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Un gran bastardo.

Sono seduto in giardino, i gatti neri che si aggirano nel mio giardino dormicchiano a ragionevole distanza, non si avvicinano se non gli do da mangiare. Penso a un modo per iniziare la recensione. Citazione dal libro? Entrata ad effetto? Scoreggia rumorosa? Scelgo il buon vecchio manoscritto ritrovato. O una roba del genere.

Qualche settimana fa ho portato i nonni alla casa in montagna. Momentaneamente senza letture e in realtà nel pieno di una bonaccia tremenda, mi fermo nella piccola ma fornitissima libreria del paese. Nonostante sia a più di mille metri sldm il negozio è ricolmo di libri da spiaggia. Tutte le sfumature possibili, edizioni imbarazzanti di vecchi classici ripudiati dagli stessi autori, tutta la scelta migliore dei libri preferiti da mio nonno (esoterismo, medioevo, storia, viaggi, fiori, fauna, armi….etc.etc.), libri di Vespa e di Veltroni. È in realtà uno dei posti in cui si fanno gli affari migliori. In mezzo a tutta la gente che vuole comprare l’ultimolibrodichicavolohascrittol’ultimolibrodaleggere, nessuno nota le cose belle e la libraia è costretta a far crollare i prezzi. Ho controllato. Un Meridiano della Dickinson ancora incartato con l’80% di sconto. Mentre giravo con le mani in tasca, ho adocchiato Tropico del Cancro (Mondadori, pp. 333, euro 9,50), di Henry Miller. Non avevo la più pallida idea di chi fosse, ma il titolo mi sembrava intrigante e mi sembrava di averlo già sentito. Deve avere qualche cosa a che fare con la geografia. Pagai un onesto Oscar Mondadori la metà del prezzo di copertina e mi buttai senza troppo entusiasmo nella lettura.

Da subito il libro appare per quello che prometteva: il racconto autobiografico di uno scrittore americano a Parigi negli anni ’30. Un baraccone di relitti umani internazionali che campano correggendo bozze o scroccando cene ad amici e conoscenti. Una selva putrescente di prostitute puttane mignotte escort principesse russe francesi pazze truffatrici. La più meravigliosa collezione di malattie veneree che possiate immaginare, ho colmato la mia ignoranza in materia e ora so cos’è lo scolo e a cosa serve un enteroclisma. Non indagate. Vino, vino cattivo, vino buono, vino molto molto cattivo, cene con champagne e caviale dopo mesi passati a pane secco. Puzza, freddo, pidocchi, cimici, presunti artisti che scrivono il romanzo del secolo. Una prosa impeccabile ricolma di parolacce e più che allusioni: ogni due pagine una chiavata, ogni due righe un cazzo e una fica. Di nuovo puttane, tutte le donne sono puttane. Ebrei, sporchissimi ebrei bastardi che fanno gli sporchissimi ebrei bastardi. I negri sono negri, ci mancherebbe, i francesi bastardi e finocchi, gli americani, conciati peggio di tutti.

Tra questi cadaveri si aggira tronfio e soddisfatto Henry Miller, Joe per gli amici, Endri per quelli indiani. Non un mero osservatore, un guardone timoroso, ma un protagonista della ridda, pronto a buttarsi nell’orgia, a rubare soldi agli amici, a scoparsi le loro donne, a farsi mantenere da delle mantenute, a farsi un altro giro di Pernod. Inframezzati da caotiche esercitazioni surrealiste piene di cani che ingoiano la città piena di dita color zafferano, gli episodi della vita del caro Endri ci scorrono sotto gli occhi, da un appartamento malconcio all’altro, da un paio di gambe all’altro, da un insulto all’altro. Pagine piene di Baudelaire, Rimbaud, Verlaine, Dante e Shakespeare nei loro momenti più fetenti, cose macabre e sensuali. E ovviamente Whitman.

Miller è il bambino col bastone che scava il tronco marcio, da cui può uscire solo un brulicante esercito di larve. Episodi senza connessione, se non le vie di Parigi, romanzo senza trama, se non la vita dell’autore. Questa è infatti e in gran parte è anche vera, la vita di Henry Miller scrittore e sbandato a Parigi negli anni ’30. Mentre sua moglie si prostituiva a New York per mantenerlo. Un gran bastardo. Ma un buono scrittore.

Sicuramente meglio di me, il geniale autore della lunghissima e meravigliosa post-fazione (quasi meglio del libro stesso, oserei dire), spiegherà quindi perché questo è un libro da ricordare:

“Niente prediche, solo la verità soggettiva. E in base a questi criteri, evidentemente, è ancora possibile scrivere un buon romanzo. Non necessariamente un romanzo edificante, ma degno di essere letto e suscettibile di essere ricordato poi. […] Anche se la mia sarà un’esagerazione, si ammetterà forse che Miller è uno scrittore fuori dal comune, degno di qualcosa di più di una semplice occhiata; e in fin dei conti, è scrittore completamente negativo, non costruttivo, amorale, un mero Gionata, un passivo accoglitore del male, una specie di Whitman tra i cadaveri.”

– G. Orwell

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Il Grande Gatsby.

Devo ammettere che, prima di vedere il film, non avevo ancora ben chiaro cosa scrivere in questa recensione. Il libro era carino, scritto bene, ben composto, anche avvincente se vogliamo. Un classico della letteratura americana, elogiato, sulla bocca e sulla penna di tutti. Anche nei libri di storia: “Prima della crisi del ’29…come è ben descritto…nella famosa opera di…lusso sfrenato…costumi rilassati”. Ma nulla più. Niente che meritasse di essere ricordato. Devo ammettere che ero rimasto quasi deluso quando il libro dell’età del jazz mi aveva lasciato orfano del jazz. Era una storia, raccontata bene, ma una storia quasi fine a se stessa, senza picchi lirici di abbacinante bellezza, senza abissi di espressività materica. Sono arrivato a chiedermi perché il libro fosse diventato così famoso. Forse era solo un’altro esempio di come gli americani riescano a conservare, valorizzare ed esaltare qualsiasi sciocchezza appartenga alla loro storia, come il tacchino dei Padri Fondatori e il ciliegio di Washington. Un nostalgico sguardo verso un passato che sembra sempre più luminoso di oggi. Forse era solo un’altro esempio di come funzioni bene l’ufficio promozionale della Warner Brothers.

Eppure qualcosa c’è. Il sospetto che cresceva man mano che passava il tempo e riflettevo, venne confermato ieri sera. D’accordo con la mia ragazza, dopo aver letto entrambi il libro, siamo andati insieme alla prima del film. Ecco, che dalle profondità della memoria dove erano state lasciate, riemergono, col sottofondo di Jay-Z, le eccitanti, spassoseSOPRALERIGHEESALTANTI! F E S T E ! Gente strafatta e ubriaca che balla in una sequenza zoomata, gente che balla a testa in giù in un’altra sequenza zoomata. Divertimento assurdo, si intravede pure un barman che sembra preso da una qualsiasi discoteca milanese, proprio in quel momento magico in cui sta preparando gli sciottini.

Ma ecco, in quel momento ho capito. Io, e Baz Luhrmann il regista, eravamo inciampati nello stesso, identico errore. Anche lui lo aveva capito. Probabilmente, appena finito di girare il film, nella sua vasca idromassaggio, mentre leggeva per la prima volta il romanzo. Sul suo volto si dipinse lentamente il terrore: ommioddiochecosahoffatto. Ma era troppo tardi. Inutilmente cercò di rinviare il film sostenendo che se Tarantino aveva messo il rap in Django allora lui voleva più rap. Ma aveva già Jay-Z. E non si può avere più rap di Jay-Z. Non poté quindi impedire l’inevitabile. Forse è per quello che il film è uscito con così tanto ritardo.

Entrambi e chissà quanti altri, avevamo pensato di trovare il luccichio delle pailettes, il tintinnio del ghiaccio, la sfrenata velocità del jazz nelle pagine di Fitzgerald, ma non le avevamo trovate. C’era un arido paesaggio, sepolto sotto le ciminiere e le montagne di carbone della valle delle ceneri, sullo sfondo i pinnacoli dei grattacieli di New York. Una serie di personaggi ben delineati, descritti con cura, poche pennellate, due battute e loro già vivono di vita propria nel mondo di carta. Tutti perfetti nel loro esistere letterario ma banali nel loro essere umani. Nessuno mostra di godersi veramente la festa. Tutti bevono, cantano e ballano, ma per coprire l’assordante frastuono della propria infelicità e solitudine. Solo uno emerge, svettando su tutti gli altri. L’uomo di cui il libro racconta la storia: Jay Gatsby. Il Grande.

Con un tono leggero, quasi opaco, partecipe ma mai schierato, Francis Scott Fitzgerald racconta con spietata leggerezza e quasi noncuranza la straordinaria esistenza di un individuo simile, in grado di esistere solo nei libri. Fitzgerald scrive così bene da far sembrare sciocche le cose che dice. Nato dal nulla, incarnazione del sogno americano, Gatsby organizza grandiose feste per attirare l’amore di gioventù, che aveva perso a favore di un più ricco partito. Ma lui è più di un’incarnazione del sogno, lui vive nel sogno.

Il grande Gatsby (Einaudi, pp. 162, euro 8,50) è un libro breve, non c’è molto altro da dire. Ma mentre lo stavo leggendo per la prima volta ho sbagliato a prendere la metro TRE volte di seguito. Lo rileggerò per capire com’è potuto succedere. È un buon libro, quando e se lo leggerete, scordatevi il jazz, per favore. Vi resterà così per sempre l’immagine, il ricordo di una persona, quasi l’aveste conosciuta di persona. Con affetto lo difenderete dalle accuse, quasi vergognandovi di non aver capito prima chi era e di aver creduto anche solo per un attimo che potesse essere un bugiardo.

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