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Il dramma scozzese.

Macbeth-coverDa dietro una quinta osservo teso i miei compagni di classe. Sul palco una tredicenne vestita di bianco sfrega le mani cercando di rimuovere macchie immaginarie e nel sonno lancia grida tormentate che fanno rabbrividire il pubblico e noi, oltre le pesanti tende. Tra poco tocca a me, altro mondo, altro tempo, altre strida, prima di tornare nella Scozia dell’Anno Mille o su un treno che viaggia verso una meta sconosciuta, nella Sicilia degli anni venti o in un paesaggio ucronico e assurdo. Di nuovo Scozia, di nuovo Medioevo. Alle ragazze più carine toccava la parte delle streghe, ovviamente, per un Macbeth smarrito e disperato, ipnotizzato come noi dalla ridda in rima.

Fair is foul, and foul is fair.
Hover through the fog and filthy air

È tremendamente difficile accostarsi a Shakespeare. All’enorme peso che le sue opere hanno avuto e continuano ad avere nella storia della letteratura e dell’arte mondiale, corrisponde una opposta e irriducibile sfuggevolezza della materia su cui si basa questa fama. Drammi incompleti, ricopiati, interpolati, ricuciti e tradotti, in prosa e in altre lingue, raccolti per essere letti o recitati ad alta voce, in teatro in mezzo ai popolani che si accoppiano sulle gradinate o di fronte al re nei suoi appartamenti privati. Opere che parlano di sogni, di incubi, fantasmi e visioni. Nebbia e illusione affollano il teatro del Bardo. Il regista poi, ogni volta, e con lui gli attori, interpretano, inventano, tagliano e aggiungono, ogni volta una cosa nuova eppure così antica. Nel 1936 Orson Welles, prima del film, ne curò una versione teatrale, nota come Voodoo Macbeth. Gli attori erano neri e invece che in Scozia il dramma era ambientato ad Haiti. Nei buchi della trama i lettori del copione riversano pulsioni sessuali inespresse, maternità interrotte, allusioni politiche, teologiche. A causa della straordinaria densità semantica riversata in ogni verso, una singola parola detta o solo immaginata, può cambiare il senso a tutta l’opera. How tender’tis to love the babe that milks me Da dieci anni però, ho ancora in mente le grida dell’attrice, e le esitazioni dell’attore che impersonavano Macbeth e la sua sposa. Mentre molto altro è già scivolato via, a raggiungere tutta l’altra materia di cui sono fatti i ricordi, loro li vedo ancora.

Out, damned spot! Out, I say!

Facciamo allora una cosa vietatissima. Togliamo, uno alla volta tutti i personaggi di contorno. I Thane di di Scozia e i soldati inglesi, Macduff e famiglia, medici e dame di compagnia, servitori e vedette, togliamo il portiere ubriaco che fa battute sull’erezione, togliamo persino le streghe, le sorelle fatali che predicono il futuro di Macbeth, e con loro tutti gli spiriti, la nebbia, i tuoni e i fulmini i corvi i gufi i terremoti che sconquassano la notte sulla brughiera e che tanto danno all’atmosfera dell’opera. Cosa resta? Loro due, marito e moglie. Per nessun altro motivo apparente che non sia la propria ambizione, decidono di uccidere il re, un buon re. Per tutto il resto del dramma dovranno affrontare le conseguenze del loro atto scellerato. Non c’è onore, amore, vendetta, inganno, giustizia, cecità, che possa sostenere il loro incedere tragico. Edipo almeno era cieco. Amleto adirato. Otello geloso. Loro hanno solo l’altro a sostenerli. È la loro solitudine a renderli così grandi. Come Faust hanno venduto la loro anima alle potenze infernali, ma invece che ricchezze e onori, ne hanno ottenuto solo sofferenze, soli con le proprie scelte, insicurezze, dubbi, paure e rimpianti consapevoli di essere nel torto, di fare il male. Entrambi dovranno indurire il proprio cuore, o perire.

I have almost forgot the taste of fear.

Il sangue scorre a fiumi e impregna vestiti e anime. Ma i personaggi magnanimi si innalzano comunque in questo mare arrossato, nonostante il peso del manto reale sia troppo per loro. Macbeth è una tragedia di sapore quasi cattolico, che parla di libero arbitrio a un mondo Riformato, dove si è soli di fronte a Dio e al suo disegno incomprensibile ma pur sempre liberi di ribellarvisi. Rimettiamo quindi al loro posto tutti gli altri personaggi, che hanno importanza anche loro: streghe bitorzolute e buoni sudditi. Ritiriamoci dietro le quinte a guardare gli attori che strepitano sul palco una storia che non sembra avere molto senso. Prepariamoci perché i prossimi a salire siamo noi.

Questo libro è stato letto in occasione della #maratonashakesperiana organizzata da Scratchbook su Facebook. Per partecipare guarda QUI.

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Tra proiettili e messicani, un’intuizione.

Al Santa Fe Institute ogni tanto dei cervelloni si ritrovano e si scambiano un po’ di pettegolezzi scientifici. Discutono su come il mondo potrebbe finire, delle conseguenze dell’eugenetica, delle ultime novità della bioingegneria, ogni tanto giocano a scacchi e, se la temperatura lo richiede, bevono una birra fredda. Possono farlo in tutta tranquillità. Santa Fe è una tranquilla città di provincia, in una zona tranquilla come può essere la parte di New Mexico più lontana dalla frontiera messicana. Le case della città sono in stile Pueblo, come quelle dei film western, l’intonaco bianco o giallo e le travi che spuntano dai muri di mattoni. A parte qualche chiesa, una missione spagnola (ah! la “vecchia missione spagnola”!) e un palazzo dei governatori che assomiglia a una stazione di servizio, a Santa Fe è tutto molto recente. Ma, come spesso succede in America, lì le cose e le persone invecchiano abbastanza alla svelta e la via centrale coi negozi non sembra più di tanto la copia disneiana di un villaggio Anasazi. I muri sono di mattoni veri e non in fibra di vetro. Tra gli ospiti abituali dell’istituto c’è Cormac McCarty, il famoso scrittore. Quando non parla al telefono con suo fratello dell’estinzione del genere umano, trova piacevole discorrere con altri cervelloni dei massimi sistemi. Si pongono le stesse domande che ci facciamo noi, solo che loro, essendo cervelloni con un QI superiore alla media, provano a darsi risposte sensate. Non dico che riescano, ma tentano.

Cormac è lì, ascolta, interviene, medita. Il suo, e quello dei suoi sodali, è un mondo rigoroso, scientifico. Crudo e reale. È un mondo dove i vecchi sceriffi sono stanchi di fare il loro lavoro, stanchi nelle gambe quanto nel cuore, dove chi è buono ma stupido perde e chi è cattivo ma intelligente vince. È un mondo tutto sommato semplice e comodo, sei sicuro nelle tue certezze derivate dalla statistica, dal calcolo scientifico e dall’analisi rigorosa. Se non c’è cibo anche gli umani si mangiano tra di loro. Se hai una buona percentuale di rimanerci secco, è quasi certo che succederà.

Non è un paese per vecchi (Einaudi, pp. 251, euro 17) è un altro buon libro di McCarthy. Come già in Figlio di Dio e La strada non ci risparmia dettagli crudi e scene raccapriccianti, magistralmente raccontati con il suo caratteristico stile asciutto, rapido ed estremamente denso. Si può forse rimproverare all’autore di amare con troppa passione scene truculente e personaggi cinici ma, a pensarci bene, l’autore compie una scelta: decide di raccontare in un romanzo quello che tutti i giorni si sente alla radio, si legge sul giornale, si vede alla tv. Senza filtri? È pur sempre un romanzo, tuttavia i fatti raccolti in questi libri sono successe o potrebbero succedere. Magari lontano, nella Mongolia Esterna. Una carotide tranciata però proietta il sangue sempre allo stesso modo. È capitato, funziona così, perché non scriverlo?

Qui invece siamo in Texas, tra corrieri della droga messicani e motel sudici, ragazzine che crescono troppo in fretta e grossi uomini che mangiano grosse bistecche. Nei negozi di vestiti si comprano cappelli Stetson e stivali, non perché sia figo essere un cow boy, ma perché il sole batte forte sulle teste e le surriscalda, i sassi sulla strada spaccano le scarpe. Il Destino o chi per lui, intreccia le vite di tre uomini, mai per caso. Un reduce del Vietnam molto fortunato (o sfortunato), un sicario psicopatico (o saggio), uno sceriffo troppo vecchio (o solo codardo). In questo mondo di carta chi si ferma a lottare contro una forza superiore soccombe, chi si arrende vive.

Il libro parla del destino, delle nostre scelte e di come alla fine siano la stessa cosa. Viviamo in un flusso, in mezzo alla corrente, e i molteplici universi che potrebbero esistere muoiono ancora prima di nascere. Alla fine il corso del fiume è uno solo. È difficile da pensare, come puoi ragionare di una cosa del genere? L’uomo medio di sicuro non ci riesce. Qualcuno, magari quelli del Santa Fe Institute riescono ad arrivarci vicino. I mistici nel medioevo, i monaci buddisti, Dante nel Paradiso. Ci saranno arrivati per un momento, la verità li ha sfiorati come un velo di seta, per poi lasciare solo un ricordo sbiadito, un alone di grigio. L’intuizione McCarthy te la regala sempre all’ultima pagina. Un sogno, un pesce, un bambino che assomiglia a un mostro. Per un attimo credi di aver capito tutto, sì ecco, quella cosa lì, che…spiega…tutto ha un senso. Poi però il libro finisce, chiudi la copertina e quella sensazione pian piano svanisce. Credi di aver capito ma non ne sei sicuro.

Magari McCarthy è un truffatore e ha messo il salmerino dell’universo e l’antenato con la fiaccola di corno nei suoi libri per conturbare il lettore e circuirlo. Potete anche leggerlo come un semplice thriller: si muore tanto, si spara tanto, proiettili e battute sagaci. È bello comunque.

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