che fa battute sull’erezione, togliamo persino le streghe, le sorelle fatali che predicono il futuro di Macbeth, e con loro tutti gli spiriti, la nebbia, i tuoni e i fulmini i corvi i gufi i terremoti che sconquassano la notte sulla brughiera e che tanto danno all’atmosfera dell’opera. Cosa resta? Loro due, marito e moglie. Per nessun altro motivo apparente che non sia la propria ambizione, decidono di uccidere il re, un buon re. Per tutto il resto del dramma dovranno affrontare le conseguenze del loro atto scellerato. Non c’è onore, amore, vendetta, inganno, giustizia, cecità, che possa sostenere il loro incedere tragico. Edipo almeno era cieco. Amleto adirato. Otello geloso. Loro hanno solo l’altro a sostenerli. È la loro solitudine a renderli così grandi. Come Faust hanno venduto la loro anima alle potenze infernali, ma invece che ricchezze e onori, ne hanno ottenuto solo sofferenze, soli con le proprie scelte, insicurezze, dubbi, paure e rimpianti consapevoli di essere nel torto, di fare il male. Entrambi dovranno indurire il proprio cuore, o perire.

I have almost forgot the taste of fear.

Il sangue scorre a fiumi e impregna vestiti e anime. Ma i personaggi magnanimi si innalzano comunque in questo mare arrossato, nonostante il peso del manto reale sia troppo per loro. Macbeth è una tragedia di sapore quasi cattolico, che parla di libero arbitrio a un mondo Riformato, dove si è soli di fronte a Dio e al suo disegno incomprensibile ma pur sempre liberi di ribellarvisi. Rimettiamo quindi al loro posto tutti gli altri personaggi, che hanno importanza anche loro: streghe bitorzolute e buoni sudditi. Ritiriamoci dietro le quinte a guardare gli attori che strepitano sul palco una storia che non sembra avere molto senso. Prepariamoci perché i prossimi a salire siamo noi.

Questo libro è stato letto in occasione della #maratonashakesperiana organizzata da Scratchbook su Facebook. Per partecipare guarda QUI.

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La nostra via di qua dal sonno.

 

41B9aDej2lL._SX316_BO1,204,203,200_Primo Levi racconta, in un intervista, che uno dei suoi più grandi rimpianti fu quello di non aver viaggiato. Dopo tutto quello che gli era successo c’erano così tante cose da fare: il matrimonio, la famiglia da mantenere, il lavoro di chimico, la fabbrica da dirigere, i figli da mandare a scuola, la vita normale insomma. Per la fabbrica di vernici andò in Germania e in Russia, a risolvere i problemi dei clienti, ma non era esattamente quello che intendeva per viaggiare. C’era stato un periodo della sua vita, così piacevolmente lontano da qualsiasi concetto di viaggio organizzato, che ricordava sempre con piacere, che riempiva le serate con gli amici e poteva raccontare senza timore di rattristare o disgustare i suoi ascoltatori. Subito dopo essere stato liberato dalla prigionia Levi fu infatti sballottato lungo tutta l’Europa dell’Est per mesi, senza una meta o un posto definitivo dove fermarsi che non fosse un Italia vagheggiata e lontana come l’Itaca di Ulisse. Seguendo binari sincopati e interminabili percorsi a piedi tra pianure boschi e paludi di Polonia e Bielorussia Levi aveva seguito il percorso casuale e caotico dell’Armata Rossa in smobilitazione, epico organismo multicefalo governato solo dall’ordine supremo di rientro e dalla voglia infinita di tornare nelle proprie case, in treno, a cavallo, a piedi o su taxi e pulmann saccheggiati nella Germania nazista.

Di questo viaggio picaresco Primo Levi ci riporta i luoghi e gli stati d’animo che lo accompagnavano, ma soprattutto le persone incontrate. Personaggi e avventure raccontate con l’esperienza del narratore navigato, che ha raffinato il suo eloquio smussando gli angoli ed esaltando le tinte dei suoi racconti davanti a platee di ragazzini delle medie e durante serate tra amici, prima di pubblicare La tregua. Sono racconti. Tristi allegri o semplicemente notabili, ma in cui non viene mai meno l’esigenza profonda di ogni racconto: riferire lo straordinario e quanto di anomalo o inaspettato può succedere nella vita. Curioso, e fatalmente incompreso dai suoi compagni di viaggio, lo scrittore annota e registra nella sua memoria visi, lingue sconosciute e paesaggi immensi. Un mondo sparito, e non solo a causa dei rivolgimenti della guerra, della caduta degli imperi, della fuga degli ebrei aschenaziti in Israele o per la Guerra Fredda. È un limbo fragile, che durerà finché Russia e USA non si saranno spartiti l’Europa in rovina, le improvvisate famiglie di guerra dovranno decidere in che paese vivere e tutti i rifugiati saranno tornati alle loro case. Circondato da prigionieri, profughi, soldati e cittadini multilingui, Levi vive in un Europa così mescolata e imprecisa, senza cartelli e confini stabili, multiforme ibrida e promiscua. In questa Babele tutti si capiscono, parlando il linguaggio del commercio, quello dell’Amore, la mimica teatrale, il latino oppure il tedesco. A volte se si ha fortuna anche in italiano. Prigionieri, nemici e alleati sono mescolati in un calderone irrazionale fatto di sesso occasionale, borsa nera e burocrazia folle, campi profughi allestiti in mezzo alla foresta, mandrie di cavalli saccheggiate per settimane e zingari che si muovono su carri grandi come case.

In questo mondo fragile i personaggi di Levi sono vivi, memorabili, ma non per una loro reale esistenza in qualche punto dello spazio tempo, ma per il soffio che l’autore ha saputo instillare nelle parole che ce li descrivono. Dantesco il Moro di Verona, vecchio e roccioso muratore, instancabile lavoratore e bestemmiatore raffinato, scuro di pelle e bianco di pelo, Caronte senza traghetto. Ancora più antichi e primordiali gli amici faccendieri, il romano Cesare e il greco Mordo Nahum, fratello volpe e fratello lupo, che fanno della sopravvivenza un’arte. I russi, chiassosi e ubriachi, forti e felici, vittoriosi e idealisti, un unico personaggio che si invera in singole sostanze con cui litigare, da cui ricevere ordini, di cui innamorarsi, da ammirare e da comprendere. Levi si scontra e si incontra con il ridicolo e con la tragedia.Vive.

Ma questa è una pausa, un limbo,un sogno, una tregua, che Levi ricorda e rimpiange. Prima di tornare a casa, prima di ricominciare la vita normale. L’incubo è finito, ma nulla impedisce ora al sogno di terminare, come è già terminato una volta. Per lasciare il posto al terribile risveglio. Un libro pieno di vita, di cose fatte, viste e annusate, toccate, ricordate e ascoltate, vissute e sognate, si apre e si chiude con immagini di morte e di orrore. La realtà dei compagni morenti e morti, il piccolo Hurbinek senza lingua, figlio del campo di concentramento, l’incubo che torna a tormentare la pace, il capo chino per terra a cercare qualcosa da mangiare o da scambiare. Un odio verso i tedeschi e la loro ottusa obbedienza che Levi fatica a trattenere, se non poi provare altro che pena nel vederli abbruttiti e affamati che si aggirano tra le macerie della loro Patria. La paura che nessuno creda, che nessuno voglia ascoltare. Che il sogno finisca di nuovo. L’ombra non ha vinto, certo, e Levi ha vissuto ed è stato molto felice, ma come un pugnale maledetto Auschwitz gli ha lasciato una ferita che lo tormenta ad ogni anniversario. Luce e ombra. Le due cose vanno assieme, dice Levi, con le sue facce sorridenti nelle foto in bianco e nero: attorno a una stella c’è sempre tanto buio.

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Coro funebre.

Un giorno di due secoli fa, un giornale della Costa Azzurra pubblicò il necrologio del famoso e oramai ricchissimo inventore della dinamite e “mercante di morte”. Quel giorno, leggendo la notizia del suo funerale, possiamo solo immaginare i sentimenti contrastanti che invasero l’animo di Alfred Nobel, già addolorato per la morte del fratello, inavveduto portatore del suo stesso cognome. Fortunatamente per noi, invece di far saltare per aria una piccola redazione provenzale, decise di farsi ricordare dal mondo per ciò che di buono avrebbe fatto, sicuro di poter evitare altri scambi di persona. Per la consistenza del premio, la sua durata e la sua internazionalità, il Premio Nobel rimane il più noto, e quindi contestato, riconoscimento al mondo.

2015. L’Accademia Svedese, in streaming dal mio computer, annuncia la vincitrice del Nobel per la Letteratura: Svetlana Aleksievic. Panico totale. Nessuno riesce a pronunciare il suo nome, figurarsi se qualcuno ha letto i suoi libri. C’è del mormorio generale, in molti si lamentano che ad essere premiati siano sempre scrittori semisconosciuti, che oramai Philip Roth è vecchio e bisognerebbe sbrigarsi, che non è nemmeno vera letteratura e che come al solito l’assegnazione è stata fatta per motivi politici. L’unica soluzione in questi casi – surreale, incredibile, sorprendente – è leggere. Leggere Ragazzi di Zinco, reportage narrativo e opera corale sulla dimenticata guerra sovietica in Afghanistan.

La Aleksievic scrive di non voler più raccontare la guerra. È il 1986. Alle spalle ha già due raccolte di testimonianze sulla Grande Guerra Patriottica, donne e bambini. Sofferenza e orrore le sono penetrate nelle ossa, ogni violenza ora le risulta insostenibile. Ma dai confini meridionali dell’URSS continuano a decollare aerei carichi di morte e sconfitta. Atterrano a Minsk, Kiev, Mosca e Pietroburgo. Li chiamano Tulipani neri, riportano nomi scritti su bare di zinco. Da sette anni l’Unione Sovietica combatte in Asia Centrale, lontano dai riflettori mondiali, in un buco tra le montagne destinato a risucchiare tutta la vita del gigante dai piedi d’argilla. L’Afghanistan. La guerra è lo specchio della superpotenza in declino: omertà, propaganda, imperialismo e corruzione. I soldati più svegli vendono la benzina dei carri armati per comprarsi cappotti di montone, o droga. Oltre alle risorse di un paese che non riesce a riempire i negozi di alimentari, la guerra porta via le vite di moltissimi giovani, creando così una generazione di reduci a cui la sconfitta nega anche la consolazione della memoria. Svetlana Aleksievic registra silenziosa, come in confessionale, le voci di questi reduci sul magnetofono. Soldati di leva, ufficiali o membri dei corpi speciali, indenni o mutilati, feriti nell’animo o nel corpo. Intervista le madri di chi è tornato rinchiuso nel metallo, intervista le infermiere tornate dal fronte con le mani e il cuore rovinati. Ragazzini e militari di carriera, medici o contadini. Ascolta per ore chiunque voglia parlare con lei. Con pazienza dirige il coro – i russi sono così bravi a cantare in coro, diceva Primo Levi – che canta tutto ciò che non potrebbe andare in scena durante la tragedia. Il sangue. L’orrore, l’orrore. Corpi ridotti a mozziconi e lasciati in vita dai duchman afghani. Vendette sanguinose su donne e bambini. Villaggi rasi al suolo, campi e pelle bruciati. La gratuità e la facilità che accomunano tutti gli uomini nell’abitudine al massacro. Abbiamo sparato sul matrimonio, avevano ucciso il mio amico, cosa dovevo fare? Gli incubi di chi è riuscito a tornare: «Chi hai ucciso stanotte, eh?».

Ognuno ha la sua voce, ognuno affronta in modo diverso le difficoltà. La guerra è brutta, ma le sue regole semplici sono anche un caldo riparo dalla sferzante realtà della vita di tutti i giorni. Lì almeno potevamo contare sui nostri compagni, qui ci chiamano assassini, abbiamo solo eseguito gli ordini, difendevamo la Patria. L’Afghanistan li ha maledetti, ha stregato uomini e donne delle pianure infinite col fascino terribile delle sue montagne, del suo cielo blu, del suo popolo irriducibile. Silenziose e disperate le madri si ribellano per prime a questo dolore inutile, di fronte a morti che rendono incomprensibili, e vuoti, simboli e concetti astratti: il Dovere, l’Onore, il Sacrificio. Chi vuole dimenticare, chi vole spiegazioni, chi vuole un risarcimento, tutti bramano e temono al tempo stesso di conoscere la verità.

Dove finisce il documento e dove inizia la letteratura? La qualità di un’opera letteraria dovrebbe essere giudicata dalla quantità di fatti oggettivi che riporta o dalle verità che evoca? Le persone miserevoli che citarono l’autrice in giudizio per diffamazione, avevano diritto di farlo? In ogni uomo e donna c’è una paginetta di grande letteratura e verità che aspetta solo l’occasione di esprimersi, dice la Aleksievic. Madri parlano con gli uccelli sulla tomba del figlio morto o aggrediscono i pope che le rimproverano, uomini senza vista raccontano dei capelli della moglie. Pagine di autentica poesia e immagini indelebili, che commuovono per se stesse, spartito musicale di un coro che non è semplicemente la somma delle singole voci. Non è il risentimento, l’accusa verso i governanti, il dolore, la paura, il rimpianto a dominare. A svettare, senza mai apparire, è la voce dell’autrice che piange pietosa, per i ragazzi rimasti senza gambe o senza anima, per le vecchie afghane che sputano sugli infermieri e per i loro nipoti morti. Per i cammelli e gli asini, per i campi di grano bruciato che sanno di pane, per tutti quelli che vivono di miti di potenza e per quelli che non credono più in niente. Pietà per l’infinita bellezza del mondo, che rinasce anche nel dolore e nell’orrore. Pietà, solo pietà, e una domanda senza accusa, rivolta a tutti e a nessuno, tutti vittime e colpevoli: che senso ha tutto questo? Che senso ha avuto questa guerra, tutte le guerre.

Qualche volta ho l’impressione che gli occhi siano perfino inutili. Dopo tutto li chiudete anche voi gli occhi in certi momenti importanti Quando state molto bene. Gli occhi servono al pittore perché è il suo mestiere. Io invece ho imparato a farne a meno. E vivo lo stesso. Percepisco il mondo…lo sento…una parola ha molto più significato per me che non per lei. E per tutti voi che ci vedete.

Un soldato, esploratore.

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Di Golem e dei.

coverLa nostra contemporaneità intellettuale, il nostro insegnamento universitario, saggi e libri di critica sulla storia della letteratura ci raccontano a lungo e con gusto del postmoderno e delle sue varie componenti alchemiche: l’ironia, la scomparsa dei generi o la loro ibridazione, la metaletteratura e i piani di lettura. I numi tutelari di Borges e Calvino ci guidano, il loro nome scritto su un foglietto e inserito nella bocca di argilla. Poi però, a guardarsi intorno, sembra che girino tutti a caso. La biblioteca immaginaria e la mappa dell’imperatore sono metafore utilissime quando si parla di Amazon o Maps, e Italo avrà detto sicuramente qualcosa di intelligente su questo o quell’argomento quando serve. Nella mia infinita pigrizia e arroganza posso tranquillamente affermare di aver conosciuto questi due grandi autori da lontano, in modo distratto e superficiale, ma ho l’impressione di essere in buona compagnia. C’è chi dice che il romanzo è morto, chi che non ha mai vissuto, che la trama è inutile, che comunque sono meglio le serie televisive, chi dà la colpa a Checco Zalone (ma non faceva cinema?) e che è tutto uno schifo ma alla fine scriveranno tutti racconti perché si adattano meglio alla nostra società. Lo ribadisco. Sono pigro e distratto da praticamente qualsiasi cosa che mi venga agitata sotto al naso, ma francamente non ci capisco niente. Da qui il tentativo di approfondire la faccenda in modo autonomo, leggendo più cose che spieghino la materia di cui sono fatti i libri.

Una spinta nell’affrontare lo gnommero arriva da un gruppo di lettura (IL gruppo di lettura della Capa) il tutto a discapito della mia vita lavorativa, sociale e sentimentale. Il primo stimolo, ovviamente collaterale e imprevisto, del gruppo è Micheal Chabon. Scrittore che in questo caso considereremo come autore dei saggi raccolti in Mappe e Leggende, trascurando la sua collaterale attività di vincitore di Premi Pulitzer e scrittore di bestseller.

Visti i pesi massimi BorgHes e Calvino che aprono la recensione, non si può non pensare che abbia con loro qualcosa a che fare, soprattutto se si parla di mappe e di leggende. Sia la cartografia che la mitologia sono un modo di immagazzinare informazioni: da dove arriviamo e dove possiamo andare. Possiamo discutere all’infinito sull’autorità di chi ci ha preceduto e sul piacere di perdersi, ma queste informazioni ci sopravviveranno comunque nella nostra eredità genetica. Bisogna solo imparare come non farsi schiacciare da terabyte di dati. Comunque. Mi spiace deludervi ma Chabon non ha scritto nulla di così organico, niente manuali di sopravvivenza, ma appena qualche indizio in più per la quest.

Mappe e leggende, avventure ai confini della lettura è solo una raccolta di articoli, prefazioni e discorsi che questo simpatico personaggio ha scritto nel corso degli anni. Largamente autobiografici, questi saggi brevi spaziano attraverso tutto ciò che interessa all’uomo e allo scrittore: i fumetti, la letteratura di genere, il perché le storie ci affascinano, il lavoro dell’autore di storie, quali sono gli spazi attraverso cui si può muovere. Chabon scrive e scrive molto bene, di tante cose che piacciono anche a me (Loki e gli dei nordici, i golem e gli ebrei, le mappe del tesoro) e di cose che mi interessano un po’ meno (i fumetti) ma sempre con l’obiettivo di affermare e liberare la letteratura da costrizioni e irrigidimenti. Di volta in volta, scrivendo di Sherlock Holmes o di Queste Oscure Materie, di Cormac McCarthy o di Walter Benjamin, di a me sconosciuti fumettisti d’oltreoceano o della sua esperienza di scrittore e di lettore e di ebreo, Chabon rivendica il diritto di intrattenere ed essere intrattenuti come mattone fondante della letteratura. Invoca il giusto mezzo, l’equilibrio tra la raffinatezza e la disinvoltura di genere, ma non lo fa tramite un’immagine rassicurante e di mediazione pacifica: evoca Loki il padre di mostri, il tessitore di inganni, l’astuto e il sottomesso, l’intrigante e il risolutore, colui che avvicina e ritarda contemporaneamente la fine del mondo. Il dio con i capelli rossi figlio di una razza diversa dagli dei di Asgard, ma fratello di sangue di Odino, saggio re degli dei. La fantasia e i mostri che genera, di volta in volta paurosi, divertenti, misteriosi e rassicuranti non possono essere canonizzati e irrigiditi in un corpo d’argilla. Cosa fosse successo se dal 1950 si fosse deciso che ogni tipo di racconto dovesse essere del genere “Medico e infermiera”? Infinite variazioni sul tema, alcuni certi capolavori, ma infine nel 2016, una gran noia mortale. Tutto questo sembra assurdo, ma a guardarsi intorno sembra la normalità, nonostante tutti spergiurino il contrario. Leggendo Chabon, e soprattutto I golem che ho conosciuto, il discorso che chiude la raccolta, sembra quasi che sia molto meglio essere ingannati da chi racconta frottole, che da chi pretende di raccontare la verità. I golem sono molto utili per difendere il ghetto, ma possono rivoltarsi contro chi gli ha insegnato regole troppo severe.

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Stelle bicromatiche.

cop_Pietro-Scarnera-Una-stella-tranquilla Tra poche settimane tornerà il Giorno della Memoria, memoria di ciò che è accaduto e non deve più accadere. Come di consueto, verrano pubblicati libri nuovi, verranno ripubblicati libri vecchi. Incontri spettacoli e film. Alcune buone cose, altre molto meno. Qualcuno litiga già per i diritti sul Diario di Anna Frank. Per non sbagliarsi è cosa saggia affidarsi ad un autore la cui fama è dovuta a questo unico libro e a questa storia tanto terribile. Perché Primo Levi è il racconto del lager, da dove è uscito con il corpo ma non con la mente, dicono. Suo è il libro, la poesia, l’epigrafe in italiano nel campo di concentramento, a cui la nostra memoria nazionale ha affidato il compito di ricordare. Ma Levi non è stato solo un prigioniero e un testimone, è stato un marito, un padre, un chimico e uno scrittore. Racconti di fantascienza, fantabiologia, romanzi d’invenzione e resoconti autobiografici, poesie e racconti metanarrativi, l’unico esempio riuscito di racconti industriali. Un’abbondante produzione di qualità straordinaria, che lo rende uno dei più grandi scrittori italiani del novecento. Lentamente la sua opera, ricomincia ad essere letta e studiata. In libreria e in biblioteca trovate ora Primo Levi di fronte e di profilo, saggio totale di Marco Belpoliti, che si impegna a innalzare un monumento di 700 pagine all’autore torinese, segno per lo meno di un rinnovato interesse per un lavoro poliedrico e profondo, che comincia ora la lotta contro il tempo.

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Prima di affrontare a muso duro le centinaia di pagine del saggio però, sono inciampato in un altro libro di divulgazione a cui lo stesso Belpoliti ha scritto la prefazione, che raccoglie molto materiale e lancia molti ami nell’acqua, forte del medium scelto, capace di arrivare a tutti, anche da chi settecento pagine non le legge per principio. Una stella tranquilla, ritratto sentimentale di Primo Levi è un fumetto. Ed è esattamente quello che dice di essere: un ritratto sentimentale. Non un saggio di critica o un’analisi letteraria, ma l’immagine di un uomo ricostruita con affetto. Pietro Scarnera ha raccolto una grandissima quantità di materiale, foto, articoli, racconti, interviste e li ha ricomposti come un viaggio attraverso la vita artistica dello scrittore. Come la molecola di carbonio che apre la narrazione, che di volta in volta è albero, respiro, polvere e muscolo, Levi è declinato attraverso le immagini che ha attraversato: le foto della giovinezza, quelle con la famiglia, le lettere con l’amico Calvino, le copertine delle prime edizioni dei suoi libri, le immagini di Torino ora e dopo la guerra, le poesie dedicate alla moglie, le lettere dei lettori tedeschi, la mappa del ritorno in Italia, le sculture di filo di ferro a forma di maschera di gufo e i disegni dei fatti con il Mac, la tomba, la casa, gli occhiali da vista, la fabbrica di vernici e le foto di cronaca nera degli anni ’70, la Mole e il filo spinato, i quartieri ortogonali di Torino e i sampietrini, Mirafiori e le prime mostre sulla Shoah, la torre della Siva e Togliattigrad, tram e treni, la camicia del campo e la tavola periodica.

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Disegno semplice e pulito, una delicata bicromia bianco verdina, che accompagna e non distrae da ciò che il disegno contiene e dalle parole che lo accompagnano, Scarnera segue la vita dello scrittore, che nasce subito dopo il campo, che nasce dentro al campo, ma che ha le sue origini più profonde nella naturale predisposizione di Levi alla curiosità e alla voglia di raccontare. Evitando le questioni più morbose sul suicidio, liquidate come leggende metropolitane, e non limitando l’indagine alla tragedia su cui pur ruota la sua esistenza, il disegnatore ci racconta il Levi scrittore, oltre l’immagine di pacatezza e tranquilla ironia che ci è arrivata, persino dalle pagine di Se questo è un uomo. Aldilà della morigeratezza torinese Primo Levi celava una profondità di pensiero che non si fatica a intravedere tra le righe dei suoi versi, così semplici, ma così potenti.

Forse il modo migliore per definire Levi è il titolo di un suo racconto, “Una stella tranquilla”. Da Lontano sembrava calmo ed equilibrato, ed era anche a suo modo un punto di riferimento. Ma si sa che, dentro, le stelle ribollono. E quando si spengono lo fanno in maniera fragorosa.

Pietro Scarnera è stato in grado, come lettore e disegnatore, di agitare le acque nello stagno, invitare alla lettura di ogni libro, poesia e saggio scritti da Levi e su Levi, alla scoperta di un astro nascosto della letteratura italiana nel suo racconto per immagini.

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