Nascosto sotto la neve.

Neve. Neve neve neve ovunque. Cade veloce su alberi case e automobili. Scende ormai da più di ventiquattro ore senza sosta. Pesante o leggera, segue il vento o si attorciglia in mulinelli. Ma poi si ferma. Si accumula sugli alberi dalle forme contorte. Una pesante coperta ricopre ogni cosa, trasformando la vista di tutti i giorni in un paesaggio alieno. Nella foresta dagli alti alberi la neve cade attraverso i rami spogli e ricopre il terreno, come una livella. Scompaiono tronchi morti, grandi pietre, piccoli ruscelli. Uno strato gelido e bagnato copre le tane degli animali, buie e profonde gallerie che corrono sotto le radici degli alberi. Sotto il mantello uniforme si celano profondi crepacci. I piccoli uccelli che non restano congelati muoiono di fame nel deserto bianco, gli scoiattoli che hanno dimenticato dove sono nascoste le noci vagano scuotendo la neve dai rami più leggeri. I boschi sono splendidi, oscuri e profondi.

È la stessa neve (o magari somiglia) a quella che copre per una breve stagione la contea di Sevier, nel Tennessee, un brandello sperduto del Sud rurale degli Stati Uniti, dove ignoranza e promiscuità coltivano bambini deformi e cervelli malati. Questa neve ricopre e nasconde i terrificanti crimini di Lester Ballard, serial killer selvaggio e si rende così complice di stupri e assassinii. A raccontare questa breve storia è Cormac McCarthy in “Figlio di Dio” (Einaudi, pp. 168, euro 11). E lo fa con l’incomparabile dolcezza di cui lui solo è capace. Non so in quanti libri, thriller, gialli o semplici romanzi, l’assassino, il criminale, il cattivo, sia il protagonista. Pochi. In un modo che per lui che lo scrive e per noi che lo leggiamo sembra assolutamente naturale, l’autore ci fa sprofondare negli abissi della miseria e dell’orrore umani. No, meglio, ci fa scivolare in questo baratro di oscurità con la delicatezza con cui si rimboccano le coperte a un bambino. Una lenta discesa a precipizio verso la bestialità: il protagonista è feticista, poi stupratore e necrofilo e infine assassino.

A contornare la nostra discesa agli inferi, un mondo altrettanto terribile, primati ricoperti di sporcizia che si fatica a definire bambini, vecchi con mascelle di capra, scarafaggi, distillatori clandestini, rottami di auto e rottami umani. L’autore non ci risparmia nulla, ma è capace di creare momenti di assoluta magia: nel libro ci sono le stelle, che fanno domande importanti e grotte come cattedrali sepolte. I cadaveri putrefatti sono opere d’arte, come nelle poesie della Dickinson. Anche una scena di caccia al cinghiale sanguinosa e violenta è una danza tra la vita e la morte, sospese in equilibrio precario ma parti indissolubili della nostra esistenza. Un coro di paese commenta ma non giudica, sembra che importi solo quanto è bella la storia che si racconta.

È lo stile di McCarthy che trascina avanti la lettura, con leggerezza e sapienza, è difficile fermarsi, si legge fino a notte fonda. Le sue brevi frasi scolpite e disidratate sono leggiadre proprio perché senza fronzoli.

Ballard alla fine diventerà un animale selvatico, un essere sotterraneo, che striscia e scava nella terra rossa. Popola i boschi come un folletto pazzo, come un troll malvagio e assassino, è parte di essi. Più fugge dall’umanità più entra a contatto con la natura meravigliosa degli Appalachi, mosso da una vitalità inesauribile. Braccato dalla gente del paese, di certo non più brillante di lui, diventa animale da preda, inseguito e costretto a nascondersi. Ma anche l’inverno deve finire, come tutto in natura termina, per poi ritornare in eterno. E il caldo porta via la neve svela le caverne segrete, come fiume in piena, un’alluvione, che spazza e ripulisce la foresta. E pone termine alla nostra storia. E alla storia di Lester Ballard.

Grottesco, impacciato e con la bocca sempre piena di bestemmie, questo antieroe non può essere giustificato; ma soffre lo stesso di solitudine  seppur perversa e ripugnante. Le sue azioni sono terribili ma mosse dagli stessi istinti che muovono le nostre.

“Nient’altro che un figlio di Dio come voi, forse.”

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