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Il Grande Gatsby.

Devo ammettere che, prima di vedere il film, non avevo ancora ben chiaro cosa scrivere in questa recensione. Il libro era carino, scritto bene, ben composto, anche avvincente se vogliamo. Un classico della letteratura americana, elogiato, sulla bocca e sulla penna di tutti. Anche nei libri di storia: “Prima della crisi del ’29…come è ben descritto…nella famosa opera di…lusso sfrenato…costumi rilassati”. Ma nulla più. Niente che meritasse di essere ricordato. Devo ammettere che ero rimasto quasi deluso quando il libro dell’età del jazz mi aveva lasciato orfano del jazz. Era una storia, raccontata bene, ma una storia quasi fine a se stessa, senza picchi lirici di abbacinante bellezza, senza abissi di espressività materica. Sono arrivato a chiedermi perché il libro fosse diventato così famoso. Forse era solo un’altro esempio di come gli americani riescano a conservare, valorizzare ed esaltare qualsiasi sciocchezza appartenga alla loro storia, come il tacchino dei Padri Fondatori e il ciliegio di Washington. Un nostalgico sguardo verso un passato che sembra sempre più luminoso di oggi. Forse era solo un’altro esempio di come funzioni bene l’ufficio promozionale della Warner Brothers.

Eppure qualcosa c’è. Il sospetto che cresceva man mano che passava il tempo e riflettevo, venne confermato ieri sera. D’accordo con la mia ragazza, dopo aver letto entrambi il libro, siamo andati insieme alla prima del film. Ecco, che dalle profondità della memoria dove erano state lasciate, riemergono, col sottofondo di Jay-Z, le eccitanti, spassoseSOPRALERIGHEESALTANTI! F E S T E ! Gente strafatta e ubriaca che balla in una sequenza zoomata, gente che balla a testa in giù in un’altra sequenza zoomata. Divertimento assurdo, si intravede pure un barman che sembra preso da una qualsiasi discoteca milanese, proprio in quel momento magico in cui sta preparando gli sciottini.

Ma ecco, in quel momento ho capito. Io, e Baz Luhrmann il regista, eravamo inciampati nello stesso, identico errore. Anche lui lo aveva capito. Probabilmente, appena finito di girare il film, nella sua vasca idromassaggio, mentre leggeva per la prima volta il romanzo. Sul suo volto si dipinse lentamente il terrore: ommioddiochecosahoffatto. Ma era troppo tardi. Inutilmente cercò di rinviare il film sostenendo che se Tarantino aveva messo il rap in Django allora lui voleva più rap. Ma aveva già Jay-Z. E non si può avere più rap di Jay-Z. Non poté quindi impedire l’inevitabile. Forse è per quello che il film è uscito con così tanto ritardo.

Entrambi e chissà quanti altri, avevamo pensato di trovare il luccichio delle pailettes, il tintinnio del ghiaccio, la sfrenata velocità del jazz nelle pagine di Fitzgerald, ma non le avevamo trovate. C’era un arido paesaggio, sepolto sotto le ciminiere e le montagne di carbone della valle delle ceneri, sullo sfondo i pinnacoli dei grattacieli di New York. Una serie di personaggi ben delineati, descritti con cura, poche pennellate, due battute e loro già vivono di vita propria nel mondo di carta. Tutti perfetti nel loro esistere letterario ma banali nel loro essere umani. Nessuno mostra di godersi veramente la festa. Tutti bevono, cantano e ballano, ma per coprire l’assordante frastuono della propria infelicità e solitudine. Solo uno emerge, svettando su tutti gli altri. L’uomo di cui il libro racconta la storia: Jay Gatsby. Il Grande.

Con un tono leggero, quasi opaco, partecipe ma mai schierato, Francis Scott Fitzgerald racconta con spietata leggerezza e quasi noncuranza la straordinaria esistenza di un individuo simile, in grado di esistere solo nei libri. Fitzgerald scrive così bene da far sembrare sciocche le cose che dice. Nato dal nulla, incarnazione del sogno americano, Gatsby organizza grandiose feste per attirare l’amore di gioventù, che aveva perso a favore di un più ricco partito. Ma lui è più di un’incarnazione del sogno, lui vive nel sogno.

Il grande Gatsby (Einaudi, pp. 162, euro 8,50) è un libro breve, non c’è molto altro da dire. Ma mentre lo stavo leggendo per la prima volta ho sbagliato a prendere la metro TRE volte di seguito. Lo rileggerò per capire com’è potuto succedere. È un buon libro, quando e se lo leggerete, scordatevi il jazz, per favore. Vi resterà così per sempre l’immagine, il ricordo di una persona, quasi l’aveste conosciuta di persona. Con affetto lo difenderete dalle accuse, quasi vergognandovi di non aver capito prima chi era e di aver creduto anche solo per un attimo che potesse essere un bugiardo.

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Pecore sonore.

Come già accennato nell’ultima recensione (che trovate QUI), Murakami Haruki ha una peculiare passione per la musica, Rock&Roll e Jazz in particolare. Prima di diventare uno scrittore di fama mondiale aveva perfino aperto un Jazz Bar (il Peter Cat) insieme a sua moglie e per molti anni ne era stato il barista. Esclusivamente per voi una selezione dei brani e degli autori ascoltati dal protagonista senza nome di “Nel segno della pecora”.

1. Boz Scaggs, We’re All Alone

2. Johnny Rivens, Midnight Special

3. Brother Johnson, Ain’t We Funkin’ Now 

Last but not least:

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