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La fine degli dei

byatt-ragnarock-recensioneIn tutti questi mesi non ho certo mai smesso di leggere ma soltanto di scrivere. A parte qualche sparuto articolo che il tempo il dovere o l’impellenza mi hanno fatto scrivere, di settimana in settimana diminuisce lo spazio sulla mensola della cucina dove tengo i libri che sto frequentando di recente. Il fatto che non abbiano cominciato a cadere dal bordo è dovuto solo al fatto che all’appello mancano tutti quelli restituiti in ritardo alla biblioteca, quelli restituiti alle persone che me li hanno prestati, quelli che per abbandono sono stati presi e riposti al sicuro sotto la polvere della mansarda. I recenti regali hanno causato un accumulo anche maggiore, i solleciti di restituzione si fanno più insistenti e da qualche parte dovrò pur cominciare, per smaltire gli arretrati. Il fatto di pubblicare quando mi pare sta diventando pubblicare mai. Per la gioia dei miei creditori comincerò non dai libri che gli devo, ma da uno che ormai da mesi è tornato a casa sua, in biblioteca. Scriverò di un libro che lessi tempo fa e di cui mi ricordavo neppure il nome dell’autore.

Questo sforzo di memoria però non è privo del suo fascino, perché questo libro racconta i ricordi d’infanzia della sua autrice e per farlo sceglie di usare anche la mitologia epica norrena, nel migliore dei modi possibili. Certo sarete d’accordo con me che se il blog si chiama Muninn, il corvo di Odino il cui nome significa proprio memoria, tutta questa operazione potrebbe smettere i panni della buffonata e assumere un’apparenza quasi seria, professionale e postmoderna. Ricordare i ricordi di una persona, che per ricordarli ha usato storie che sono care a entrambi. Io e la signora Byatt non ci incontreremo mai, credo, ma i libri molto spesso mettono in contatto le persone nei modi più impensabili.

A. S. Byatt ora è una famosa e rispettata scrittrice britannica. I suoi raffinati libri sono bestseller ed è anche ovviamente apprezzata come critica ed esperta di letteratura. Dico ovviamente perché il suo è un modo di scrivere che del rubare agli altri ha fatto una bandiera: alla fine puoi chiamare postmoderno un autore che ruba ad altri autori ma che mette in mostra il suo gesto. Ottima imitatrice di stili infatti, la scrittrice riesce a riprodurre con destrezza documenti di epoca vittoriana o frammenti epici scandinavi. Un tempo però è stata una piccola ragazza magra, che con la madre (e una sorella di cui non parla mai) si rifugiò in campagna durante la guerra, mentre i tedeschi bombardavano Londra ogni giorno e il padre volava sopra l’Africa settentrionale, forse ancora vivo, forse già morto.

È questa bambina sola, a cui la colta madre regala un libro di racconti sui miti nordici, che attraversa le colline inglesi lungo stradine sterrate, lungo i cui bordi, tra le fessure dei muretti a secco, nelle zone umide o sotto certi alberi, crescono piante aromatiche e si muovono insetti, descritti con la precisione del loro nome scientifico, appena usciti dal manuale di botanica che la ragazzina sfoglia con altrettanta passione. La bambina, per non pensare al crudele destino che attende il padre in guerra si rifugia nella natura e nelle pagine del mito, dove trova conforto nel caotico tempo di Odino e dei suoi figli, destinato a collassare su se stesso durante il Ragnarock, la fine del mondo, a cui non possono porre rimedio perché loro stessi sono causa di esso.

Lei legge il libro per se stessa e lo rilegge per noi, raccontandoci di come il mondo fu creato da una vacca che leccava il sale sull’orlo del gorgo primordiale e di come nacquero i fiumi e le montagne, dal corpo di un gigante. Racconta del re di tutti gli dei, che ha ottenuto la sua saggezza a costo di grandi sacrifici e delle imprese bellicose dei suoi numerosi figli e sudditi. Racconta di Loki, il mutaforma, la fiamma, l’ingannatore. Amico e nemico, causa della fine del mondo solo perché vuole difendere i suoi mostruosi figli, generati con una altrettanto mostruosa consorte. Ma l’obiettivo della Byatt non è cercare di spiegare da dove arrivano questi dei: se sono forse i nomi di antichi guerrieri indoeuropei che combatterono antiche guerre dimenticate o se sono riflessi dei nostri istinti universali. Il suo obiettivo era trovare conforto e per farlo è entrata in quel mondo e in quelle storie, condannate ad una fine certa e ineluttabile e ad un eterno ritorno. Ha cominciato a raccontare anche lei, rubando il suono alle parole di popoli estinti, per esplorare zone della storia rimaste oscure, trattando la materia epica nel solo modo possibile, inventandone altra. Con gli stessi ritmi, accenti e vocali con cui ci parla di Fimbulvetr, l’infinito inverno, o della morte di Yggdrasil enorme frassino che sorregge i mondi, la Byatt ci parla del possente albero marino di alghe dove vivono gli dei del mare e dell’enorme serpente che lo divorerà alla fine del mondo. Così la storia di quella piccola bambina ha preso il suo posto in mezzo a quella degli antichi bardi, imitando i suoni dei loro nomi e dei loro tristi destini. Così infine ha scritto dell’epica, giusto qualche anno dopo il secondo millennio Avanti Cristo.

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Il dramma scozzese.

Macbeth-coverDa dietro una quinta osservo teso i miei compagni di classe. Sul palco una tredicenne vestita di bianco sfrega le mani cercando di rimuovere macchie immaginarie e nel sonno lancia grida tormentate che fanno rabbrividire il pubblico e noi, oltre le pesanti tende. Tra poco tocca a me, altro mondo, altro tempo, altre strida, prima di tornare nella Scozia dell’Anno Mille o su un treno che viaggia verso una meta sconosciuta, nella Sicilia degli anni venti o in un paesaggio ucronico e assurdo. Di nuovo Scozia, di nuovo Medioevo. Alle ragazze più carine toccava la parte delle streghe, ovviamente, per un Macbeth smarrito e disperato, ipnotizzato come noi dalla ridda in rima.

Fair is foul, and foul is fair.
Hover through the fog and filthy air

È tremendamente difficile accostarsi a Shakespeare. All’enorme peso che le sue opere hanno avuto e continuano ad avere nella storia della letteratura e dell’arte mondiale, corrisponde una opposta e irriducibile sfuggevolezza della materia su cui si basa questa fama. Drammi incompleti, ricopiati, interpolati, ricuciti e tradotti, in prosa e in altre lingue, raccolti per essere letti o recitati ad alta voce, in teatro in mezzo ai popolani che si accoppiano sulle gradinate o di fronte al re nei suoi appartamenti privati. Opere che parlano di sogni, di incubi, fantasmi e visioni. Nebbia e illusione affollano il teatro del Bardo. Il regista poi, ogni volta, e con lui gli attori, interpretano, inventano, tagliano e aggiungono, ogni volta una cosa nuova eppure così antica. Nel 1936 Orson Welles, prima del film, ne curò una versione teatrale, nota come Voodoo Macbeth. Gli attori erano neri e invece che in Scozia il dramma era ambientato ad Haiti. Nei buchi della trama i lettori del copione riversano pulsioni sessuali inespresse, maternità interrotte, allusioni politiche, teologiche. A causa della straordinaria densità semantica riversata in ogni verso, una singola parola detta o solo immaginata, può cambiare il senso a tutta l’opera. How tender’tis to love the babe that milks me Da dieci anni però, ho ancora in mente le grida dell’attrice, e le esitazioni dell’attore che impersonavano Macbeth e la sua sposa. Mentre molto altro è già scivolato via, a raggiungere tutta l’altra materia di cui sono fatti i ricordi, loro li vedo ancora.

Out, damned spot! Out, I say!

Facciamo allora una cosa vietatissima. Togliamo, uno alla volta tutti i personaggi di contorno. I Thane di di Scozia e i soldati inglesi, Macduff e famiglia, medici e dame di compagnia, servitori e vedette, togliamo il portiere ubriaco che fa battute sull’erezione, togliamo persino le streghe, le sorelle fatali che predicono il futuro di Macbeth, e con loro tutti gli spiriti, la nebbia, i tuoni e i fulmini i corvi i gufi i terremoti che sconquassano la notte sulla brughiera e che tanto danno all’atmosfera dell’opera. Cosa resta? Loro due, marito e moglie. Per nessun altro motivo apparente che non sia la propria ambizione, decidono di uccidere il re, un buon re. Per tutto il resto del dramma dovranno affrontare le conseguenze del loro atto scellerato. Non c’è onore, amore, vendetta, inganno, giustizia, cecità, che possa sostenere il loro incedere tragico. Edipo almeno era cieco. Amleto adirato. Otello geloso. Loro hanno solo l’altro a sostenerli. È la loro solitudine a renderli così grandi. Come Faust hanno venduto la loro anima alle potenze infernali, ma invece che ricchezze e onori, ne hanno ottenuto solo sofferenze, soli con le proprie scelte, insicurezze, dubbi, paure e rimpianti consapevoli di essere nel torto, di fare il male. Entrambi dovranno indurire il proprio cuore, o perire.

I have almost forgot the taste of fear.

Il sangue scorre a fiumi e impregna vestiti e anime. Ma i personaggi magnanimi si innalzano comunque in questo mare arrossato, nonostante il peso del manto reale sia troppo per loro. Macbeth è una tragedia di sapore quasi cattolico, che parla di libero arbitrio a un mondo Riformato, dove si è soli di fronte a Dio e al suo disegno incomprensibile ma pur sempre liberi di ribellarvisi. Rimettiamo quindi al loro posto tutti gli altri personaggi, che hanno importanza anche loro: streghe bitorzolute e buoni sudditi. Ritiriamoci dietro le quinte a guardare gli attori che strepitano sul palco una storia che non sembra avere molto senso. Prepariamoci perché i prossimi a salire siamo noi.

Questo libro è stato letto in occasione della #maratonashakesperiana organizzata da Scratchbook su Facebook. Per partecipare guarda QUI.

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Vergogna dei mostri.

È stato difficile per me allora, e sarebbe ben più difficile adesso, persuadere i lettori che le mie intenzioni erano essenzialmente morali. I miei amorali narratori in prima persona avrebbero dovuto condannarsi con le loro stesse parole. Ho pensato fosse più interessante per l’autore non intervenire.

11308856042Se Ian McEwan in persona non trova giustificazioni convincenti per difendersi dalle accuse di oscenità, morbosità, cinismo e sessualità deviata, non vedo come la mia penna infinitamente meno felice possa dargli man forte. C’è da dire però che lo scrittore non le cerca neppure, queste giustificazioni. E neppure all’interno dell’articolo scritto nell’anniversario dell’uscita del suo primo libro,  Primo amore, ultimi riti, ce ne sono. Si vede che è passato oltre, le sue ossessioni sono diventati i temi di una carriera letteraria consolidata e universale, che mette d’accordo i lettori più raffinati come gli occasionali curiosi che hanno consumato il suo ultimo racconto, prima che tra le pagine, di fronte allo schermo. A pensarci meglio neppure allora, aveva cercato giustificazioni per il contenuto dei suoi racconti. I suoi editori non ne avevano tenuto conto e persino i genitori, seppur con un’abbondante dose di imbarazzo inglese, erano orgogliosi di lui. L’unico che cerca di giustificarsi qui sono io.

Deve quindi esserci qualcosa di diverso, nel male raccontato da McEwan, rispetto al Male che si racconta solitamente. Una caratteristica speciale, forse non unica, ma che imbarazza le persone che leggono i suoi libri. Non è un problema di morale borghese cristiana o occidentale, ma umana. I suoi personaggi fanno cose orribili, di una violenza arcana, ancestrale e incontrollabile, dispiegano le loro pulsioni aldilà della comune sopportazione. Pensieri, parole, opere sono tutte egualmente terribili, perché si addentrano fin da subito senza renitenze e prudenze nei territori più oscuri dell’umanità, senza guide, senza freni, senza neppure nubi oscure cariche di fulmini che preannuncino la tempesta. Nessun Virgilio, nessuna inconsapevolezza per Edipo, la nostra mente nuda esposta all’occhio di Sauron diventa essa stessa l’occhio. Non c’è neppure la sicurezza che in fondo al cuore di Céline ci sia la bontà più pura, che quello di Miller sia un viaggio perlopiù letterario, e tutto questo perché prima di fargli fare le loro terribili cose, McEwan si è nascosto. I narratori in prima persona e uno stile puro e perfetto incantano il lettore e lo conducono giù nell’oceano, abbracciato in una stretta mortale. Sono come trappole per i pesci, quando ci si accorge che si è in trappola è troppo tardi.

Fatto in casa apre la raccolta, e persino il titolo nonché le prime tre righe, ci avvertono del contenuto della storia, in cui tutto sembra affidato al caso e all’inevitabile susseguirsi di occasioni e conseguenze involontarie. Ma come il racconto è stato pensato e misurato per arrivare al climax finale, così premeditazione e un male più profondo si nascondono tra le righe. Geometria solida ha invece il fascino sempreverde del racconto fantastico: un uomo ossessionato dalla vita del bisnonno porta alle estreme conseguenze le sue misteriose scoperte. C’è qualcosa di familiare, e di antico. È uno dei miei preferiti. Farfalle è fatto per mettervi di nuovo alla prova, con il sospetto e il disgusto.

Ultimo giorno d’estate è un momento di pausa, dal male assoluto degli uomini, col male assoluto del mondo. Cocker a teatro fa troppo ridere, e McEwan dimostra il suo talento indiscusso. Conferma come l’indagine dei mostri sia una scelta profonda e non uno stratagemma per acchiappare il lettore. A lui non serve, e questo brevissimo affresco satirico lo dimostra. Che ridere.

Conversazione con l’uomo nell’armadio è forse il più strano e disturbante racconto, ma non è assurdo come sembra dal titolo, è dolorosamente realistico. Primo amore, ultimi riti ci consola con una storia d’amore, dopotutto, ma è una storia che deve fare i conti con la realtà e gli innumerevoli fallimenti che fanno sgusciare via il momento in cui tutto cambia come anguille nel fango. Travestimenti è il più lungo della raccolta, è il più tremendo, perché prima che con la sessualità morbosa ci colpisce con la violenza fatta ai sentimenti, al futuro, ai tormenti che distruggeranno tanta felicità.

Per quanto si possa dire sul valore morale e catartico dei racconti, evocare il male peggiore possibile per augurarsi il bene, continueremo a sentire quel fastidiosissimo senso di vergogna e vago disgusto dopo averli letti. Questo perché la lettura ci ha causato ben due sommovimenti. Il primo è l’imbarazzo di aver tratto piacere da immagini così depravate: infatti non conta che lo stile sia di volta in volta magnifico, agile, attento o ironico e che in fin dei conti questa è Arte, sarete sempre colpevoli. Il secondo, il più straordinario, sarà la vergogna per aver capito, per essere stati “dentro” per aver fatto parte della coscienza di uomini che altrimenti definireste mostri e inumani. McEwan ci rivela la loro – e quindi la nostra – umanità, sentimenti e brame, recessioni e manie che fanno inestricabilmente parte della nostra natura mortale e ci affratellano, grazie alla magia del racconto, con scorie umane.

(Luogo pubblico, due conoscenti si incontrano seduti sulla stessa panca, scambiano convenevoli)

«Cosa leggi?»

« Primo amore, ultimi riti. Sono dei racconti.»

«Oh…belli?»

«Moltissimo, Ian McEwan è uno scrittore straordinario!»

«Ah…di cosa parlano?»

«Incesto, stupro, pedofilia, violenze domestiche fisiche e psicologiche, bullismo, sporcizia umana e materiale, fallimento, solitudine, depravazione, pura e semplice malvagità.»

«…»

«Ma c’è anche un pene dell’ottocento sotto formalina e una scena di sesso molto divertente! Non scappare….!»

(l’interlocutore si allontana camminando, il dialogo termina come se non fosse mai accaduto)

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Germogli tra le macerie.

71RUw9k3ujLDa giorni e settimane ormai, girovago ramingo col pensiero. Mi illudo, dopo essermi coricato, di aver afferrato un lembo di verità, di essere arrivato al giro di boa, all’intuizione che mi porterà indietro, a scrivere questa benedetta recensione. Leggiucchio brandelli, citazioni avulse, vaneggiamenti vari, insulti generalizzati, cercando di trovare conferme ai movimenti della mia coscienza. Ovviamente il tutto inutilmente. Argomenti che sembravano importanti si stemperano in dettagli di un quadro più grande e, paradossalmente, più semplice. Ogni considerazione politica, filosofica, teologica, critica si abbatte con fragoroso rumore di fronte alla sconcertante realtà, dalle motivazioni profonde che hanno mosso l’autore di questo libro. Le rocce possenti, le analisi granitiche tenute assieme da testimonianze, lettere, saggi, si allentano e crollano. Potremmo stare giorni interi a confutare una per una tutte le teorie, le spiegazioni che vengono date su “il vero significato di”. Senza arrivare da nessuna parte. Tolkien è vissuto e ha scritto in uno dei momenti più oscuri della Storia dell’uomo. I deserti senza vita di Mordor, la terra del Nemico, sono aridi e repellenti, fangosi e sudici, sono gli stessi che ha trovato in Francia durante la battaglia della Somme. Dobbiamo però fermarci qui, ogni altra allusione è un azzardo. La Terra di Mezzo rimane solo la Terra di Mezzo, dove l’allegoria non può trovare casa. Ho cercato consiglio nel cielo e nella terra, nei corvi che fanno cadere le noci dall’alto, ma nemmeno il mio animale totemico ha saputo darmi una mano. Ho lasciato decantare questa recensione per lunghissime settimane, chissà se alla fine sarai d’accordo con me. Rompiamo gli indugi e cerchiamo di mettere assieme i pezzi, amico lettore.

Ho letto la prima volta Il Signore degli Anelli quando ero ragazzino, non ricordo bene dove e quando, poi l’ho riletto una seconda, una terza e una quarta. Ho perso il conto di quale sia l’ultima. Ho cominciato a disegnare cartine e a inventare nomi, che avevano tutto il loro significato nelle linee contorte di una costa o nel cupo suono di Udûn. Il piacere stava tutto nel lasciarsi trasportare fuori dalla tranquilla, accogliente, borghese e britannica Contea, scoprendo man mano pericoli sempre più cupi e terribili. Moria, Orthanc, Mordor. Abbandonarsi al racconto che ritmicamente si allunga tra luce e oscurità, tra fuga e riposo, tra battaglia e contemplazione. La storia in realtà la sapete già, come me, anche se non avete mai letto il libro e mai lo farete. E sapete benissimo che ci sono i Nani, gli Elfi e gli Uomini e, ovviamente, ci sono gli Hobbit. Ci sono mostri terribili e raccapriccianti, nascosti e striscianti nelle profondità della terra o ripugnanti esseri alati. Creature abiette ed eroi, foreste vergini popolate da alberi parlanti e torri di pietra aguzze e scintillanti, lande desolate ricoperte di scorie maleodoranti e accoglienti locande dove servono birra così buona da sembrare stregata, canti in lingue musicali che curano l’anima e maledizioni terrificanti che la annientano. Eserciti dalle armature lucenti e pire funebri. Prodigi e forze che sprigionano una forza vitale arcaica. Un Nemico da sconfiggere, aiutanti e antagonisti, strumenti magici che sarebbe molto meglio non utilizzare mai. C’è tutto un mondo là dentro, ma lo conoscete già. Avrete visto il film. Dovreste leggere il libro.

Ma cos’ha, qual’è la magia del libro? Gli strumenti usati da Tolkien per creare il suo mondo sono tutto sommato semplici, a portata di qualunque scrittore, antichi: un sapiente e consapevole dosaggio di dettagli al limite della follia contrapposti a poetiche vaghezze. Come nel nostro di mondo, si vede bene ciò che si ha vicino, mentre le montagne lontane si sfumano nella foschia, pronte per essere popolate dal mistero. Fa più paura un esercito schierato o i tamburi che risuonano lontani nell’oscurità? Nuvole oscure ottenebrano la vista, mentre il pensiero va ai compagni lontani e forse perduti. Ogni volta che lo leggo rido, e piango anche. Assaporo l’attesa e divoro le pagine. Penso a tutta la letteratura di genere che è mai stata scritta e so che non ci sarà mai nulla di simile. Penso che gli scrittori che provano ad emularlo si sentano come Petrarca che prova a scrivere in terzine incatenate. Perché è diverso da tutto? Perché è migliore di tutto? Forse è sempre la stessa vecchia storia: la bellezza di un libro dipende sempre da quanta anima l’autore deve strapparsi per donare la vita a quello che scrive. Qui dentro c’è tutta una vita.

J.R.R.Tolkien ha inventato una lingua, gli ha dato degli esseri che potessero pronunciare le sue melodiose parole e un mondo magico dove farli camminare, belli e splendenti sotto le stelle luminose. E poi ha fatto in modo che il mondo degli elfi andasse in rovina, così che noi potessimo piangere assieme a loro la scomparsa del loro mondo in una lunga e sofferente elegia. Per permettere alla vita di continuare, il vecchio mondo deve farsi da parte. Il Signore degli Anelli è ambientato in un mondo di macerie, dove oltretutto con la sconfitta del male scompariranno molte altre cose antiche e meravigliose, canti e racconti verranno dimenticati. Dalla terra spuntano statue dagli occhi vuoti, buchi nella pietra che ci ricordano come tutto è in perenne trasformazione. Gli elfi cantano la nostalgia del mare, gli Ent quella delle loro compagne perdute, ogni cosa è destinata a scomparire vaga nell’immensità dell’Oceano, più vasto di tutte le montagne e di tutte le pianure della Terra di Mezzo. E tutto questo solo per suscitare nei lettori nostalgia di un luogo dove non sono mai stati, i tedeschi la chiamano fernweh. Non c’è nient’altro. Niente Madonne o diavoli, monarchi inglesi e razze superiori. Le spade che scintillano nel buio, le cariche poderose della cavalleria, gli agguati nei boschi, le migliaia di pagine sottili di questo libro non sono nulla, nulla, se non storie. Non significano niente se non se stesse. È un libro che parla di morte e vita, primordiale. Alla fine avrete nostalgia di tempi e luoghi che non sono mai esistiti. Solo questo.

Non è un mondo preciso e cristallino, dove le corrispondenze illuminano di significato ogni versetto. È solo una lunga, meravigliosa, remotissima storia, con la potenza dell’epica e la profondità del romanzo. È come un poema antico, di cui abbiamo solo un canto. L’unica cosa secondo me sicura, che si può dire su questo libro è la speranza nella Vita. Nel buio più estremo può brillare la luce, da un vecchio albero morto possono nascere ancora germogli, un vecchio e stanco re può trovare ancora forze nelle sue ossa antiche. La pace è costosa, e le ferite più profonde sono quelle dell’anima ma tutto è comunque poca cosa, destinata a scomparire e a diventare altro. La razza degli Uomini, così debole, così mortale, così sciocca, avrà sempre una possibilità e questa speranza dorme, in un buco nella terra. È questo il segreto. Tolkien era un filologo, un linguista. Sapeva che le lingue non muoiono, ma si trasformano; cuce un arazzo fisso e immobile, lontano nel tempo, in cui però tutto germoglia, silenzioso ma vivo. Tutto il resto è un debole tentativo di piegare una storia troppo grande dentro le maglie di un interpretazione che sarà sempre stretta. Se lo leggerete, dovrete farlo solo per la sua ineguagliabile capacità di portarvi in un altro mondo, la meraviglia e il terrore. Nient’altro, e verrete accontentati.

 

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Solitudini tropicali.

gggggggggggggggIl destino delle opere minori è di certo quello dell’oblio. Relegate a un misero paragrafo in coda alla biografia dell’autore nei manuali; giustamente evitate dagli editori, per cui il rischio è più o meno uguale a quello di un esordiente; beatamente ignorate nel migliore dei casi dalla comunità lettrice. Fortunatamente il sipario di foschia a volte si apre e consente di sbirciare aldilà, alla ricerca di qualche territorio inesplorato. Quando parliamo di grandi autori, scrittori che hanno fatto la storia della letteratura mondiale, citati e abusati fino all’inverosimile, perché dovremmo essere così schizzinosi? Perché mai un’opera, considerata minore rispetto al capolavoro, non dovrebbe essere comunque una buona lettura, maggiore rispetto alle squallide paludi della letteratura mediocre? (certo, a volte capita anche di beccare ciofeche inimmaginabili, ma non è il nostro caso) Questo il caso di George Orwell, il mitologico autore di 1984 e La fattoria degli animali.

Passeggiando in libreria, è possibile adocchiare un libro nuovo fiammante, con quelle belle copertine Mondadori, fascia bianca in basso, titolo e nome dell’autore in piccolo. Ed proprio lì che l’adocchio è tirato: “Ah, ha scritto anche un altro libro, Orwell?” È il normale pensiero, o almeno il mio. Il libro si chiama Giorni in Birmania (Mondadori, euro 10, pag. 331, traduzione Giovanna Caracciolo).

Il titolo accende la speranza di un Orwell più quotidiano, dove la sua acutezza e capacità espressiva siano al servizio della vita di tutti i giorni e non della satira politica o di un allucinante profezia distopica. Un Orwell più umano, che racconti la sua vita nelle colonie inglesi in Indocina, dove aveva vissuto. L’autore forse ci tradisce, perché invece scrive un romanzo, con tutte le implicazioni che la parola romance si porta dietro. E’ infatti la storia di John Flory: angloindiano mercante di legnami, outsider della piccola comunità di dominatori inglesi di un piccolo centro nel nord della Birmania, amico del dottore indiano Veraswami e innamorato di una giovane donna inglese appena arrivata da Parigi.

Il paesaggio è tropicale, caldo, caldissimo, afoso, fatto di camicie che si appiccicano, dermatiti tropicali, servi che sventolano ventagli e ghiaccio che non arriva a sera, con molto disappunto dei membri del circolo inglese. La Birmania è un paese fangoso, inadatto alla vita di un europeo. I pochi sventurati angloindiani riescono a tirare avanti solo grazie all’alcool e al primitivo dominio che esercitano sulle popolazioni locali. Il disprezzo profondo per gli orientali è ancora più forte in questa lontana stazione della periferia dell’Impero e il fulgido dominio civilizzatore dell’Inghilterra è smontato dal già maturo spirito critico dell’autore. Violenti, ignoranti e di una mediocrità a malapena tollerabile, i membri della sahiberia, la società civile, sono così ottusi da non capire il mondo che li circonda, intessuto di meschini tradimenti, chiusi nell’inviolabilità del proprio circolo, vietato ai nativi. Leggendo questo libro dopo gli altri due grandi racconti politici di Orwell la tentazione è di fare anche di questo romanzo un manifesto: questa volta non sono sotto esame il fallimento della rivoluzione russa o i pericoli di del totalitarismo, ma il fulgido Impero Britannico, al massimo del suo ipocrita splendore, che comincia a scricchiolare. Ma per nostra fortuna non è tutto qui.

Passioni e intrighi si intrecciano alla continua e penosa ricerca della felicità di Flory. Il paese dove vive può anche piacergli, ma è nulla senza qualcuno con cui condividerlo: non può farlo coi suoi compatrioti, boriosi e presuntuosi; non può farlo coi nativi, per cui l’uomo bianco resterà sempre un lontanissimo e incomprensibile alieno; neppure l’onesto dottore può capirlo. La speranza si mostra per un momento quando salva la giovanissima Elizabeth da un innocuo bufalo: lei potrebbe portare sollievo nell’invincibile solitudine delle calde giornate birmane, il matrimonio sarebbe per tutti una scelta conveniente. Una serie di romanzeschi colpi di scena non basteranno ad allontanare dal lettore la certezza che il protagonista sia profondamente solo, diviso tra due mondi che non lo capiscono e che non possono violare le convenzioni che li tengono a galla.

Il titolo originale di 1984 era L’ultimo uomo in Europa, l’ultimo essere umano in una società che distrugge gli individui fino all’anima, rimuove scientificamente la speranza e la felicità. Ma che non è molto differente nei suoi meccanismi profondi, invidie e mediocri ipocrisie, dalla nostra società civile. Disprezzo, avidità, ignoranza, che prima di arrivare dalle Ideologie, dallo Stato, da quelle cose iperurainche lassù in alto, arrivano dai mediocri cuori di mediocri persone, che difficilmente possiamo chiamare esseri umani. L’opera minore illumina il capolavoro e ci svela l’abissale solitudine di un uomo che si sente differente e di un autore che non trova il suo posto, in nessuna società, in nessun tempo e luogo.

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Sul ridere di un sikh a Milano. E Terry Pratchett.

tartLa scorsa settimana, mentre attraversavo Piazza Duomo per andare in università, una voce risuonava forte e metallica da un altoparlante. Proveniva da Piazza Fontana, proprio lungo il mio percorso. Avvicinatomi, le parole continuavano ad essere incomprensibili. Mi aspettavo una riottosa protesta di studenti, fumogeni e trombe da stadio, oppure una manifestazione di commemorazione di qualche memoria che mi era sfuggita. Mi affacciai sulla piazza e quello che trovai fu decisamente lontano dalle mie aspettative: la comunità sikh italiana manifestava (quando sono passato c’era molta meno gente) a favore del rilascio dei marò. Aldilà del bene e del male, era impossibile non sorridere: una protesta educata e ordinata, composta da una decina di giganteschi barbuti e inturbantati che ascoltavano quello con la barba e il turbante più grande parlare in una lingua assolutamente incomprensibile gesticolando con ardore. Persino i manifesti erano scritti in punjabi. Le teste sotto i turbanti annuivano alle invettive del loro capo sul palco, le braccia incrociate, le gambe leggermente aperte. La scena non era divertente in sé, ma per il luogo dove si svolgeva. Dei sikh in Punjab non destano certo scalpore, ancora meno se protestano contro la liberazione dei soldati italiani. Una vaga situazione di assurdo, di oltrepassamento di qualche barriera spazio-temporale, che ci separa da un universo parallelo fu quello che provai. Allo stesso modo la percezione del contrario, dell’assurda variazione rispetto alle aspettative produce l’umorismo. Sembrerebbe quindi che basti prendere un normale romanzo, una comune storia, e scrivere esattamente il contrario di quello che viene raccontato. Ebbene, non basta.

I romanzi, racconti, testi teatrali, poemi epici, che vogliono far ridere sia con la pancia che con la testa, non possono limitarsi ad essere una copia, una semplice parodia, un ribaltamento agli antipodi delle loro seriose controparti. Storpiare qualche nome, ribaltare qualche situazione, parolacce e allusioni sessuali non sono sufficienti. Perché tutto questo intricato discorso? Per cercare di spiegare cosa sono i libri di Terry Pratchett. Presentato come l’inventore del fantasy-comico e come uno scrittore di fortunatissimi libri che possono essere letti anche da chi non ama il fantasy, l’autore inglese per Muninn è molto di più. Come tutti i grandi creatori di mondi. La verità è che un grande libro umoristico non è solo umoristico e Pratchett riesce a fondere nel suo calderone creativo realtà e finzione, parodia e tributo, avventura e ridicolo, grazie a un incredibile potere immaginativo e al talento per identificare i mille piccoli dettagli degni di essere raccontati.

A me le guardie! (Salani, pp. 358, euro 15, traduzione Antonella Pieretti) è il primo libro di uno dei tanti cicli ambientati nell’universo infinito di Mondo Disco. Nessun’illustrazione, niente mappe, solo il grande potere delle parole e dell’immaginazione.

Ankh-Morpork è una grande metropoli che giace al centro di una grande pianura. Questa enorme città, un po’ Londra un po’ Roma un po’ qualsiasi agglomerato informe di costruzioni vecchie nuove sudice o eleganti che possiamo chiamare città, accoglie tutta l’umanità possibile, anche quando per umanità si intendono nani, troll, e cose che una scimmia troverebbe offensive definire “l’anello mancante” come il caporale Nobby della Guardia Cittadina. Il capitano di questa Guardia è Samuel Vimes, e da molto tempo non ha nessun lavoro che non sia finire bottiglie di wiskey economico. La città di Ankh-Morpork è infatti attivamente gestita da un efficiente sistema di gilde e confraternite, tra cui quella dei mercanti, dei mendicanti, dei maghi, dei ladri e degli assassini. Non c’è molto lavoro per i tutori della Legge. Si. Perché si è rivelato molto più comodo, pulito ed efficiente creare un sistema di furti e omicidi organizzato, in cui tutto è un servizio a pagamento, anche restare vivi. Due cose arrivano a turbare questo disordine razionalizzato: Carota, muscoloso giovanotto cresciuto sottoterra dai nani, e un drago. Il primo, come tutti i nani o presunti tali di due metri d’altezza, non ha il senso dell’umorismo e si aspettava di trovare un glorioso corpo di uomini d’arme in cui arruolarsi ma..no, niente ma, i nani hanno solo sicure certezze. Il secondo è stato portato in questo mondo da qualcuno a cui il sistema che sostiene la città non va proprio a genio. Come nei migliori noir e polizieschi il capitano Vimes dovrà estrarsi dal suo rifugio alcolico per scoprire chi sta cercando di ribaltare i fragili equilibri su cui galleggia Ankh-Morpork. E si sogghigna, tanto.

Terry Pratchett riesce a far ridere come al solito, con la sua incredibile capacità di giocare con le parole, con i topoi di ogni genere e tempo, senza mai smettere di pensare, e farci pensare, a quello che è Giusto e Sbagliato. Inventa un mondo, prepara dei personaggi, e poi li fa deflagrare. A volte letteralmente. I suoi libri non sono parodie, che avrebbero sempre bisogno di un originale da cui succhiare linfa vitale, ma universi autonomi in tutti i sensi, visti attraverso una lente deformante, che mescola o forse riordina, i tanti piccoli pezzetti del mondo in cui viviamo. I grandi umoristi parlano sempre di cose serie.

«Ben déto, pukka sahib, ben déto!» dice una voce proveniente da un piccolo spazio tra una barba e un turbante arancione.

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Storie di pirati.

Quindici uomini sulla cassa del morto,

yo-ho-ho, e una bottiglia di rum!

isolatesorocopertinaCi sono storie che, se ben raccontate, vivono per sempre. Nascono nella mente dell’autore, passano comodamente la vita nel loro mondo di finzione aspettando che qualche lettore le faccia rivivere nella sua, di mente. Ce ne sono altre invece, che per qualche strano motivo cominciano a fuoriuscire a fiotti dalla fantasia eccitata dei lettori, smettono di esistere solo tra carta e inchiostro (o bit e pixel) e prendono vita propria. Passano di media, vengono adattati, ridotti, illustrati. Ne fanno versioni per bambini, musical con o senza i Muppet, serie televisive e film, canzoni e cartoni animati. Si arriva fino al punto che la loro presenza nell’immaginario universale è così pregnante da far dimenticare le proprie origini. Una di queste storie è L’isola del tesoro (BUR, pp. 319, euro 9.90, traduzione Michele Mari).

Ho letto il libro, il libro vero, quando ero “grande” ormai: l’ho finito poco più di una settimana fa, grazie a un amico. Ma non potrei dire di non sapere la storia dentro al libro, che mi era giunta agli occhi e alle orecchie nei modi più diversi. E uditivo è il mio primo ricordo: il mio papà, quando ero piccolo, ogni tanto cantava quei versi che aprono l’articolo, forse per farci addormentare o forse perché faceva piacere a lui, solo quei due versi, variati e ripetuti. È la canzone dei pirati, che tutti conoscono e che segna il loro destino di bucanieri, fuorilegge al di là di qualsiasi regola, e di qualsiasi ragionevolezza. È la canzone che canta Long John Silver, che canta il capitano Flint, che canta Billy Bones, che canta il vecchio Ben Gunn. Solo che sulla carta – ovviamente – la melodia non c’era: la maledizione di chi nei romanzi mette delle canzoni o delle vecchie filastrocche. Io invece, fortunato, ero l’esclusivo possessore di una serie di note profonde e misteriose, una piccola storia a sé stante, col brivido della bara e l’incognita dell’alcool di contorno.

Ma la mia era solo una decorazione, un bellissimo ghirigoro che fa da cornice a un quadro: il meglio stava sulla tela. Se l’opera di Robert L. Stevenson è diventata uno dei libri letti dai ragazzi di tutto il mondo il merito è tutto suo, non di una canzone. Raccontare non è affatto affar semplice e questo libro è l’eterno rimprovero a chi lo pensa: i personaggi e le storie possono essere semplici ma devono essere profonde. Profondità che si può dare con due righe come con cento pagine e non è sinonimo di complessità. Non scriverò mai che il Capitano Smollett era un perfetto gentiluomo britannico, ligio al dovere ed educato; ma gli farò pronunciare queste parole sotto una pioggia incessante di piombo, mentre un cannone gli viene puntato addosso: «Signor Trelawney, vorreste per cortesia abbattermi uno di questi uomini? Hands possibilmente». Sembra facile ma non lo è, serve una capacità immaginativa superiore per creare personaggi così belli e ben fatti da poter vivere al di fuori del mondo di carta del libro.

Ed ecco allora sfilare sotto i nostri occhi i componenti della ciurma: il dottor Livesey, inamidato, parruccato e razionale prototipo del dottor Maturin, il rigido capitano Smollett e l’irascibile Sir Trelawney con sopracciglia folte e nere e un irruenza degna del capitan Haddock di TinTin. Il reietto Ben Gunn, novello Robinson Crusoe che quasi è uscito pazzo dalla lunga solitudine, salta come una scimmia e ulula le sue vecchie canzoni nella foresta, Israel Hands e gli altri marinai e bucanieri della ciurma, sporchi ubriachi e ringhiosi, con quella folle luce negli occhi. E poi lui, il cuoco di bordo, Long John Silver. Che senso ha nascondere che lui in realtà è un pirata e il capo dell’ammutinamento? La sua fama corre per i sette mari e supera quella di tutti gli altri, persino del suo creatore. Long John è un pirata, gli manca una gamba ma in compenso ha un pappagallo e la battuta sempre pronta. Lui è il pirata, l’avventuriero, il voltagabbana, il ribelle, il fuorilegge, da tutte le leggi, persino da quelle dei suoi stessi compagni di rapina.

Cosa puoi dire su L’isola del tesoro? È la storia dei pirati, i pirati faranno i pirati e se sull’isola c’è un tesoro qualcuno lo troverà. Degli uomini moriranno e altri torneranno a casa per raccontare questa storia, come il giovane Jim Hawkins, il nostro narratore, che sembra assolutamente incapace di fare la cosa giusta al momento giusto e che non è proprio un bell’esempio per un ragazzino. Perché allora questo libro viene fatto leggere ai bambini di tutto il mondo? Perché educa, ma non a distinguere il giusto dallo sbagliato, ma ad emozionarsi. Ben miseri sarebbero i coraggiosi bambini senza paura del buio. La sera prima di addormentarsi le canzoni dei loro padri non direbbero nulla, solo combinazioni matematiche di vibrazioni trasmesse dall’aria.

Quindici uomini sulla cassa del morto,

yo-ho-ho, e una bottiglia di rum!

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Punti di vista.

Il ragazzo siede sul divano, il portatile in grembo. Una tazza di latte caldo e miele che ha appena preparato è appoggiata sul pavimento di piastrelle bianche. Dopo una doccia calda e il latte, il ragazzo crede che riuscirà a terminare ciò che aveva iniziato. La sinusite, la stanchezza e la televisione accesa non sono di aiuto. Non è sicuro che quello che stia scrivendo sia la cosa giusta, o se farà solamente un grosso pasticcio. L’alternativa però è il foglio bianco.

Il padre entra dopo una lunga giornata di lavoro e ciò che vede non lascia dubbi: il ragazzo ozia di fronte alla televisione. Un bicchiere sporco, come al solito, vicino al divano. Neanche lui si sarà lavato, da chissà quanti giorni. Parole formali di saluto e poi in cucina, il ragazzo ha bisogno di una bella bistecca. E acqua, bisogna bere tanto dopo la donazione di sangue.

 È difficile, quando un certo paesaggio letterario è stato occupato da tantissimi altri autori, costruire qualche cosa di pregevole e allo stesso tempo originale. I topoi si creano dalle stratificazioni successive di immagini simili e ogni volta che si presenta un nuovo emulo è impossibile non pensare a tutti quelli che lo hanno preceduto. Duelli polverosi tra pistoleri, lunghi viaggi su lunghe strade tutte dritte nel deserto, luridi appartamenti parigini, coppie di amanti divise dalle famiglie nemiche, castelli tenebrosi sulle rive di qualche loch, misteriose distese polari. Ed è così anche per la comune villa vittoriana nella campagna inglese, dei suoi abitanti e delle loro ipocrisie. Leggendo Espiazione (traduzione Susanna Basso, Einaudi, pp. 381, euro 13,00) è impossibile non pensare a tutti quelli che hanno preceduto Ian McEwan su questa strada: la famigerata Virginia Woolf o la meno nota Rebecca West de Il ritorno del soldato, fino alle semplici avventure criminose di Agatha Christie. Tutti accomunati dalla descrizione impietosa ma sensibile dell’apogeo della società aristocratica inglese, un momento prima della rovina. Cosa deve fare un autore per distinguersi? C’è chi è maestro di stile, chi è originale e chi sa tessere trame perfette: McEwan è un regista sublime. È possibile che la stessa storia, nelle mani di un altro scrittore non avrebbe potuto essere resa così bene.

Cecilia e Robert, figlia dei padroni e figlio della domestica. Un classico. A dividerli l’ancor più classica incapacità di comunicare, trasmessa geneticamente di madre in figlia da una classe sociale che ha fatto dell’isolamento la sua ragione di sopravvivenza. Chiusi nel loro mondo fatto di cose semplici e di mancanza assoluta di preoccupazioni materiali. Sarebbe sufficiente tormentarsi tra mezze frasi fraintese e messaggi perduti nelle cene di calde sere d’estate, come nella Austen migliore. Ma non sapete, o almeno io non lo sapevo quando ho cominciato a leggerlo, con chi avete a che fare.

C’è chi dice che McEwan sia cattivo. E cattivo nel modo in cui può esserlo uno scrittore. Basterebbe, sarebbe anzi normale, qualche ostacolo sulla via dell’amore. È noto che a nessuno interessa quello che succede dopo il “e vissero tutti felici e contenti”, sono le difficoltà a farci restare col naso tra le pagine. Tra i due amanti Briony, sorella tredicenne di Cecilia con una fervida immaginazione e un carattere capriccioso, frustrata dall’adolescenza incombente e da una volontà prepotente. Ma non basta. L’accusa che la ragazzina lancia è la più terribile, perché è rivolta verso un innocente e perché è fatta con la sicurezza di chi di dubbi ne ha tanti. Poco importa se trova terreno fertile in una società ricolma di ipocrisia e superficialità. La rovina sarà totale, fino alle fondamenta. E la colpa solo sua. La seconda guerra mondiale non cambierà le carte in tavola e non spazzerà via nessuna ipocrisia, ma porterà solo altro dolore dolore dolore.

L’autore prende la storia, anche semplice, e la scompone, la mescola, la diluisce. Riprende lo stesso fatto, un vaso rotto una macchina due persone che parlano, da tutte le angolazioni possibili, solo per farci capire che alla fine lo sguardo vero è solo uno. Ian McEwan è veramente cattivo ma non per come tratta i personaggi, per le cose brutte e schifose che fa succedere nei suoi libri. Ma per la mancata catarsi. Il sommovimento delle interiora, costato così tanto, in tecnica e abilità narrativa, viene frustrato da quello che può sembrare un banale gioco metanarrativo, attori su di un palco, ma che in realtà è il vero scopo dell’autore: mostrare che la verità non è negli occhi di chi guarda.

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Per mare, a vele spiegate.


arton2388N
on ricordo esattamente a che punto della lunga discesa dal Colle di Cadibona l’ho sentito. Probabilmente non è stato neppure un momento preciso. Mentre la bicicletta correva veloce, curva dopo curva, qualcosa nella composizione chimica dell’aria cambiava. Al 78 % di azoto e al 21 % di ossigeno si era aggiunta una percentuale decisamente alta di promesse e ricordi. Fu solo molti chilometri più avanti, fuori dalla città, su per la strada, che lo vidi. Quasi non me ne accorsi, la salita era proprio una salita e le marce sembravano non bastare mai. Cosciente della sua presenza, rivolsi lo sguardo verso di lui solo alla prima pausa, in cima all’arrampicata. Blu. E nero sotto. Azzurro qui vicino, bianco di schiuma. Se ti piace il mare, se ti piace veramente, se hai una piccola predisposizione genetica, allora lo amerai in ogni suo stato e forma. Ne avrai infinito terrore e inesorabile attrazione. Questo sentimento del sublime, questa tara ereditaria, deve aver spinto alcuni uomini primitivi a spingersi in quella distesa blu e a farsi trasportare dal vento e dalle correnti verso l’ignoto. Il sapere di millenni e millenni di navigazione sono stratificati in un singolo gesto su una barca a vela. Nonostante il progresso tecnologico che addirittura consentirebbe di non usarla più, la vela, alcuni uomini continuano ad andare per mare in questo modo. L’unico momento ancora in cui l’essere umano può sentirsi minimamente vicino al volatile. Veloce sulla superficie scorre lo scafo, ogni piccolo movimento delle vele è controllato da un apparato nervoso fatto di corde, cavi, aste e persone. Queste ali seguono il vento, si fanno portare. Piccolo parassita di forze più grandi di sé, il naviglio a vele è come un seme dotato di intelligenza, è il vento a farlo muovere, ma invece che essere sbattuto a caso, cerca di cogliere sfumature e smagliature per decidere la propria direzione.

Ecco quindi, nell’era delle gigantesche navi da crociera su cui non si sente neppure un minimo rollio, alcuni privilegiati o folli che si sentono ancora padroni/schiavi del mare. Sono queste persone i primi lettori di Patrick O’Brian, pseudonimo di Richard Patrick Russ, ex agente segreto di Sua Maestà e appassionato scrittore di avventure marinaresche. Poi vengono tutti gli altri, innamorati di un sogno di libertà perso nel tempo. Perché così tante persone amano i racconti di mare? Non sono per la maggior parte racconti avventurosi e misteriosi. Anzi. La proporzione giusta è quella di Moby Dick. Un quarto di emozioni e tre quarti di straorzate a dritta, ammainamenti dei controvelacci e lapazzamenti di alberi e pennoni. Un accumulo parossistico di termini marinareschi, indispensabili per tradurre i sottili segnali nervosi che passano dalle parole del capitano alle mani che tirano le corde. Tutto per spiegare la fatica, l’impegno e la precisione che portano delle vele di maestra a riempirsi di vento con quel rumore basso, lo stesso che fanno le lenzuola quando vengono sbattute. Si gioca tutto nell’attesa, di quel momento magico, quando la perfetta sintonia dei movimenti permetterà alla nave di compiere una manovra ardita, per sorprendere il nemico, per salvarsi dalla tempesta.

Primo comando (TEA, pp. 379, euro 8,60) è il primo libro scritto da O’Brian. Il primo in cui piazza sulla scena i suoi due personaggi, maturati chissà dove, ispirati da chissà chi, magari altri agenti dei servizi segreti britannici. Fatti e finiti. Jack Aubrey e Stephen Maturin. Così vitali da sembrare macchiette o caratteristi ma così perfetti nella loro teatralità, nei loro gesti. Sembra di vedere due qualsiasi attori di una serie della BBC, attori shakespeariani che fanno cinema e tv nel tempo libero. Nel perfetto ambiente storico delle guerre napoleoniche la Sophie, piccolo brigantino antiquato, viene tirata a lucido per il primo comando del suo nuovo capitano, e subito a caccia di prede. Navi da guerra francesi, pirati moreschi, navi mercantili che violano il blocco navale, quasi una tranquilla routine. Si torna nel porto, si fa il carico d’acqua, si recupera l’equipaggio ubriaco, si fa di nuovo vela verso il mare. Cosa mai potrebbe succedere di interessante? Sul mare niente resta tranquillo a lungo, la burrasca può seguire la bonaccia. Una nave compare dalle nebbie, un convoglio di navi da guerra armate fino ai denti compare dietro a uno scoglio. La battaglia comincia appena due navi nemiche si avvistano a miglia di distanza, un piccolo movimento può avvantaggiare l’una o l’altra barca. E questo basterebbe a quei relitti genetici che continuano a far vela in mare aperto.

Ma O’Brian coglie e racconta, come se l’avesse vissuta lui stesso con una precisione millimetrica, l’umanità che popola questi pezzi di legno galleggianti, rinchiusa in pochi metri quadri anche per mesi. Le gelosie le invidie le incomprensioni. L’eroismo la solidarietà la fedeltà. L’amicizia. Ecco allora che il libro, la serie di libri, che nascerà dalla penna dello scrittore e dall’incontro tra Aubrey e Maurin sarà per tutti. Meravigliosa.

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Servo dei servi di Dio.

Questo marzo, pochi mesi fa, è stato eletto al soglio pontificio un nuovo papa che, tra le altre cose, è anche: Vescovo di Roma, Vicario di Gesù Cristo, Successore del principe degli apostoli, Sommo pontefice della Chiesa universale, Primate d’Italia, Arcivescovo e metropolita della Provincia Romana, Sovrano dello Stato della Città del Vaticano, Servo dei servi di Dio, Patriarca della Chiesa latina, Capo del Collegio dei Vescovi. A noi, in amicizia, piace chiamarlo France’. Essì, perché lo abbiamo capito tutti appena si è affacciato dal balconcino, che era un tipo diverso. E se non lo avessimo capito subito ci avrebbero pensato le successive notizie dal Vaticano: il papa dice «buongiorno» e «buonasera» come se non ci fosse un domani, va in bicicletta a piedi in metro sul tram a cavalli, legge il giornale tutti i giorni e la Gazzetta al lunedì, beve il cappuccino alla mattina (e ogni volta tutti i francescani presenti se ne vanno alla svelta, perché sono stufi di sentire sempre la solita battuta) si respira ovunque un’aria di volemose bbene (insomma). Papa Francesco piace e in fin dei conti mi piace un po’. Ma con un bel staremo a vedere grosso come piazza San Pietro, perché di cose da fare ce ne sono e un uomo solo, seppur Vicario di Gesù Cristo, è pur sempre un uomo.

Con prontezza di riflessi felina la Biblioteca Editori Associati di Tascabili pubblica in tutta fretta (aprile) un bel libro che subito riempie le librerie di tutta Italia, Autogrill compresi, con la speranza di riempire un po’ le casse della società. Il fatto notevole è che non cerca di farlo con le interviste alla zia anziana, all’ex edicolante di Sua Santità o a Paolo Brosio ma con un libro che merita di essere letto, che ci sia o meno un conclave in ballo.

Il libro è Adriano VII  (Beat, pp. 377, euro 14,90) di Baron Corvo, alias Frederick Rolfe, strano personaggio decadente dal raffinato estetismo e dall’abile penna, morto in miseria a Venezia nel 1913. Inglese, e quindi anglicano di nascita, decise di convertirsi al cattolicesimo per diventare sacerdote. In seguito a misteriose accuse venne espulso dal seminario, cominciando così una vita avventurosa piena di intrighi, scandali, sfarzo e miseria: fu pittore, giornalista, romanziere, fotografo, insegnante, frate solitario e principe rinascimentale. Ma perché ci soffermiamo così tanto sulla sua biografia? Perché George Arthur Rose, il protagonista di Adriano VII, altri non è se non Rolfe stesso. Un inglese cattolico che ha interrotto la carriera ecclesiastica per egualmente oscure ragioni e che, meditando nell’ombra, immagina il giorno della rivalsa. I sogni di grandezza di Rose-Rolfe non si fermano di fronte a nulla e sulla carta il sogno di una vita può diventa facilmente realtà. Ecco che al piccolo prete mancato non basta più ricevere le scuse ufficiali degli alti prelati, non basta essere accolto nuovamente in seno alla Chiesa, la sua fantasia arriva ben oltre: la Provvidenza lo sceglie come successore di Pietro. Un uomo solitario e povero da un giorno all’altro è il nuovo pontefice. Gorge sembra aver meditato a lungo questo momento e comincia a stravolgere dall’interno la struttura stessa della Chiesa Cattolica. Come? Semplicemente comportandosi da buon cristiano. Rinuncia a un abbigliamento ricco, rinuncia ai lussuosi appartamenti vaticani, riapre la finestra che dà su Piazza San Pietro, rinuncia al potere temporale, fa volentieri a meno di tutti i servitori del suo seguito, comincia a girare a piedi per Roma, beve latte e accarezza il suo gatto Flavio, quando non è occupato a scrivere accorate encicliche ai fedeli di tutto il mondo, senza preoccuparsi di chi trama contro di lui. Sembrerebbe che tutto precipiti in una noiosa e sdolcinata agiografia. Ma non è così.

Sì, papa Adriano VII è un papa decisamente particolare e ha delle idee di geopolitica tra il preveggente e il folle. Risolve i conflitti tra cristiani, santifica Giovanna d’Arco e la regina Vittoria, sculaccia le eminenze della curia romana. L’Europa intera è in subbuglio, Russia e Francia sono cadute in mano al caos anarchico socialista e la guerra sembra che debba inevitabilmente estendersi a tutto il continente. Il nuovo papa però non è socialista, anzi. In un epoca di rivoluzioni sociali la sua soluzione sono gli imperi. La grazia divina ha reso migliori alcune persone e a loro spetta il compito di regnare su tutti gli altri. Per prima la razza inglese, poi l’Impero tedesco di Guglielmo II e infine un neonato Impero del Sud, guidato dalla luminosa guida di sua maestà Vittorio Emanuele III (Cosa? Proprio quel Vittorio Emanuele? Tra tanti Re d’Italia proprio il più insignificante? Mah).

Il pensiero di Frederick Rolfe permea ogni pagina di questo libro, Adriano VII è anarchico e conservatore, amorevole ma inflessibile nelle decisioni, nazionalista al limite del razzismo, esteta raffinato al limite (o forse ben oltre) dell’omosessualità. Il papa fa tutto per Amore, perché l’Amore è bellissimo. Questo libro è un eccezionale agglomerato di contraddizioni, il sogno di gloria di un dandy che spiega come il “mestiere” di papa dovrebbe essere. Che vi farà pensare a cosa papa Francesco fa, non fa, potrebbe fare, farà, non vuole fare. Guidato dalla Provvidenza, s’intende.

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