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Paura del buio.

Io non sono nato nell’epoca in cui sulle mappe c’erano ancora spazi vuoti, non sono nato all’epoca della corsa verso l’ignoto, incontaminato, inaccessibile. Non sono nato neppure all’epoca della conquista dello spazio, dell’esplorazione dei poli o della ricerca delle sorgenti del Nilo. Ma le cartine geografiche mi hanno sempre affascinato. Se hai sotto agli occhi il disegno di un territorio, di una nazione, le anse di un fiume o una catena montuosa per piccole che siano, pare che tu possa dominarle dall’alto, controllare il tuo minuscolo regno. Fantasticare su città da costruire, canali da aprire, cime da traforare, mura da innalzare. Foreste impenetrabili, torrenti insidiosi, popoli ostili o amici. Con un piccolo atlante si può essere facilmente dei piccoli re. E probabilmente non la pensavano diversamente i migliaia di esploratori che hanno dato il loro nome o quello di una regina ad altrettanti laghi e cascate. Mappare un continente era come rubarne un pezzettino d’anima, un trofeo come un altro, una testa di rinoceronte.

Ora, quando ero bambino avevo una passione per le carte geografiche. Stavo ore a guardare il Sud America, l’Africa o l’Australia, e mi perdevo nelle glorie dell’esplorazione. Allora c’erano parecchi spazi vuoti sulla terra, e quando ne trovavo uno che sembrava particolarmente invitante sulla carta (ma lo sembravano tutti) ci mettevo il dito sopra e dicevo: «Quando sarò grande andrò là».

In quell’epoca nacque invece Joseph Conrad, che nel 1899 pubblicò “Cuore di Tenebra” (Mondadori, pp. 271, euro 8,50) da cui sono tratte le parole qui sopra. Figlio di un generale polacco, Konrad scappò di casa e si imbarcò su un naviglio inglese, con cui solcò i mari e conobbe il mondo come pochi scrittori d’avventura fecero. Leggendo il suo libro più noto si è come ostacolati nella lettura dal suo particolare realismo: è come se l’autore avesse vissuto veramente quelle esperienze, senza inventarle ma meditandole a lungo. Da queste rimuginazioni continue nascono poco più di cento pagine (infatti l’edizione Mondadori è con il testo inglese a fronte) rade di avvenimenti ma densissime. Nella scrittura espressionista di Conrad sono le crepe nel terreno a parlare, sono i pilastri immobili della foresta, il suono dei tamburi nell’oscurità, le luci e le ombre. Grazie alle parole del suo alter-ego Marlow queste presenze sono spiegate, interpretate, filtrate, non si può arrivare alla Verità direttamente, c’è bisogno di un intermediario, o più di uno, come in una Divina Commedia primordiale.

Così siamo condotti lungo le rive del fiume Congo, nell’Africa più profonda, nera, oscura, dove la foresta è più fitta e dove gli uomini si perdono anche se rimangono vicino al sentiero, dove la tenebra è vera, come solo la notte nel bosco può essere. Mentre risaliamo il corso del possente fiume scendiamo sempre più nella pazzia umana, i personaggi che si incontrano sono dei disadattati, dei folli, che sparano contro le ombre della foresta, che inseguono sogni di gloria impossibili, o si isolano nella loro camicia inamidata e perfetta mentre il mondo attorno a loro si sgretola. Su per il fiume fino alla meta, al motivo di tutto un viaggio, di una vita quasi, Kurtz. Un incontro deludente ma che non avrebbe potuto essere altrimenti ed è necessario per capire che lui e tutti gli altri, Marlow compreso, sono uomini vuoti. Il cui vuoto interno non può essere colmato dal mondo intero, da tutto l’avorio dell’Africa. Eppure per l’autore è forse meglio essere vuoti che essere pieni di stupidità, come i rappresentanti della Compagnia belga che saccheggiano e violentano, o come gli abitanti della città sepolcrale. Il viaggio all’interno della propria ombra lo si paga a caro prezzo, “Cuore di tenebra” non è un libro semplice da leggere, non è un libro semplice da capire, nonostante sembra che non racconti proprio nulla. Non è un libro che si può leggere una volta sola, o almeno che lascia soddisfatti alla prima passata. Perché dice delle cose semplici ma da sentire, non da scrivere e ci vuole una lettura calma e attenta, per farle entrare. Un’opera che racconta di cose vere ma che sembrano artificiali da quanto lo sono.

Mentre gli eroi dell’imperialismo europeo portavano a termine i compiti imposti dal fardello dell’uomo bianco, cancellando gli spazi vuoti dalla cartina, veniva scritto questo libro; che non è più di tanto un libro di denuncia sugli stupri che sono stati commessi in Congo, ma un semplice romanzo di formazione, pessimista e disperato, Il viaggio è dentro l’anima e alla fine non resta niente, nient’altro che una tenebra immensa.

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Esplosioni.

120 anni fa il mondo viveva nella tumultuosa rivoluzione industriale. Il terrorismo anarchico era lo spauracchio dei governi di mezza Europa. E non avevano tutti i torti. Nell’elenco dei successi anarchici c’erano addirittura il re d’Italia Umberto I e lo zar di tutte le Russie Alessandro III. Come se al giorno d’oggi riuscisse un’attentato a Napolitano o a Putin. Al terrorismo anarchico si intrecciavano gli interessi di varie stati stranieri, interessate a destabilizzare la politica interna delle nazioni avversarie nella corsa coloniale. I neonati servizi di intelligence e spionaggio, ancora dipendenti da ambasciate e ministeri degli esteri, si infiltravano nei vari gruppi terroristi per tenerli d’occhio e, nel caso guidarli verso l’obbiettivo giusto.

E cosa c’entra in tutto questo Jòzef Teodor Konrad Korzeniowski? Non è una spia proveniente da qualche paese dell’Est, ma uno dei più grandi scrittori moderni, Joseph Conrad. Questo autore di origini polacche, naturalizzato inglese, ha scritto una delle prime spy-stories della letteratura, quel genere che avrebbe accolto anche il James Bond di Ian Fleming. “L’agente segreto” (Mondadori, pp. 312, euro 8,50) è un classico della letteratura mondiale. La storia narrata prende spunto da un fatto accaduto realmente: nel 1894 una bomba esplode, probabilmente prima del tempo, nei pressi dell’osservatorio astronomico di Greenwich, appena fuori Londra. Non ci sono vittime, e la polizia identifica il colpevole in un ragazzo debole di mente. Fin dall’inizio Conrad stravolge la struttura del romanzo vittoriano: invece che concentrare la tensione del romanzo nell’attesa dell’esplosione, la liquida nei primi capitoli. Non la descrive mai direttamente, ma filtrata dai racconti dei personaggi.

Proprio loro sono l’interesse principale dell’autore, attento ad analizzare nel profondo la psicologia di ogni pedina sulla scacchiera. L’autore con abilità delinea le caratteristiche di due schieramenti opposti. Anarchici contro polizia. La contrapposizione a buoni contro cattivi, bene contro male, non è imposta dal narratore, o calata dall’alto. Ogni personaggio ci espone il suo punto di vista, con le proprie verità e le proprie contraddizioni. Scopriamo che il gruppuscolo anarchico è composto da: il dott. Ossipon un ex studente di medicina che vive con i soldi delle sue amanti; Mr. Michaelis un placido uomo che dopo anni di prigione (dove è abbondantemente ingrassato) viene mantenuto da una ricca ammiratrice; Mr. Verloc l’infiltrato, la spia di un governo straniero, nonché doppiogiochista, che ha trovato un lavoro che gli consenta di vivere affaticandosi il meno possibile. L’unico veramente pericoloso è Il Professore, un pazzo sociopatico con la passione per gli esplosivi. Non sembra proprio il genere di organizzazione del terrore a cui siamo abituati. Dall’altra parte della barricata stanno i poliziotti, e alcuni di loro, come l’ispettore capo Heat, elaborano un proprio, personalissimo ma così realistico, codice di comportamento. La lotta contro i criminali è quasi un gioco, una partita a scacchi, in cui vince il più abile ad incastrare l’avversario. Non importa come.

In questa tutto sommato tranquilla routine irrompe il cambiamento improvviso. Un cambio ai vertici dell’ambasciata per cui Verloc lavora mette a rischio il suo posto di lavoro. C’è bisogno di un’azione spettacolare per dimostrare che i soldi della potenza straniera sono ben spesi. Un piccolo scontro nelle gerarchie burocratiche è il detonatore che farà esplodere la tragedia. Il pigro e codardo agente segreto coinvolge il cognato, un ragazzo poco più che adolescente, per tutti un ritardato che passa le giornate a disegnare cerchi sul tavolo. Sarà lui a fare il lavoro sporco, e se anche verrà scoperto se la potrà cavare con qualche anno di manicomio. Tutto va storto. E la sorella del ragazzo, la moglie di Verloc, alla quale non importava di andare oltre la superficie delle cose, lo scopre. Il mondo della piccola e inutile spia va in rovina, un pezzo alla volta. Fino alla fine.

Conrad racconta una storia senza molti colpi di scena, ma con uno stile e con un’indagine dei personaggi che lo rendono profondo e coinvolgente. Con il suo linguaggio espressivo, ai limiti dello sperimentalismo linguistico, l’autore cura la caratterizzazione di ogni comparsa. Trasformando con abilità il genere narrativo dall’interno, esplora gli abissi dell’animo umano, invece delle distese oceaniche. Indaga le ragioni e le spinte che portano l’uomo, perfino l’uomo più pigro come Verloc, e la donna più superficiale come sua moglie, all’azione e alla distruzione. Con i suoi personaggi più che umani, Conrad ha scritto un libro che ci ricorda che sono sempre gli uomini a fare le guerre.

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