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Brevi miserie navali e sentimentali.

coverSono qui nella lavanderia, il famoso luogo mistico che favorisce la meditazione e la riflessione. Le lavatrici ruotano silenziose risciacquando gli stracci sporchi. Dalle grate esterne sale una densa nuvola di vapori che viene su dagli scarichi delle asciugatrici, dalle bocche incorniciate di granito di una vecchia cantina o carbonaia. La nebbia isola il piccolo locale dal mondo esterno, che irrompe comunque ogni volta che un cliente entra accompagnato dal fragoroso scampanellio sovrastando il rifrangersi della biancheria nella centrifuga che fa

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BUONGIORNO! COME ANDIAMO!? SANTINI GIUSTO? È QUI TUTTO PRONTO SA PERO’ QUEL COLLO LI PIU’ DI TANTO NON SI PUO’ FARE ARRIVEDERCI ME LO SALUTI TANTO!

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Nonostante la lavanderia sia automatica i padroni sono sempre lì. Attivissimi sorridono aiutano puliscono stirano cambiano ridono salutano compatiscono consigliano matronali. Perfetto esempio di una piccolissima borghesia brianzola che aveva dei locali sfitti e si irritava a sentire il capitale immobilizzato, nonostante sul tavolinetto davanti alle poltroncine ci siano Internazionale e L’Espresso (adesso c’è anche il Dipiù che sennò la clientela fascia vecchia signora non ha niente da leggere). Per fortuna non è come la piccolissima borghesia francese, che è quasi un tòpos tutto d’oltralpe, vedove raggrinzite che risparmiano centesimo su centesimo ritirandosi dalla propria vita e prosciugando quella degli altri, che apprezzano libri fastidiosi come la Dama delle Camelie, dove si parla c o s t a n t e m e n t e di soldi, che tanto lei alla fine crepa e il capitale resta intatto. Come i personaggi sudici e squallidi incontrati da Cèline nei suoi vagabondaggi o quelli raccontati spesso dall’abile penna di Georges Simenon. Come i Pitard, schiatta di questo tipo, che da il nome a un breve romanzo del suddetto famoso autore di libri gialli.

C’è un capitano coraggioso di nome Emile Lannec, che dopo aver servito sulle navi degli altri invece dei lupini si compra la nave tutta. C’è la moglie, che si ostina a seguirlo nel suo primo viaggio da capitano e proprietario, per tutelare gli interessi di famiglia, che ha fatto da garante per il naviglio. Eh si, perché la famiglia, i Pitard, sono tutta una cosa sola fatta di zie e figli ignavi e nipoti disabili che si muove quasi come un organismo unico e teme che anche un matrimonio possa danneggiare la stabilità finanziaria dei risparmi messi da parte con tanta sofferenza e tanto godimento. I Lannec invece non sono così, no, o meglio lui non è così. È un capitano del Mare del Nord, dove le onde sono più alte dei condomini posseduti dai Pitard e dove ogni giorno può essere l’ultimo e devi dare tutto te stesso per salvare la barca, gli uomini, la vita. Tra i flutti potenti del “polmone marino” che fonde aria e acqua in un unica sostanza, si scontrano entità superiori alle volontà delle singole persone, capaci di scuotere anche i sentimenti più profondi. Il sospetto e l’inganno si nascondono tra mezze frasi e biglietti anonimi.

Simenon scrive breve e conciso, come solo lui sa fare e quindi non vedo perché io debba dilungarmi più di tanto a raccontarvi delle grosse mani di Emile o della figura efebica ma rigida di Mathilde e della loro sfida tra le onde del mare in tempesta, della miseria e della follia umana. Un libro che si legge in pochissimo tempo, per rilassarsi da letture più impegnative, ma con la forza potente di una tragedia, dipinta coi colori scuri e grigi del Nord. Solo che non ci sono grandi eroi e tutto quanto, nell’Atlantico, sembra ancora più piccolo e misero.

Fuori piove lentamente una pioggia oleosa, il cielo è grigio mentre il sole tramonta. Tutte le lenzuola sono asciutte, si torna a casa. Il campanello strilla mentre esco attraverso la nebbia.

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Storie di pirati.

Quindici uomini sulla cassa del morto,

yo-ho-ho, e una bottiglia di rum!

isolatesorocopertinaCi sono storie che, se ben raccontate, vivono per sempre. Nascono nella mente dell’autore, passano comodamente la vita nel loro mondo di finzione aspettando che qualche lettore le faccia rivivere nella sua, di mente. Ce ne sono altre invece, che per qualche strano motivo cominciano a fuoriuscire a fiotti dalla fantasia eccitata dei lettori, smettono di esistere solo tra carta e inchiostro (o bit e pixel) e prendono vita propria. Passano di media, vengono adattati, ridotti, illustrati. Ne fanno versioni per bambini, musical con o senza i Muppet, serie televisive e film, canzoni e cartoni animati. Si arriva fino al punto che la loro presenza nell’immaginario universale è così pregnante da far dimenticare le proprie origini. Una di queste storie è L’isola del tesoro (BUR, pp. 319, euro 9.90, traduzione Michele Mari).

Ho letto il libro, il libro vero, quando ero “grande” ormai: l’ho finito poco più di una settimana fa, grazie a un amico. Ma non potrei dire di non sapere la storia dentro al libro, che mi era giunta agli occhi e alle orecchie nei modi più diversi. E uditivo è il mio primo ricordo: il mio papà, quando ero piccolo, ogni tanto cantava quei versi che aprono l’articolo, forse per farci addormentare o forse perché faceva piacere a lui, solo quei due versi, variati e ripetuti. È la canzone dei pirati, che tutti conoscono e che segna il loro destino di bucanieri, fuorilegge al di là di qualsiasi regola, e di qualsiasi ragionevolezza. È la canzone che canta Long John Silver, che canta il capitano Flint, che canta Billy Bones, che canta il vecchio Ben Gunn. Solo che sulla carta – ovviamente – la melodia non c’era: la maledizione di chi nei romanzi mette delle canzoni o delle vecchie filastrocche. Io invece, fortunato, ero l’esclusivo possessore di una serie di note profonde e misteriose, una piccola storia a sé stante, col brivido della bara e l’incognita dell’alcool di contorno.

Ma la mia era solo una decorazione, un bellissimo ghirigoro che fa da cornice a un quadro: il meglio stava sulla tela. Se l’opera di Robert L. Stevenson è diventata uno dei libri letti dai ragazzi di tutto il mondo il merito è tutto suo, non di una canzone. Raccontare non è affatto affar semplice e questo libro è l’eterno rimprovero a chi lo pensa: i personaggi e le storie possono essere semplici ma devono essere profonde. Profondità che si può dare con due righe come con cento pagine e non è sinonimo di complessità. Non scriverò mai che il Capitano Smollett era un perfetto gentiluomo britannico, ligio al dovere ed educato; ma gli farò pronunciare queste parole sotto una pioggia incessante di piombo, mentre un cannone gli viene puntato addosso: «Signor Trelawney, vorreste per cortesia abbattermi uno di questi uomini? Hands possibilmente». Sembra facile ma non lo è, serve una capacità immaginativa superiore per creare personaggi così belli e ben fatti da poter vivere al di fuori del mondo di carta del libro.

Ed ecco allora sfilare sotto i nostri occhi i componenti della ciurma: il dottor Livesey, inamidato, parruccato e razionale prototipo del dottor Maturin, il rigido capitano Smollett e l’irascibile Sir Trelawney con sopracciglia folte e nere e un irruenza degna del capitan Haddock di TinTin. Il reietto Ben Gunn, novello Robinson Crusoe che quasi è uscito pazzo dalla lunga solitudine, salta come una scimmia e ulula le sue vecchie canzoni nella foresta, Israel Hands e gli altri marinai e bucanieri della ciurma, sporchi ubriachi e ringhiosi, con quella folle luce negli occhi. E poi lui, il cuoco di bordo, Long John Silver. Che senso ha nascondere che lui in realtà è un pirata e il capo dell’ammutinamento? La sua fama corre per i sette mari e supera quella di tutti gli altri, persino del suo creatore. Long John è un pirata, gli manca una gamba ma in compenso ha un pappagallo e la battuta sempre pronta. Lui è il pirata, l’avventuriero, il voltagabbana, il ribelle, il fuorilegge, da tutte le leggi, persino da quelle dei suoi stessi compagni di rapina.

Cosa puoi dire su L’isola del tesoro? È la storia dei pirati, i pirati faranno i pirati e se sull’isola c’è un tesoro qualcuno lo troverà. Degli uomini moriranno e altri torneranno a casa per raccontare questa storia, come il giovane Jim Hawkins, il nostro narratore, che sembra assolutamente incapace di fare la cosa giusta al momento giusto e che non è proprio un bell’esempio per un ragazzino. Perché allora questo libro viene fatto leggere ai bambini di tutto il mondo? Perché educa, ma non a distinguere il giusto dallo sbagliato, ma ad emozionarsi. Ben miseri sarebbero i coraggiosi bambini senza paura del buio. La sera prima di addormentarsi le canzoni dei loro padri non direbbero nulla, solo combinazioni matematiche di vibrazioni trasmesse dall’aria.

Quindici uomini sulla cassa del morto,

yo-ho-ho, e una bottiglia di rum!

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La sfinge dei ghiacci.

Un giovane ragazzo, figlio di un avvocato della provincia francese, tentò una volta di scappare di casa per imbarcarsi su una nave mercantile. Come Gordon Pym prima, come Conrad dopo. Lo spirito del mare lo chiamava, quello spirito che ti prende allo stesso modo tra le pagine dei libri e sulle scogliere di fronte alle onde. Scappò di notte dalla grande casa calda per vedere luoghi che conosceva solo di nome. Corruppe il capitano per farsi imbarcare, preparò con cura il suo bagaglio, pronto ad abbandonare per sempre il paese dove era nato. Il padre lo ripescò adirato qualche giorno dopo, in un porto poco distante. Non provò più a scappare di casa. Cercò quell’avventura che tanto bramava tra le pagine asciutte dei libri, studiò e si laureò in Lettere e cominciò a scrivere poesie. Ma il padre non condivideva, lo ripescò di nuovo dai suoi libri e lo costrinse a concludere gli studi di Legge. E lui obbedì. Come sempre. Divenne agente di cambio, si sposò con una donna facoltosa e si avviò a trascorrere una tranquilla esistenza borghese nel paese più borghese del mondo.

Non proprio la più avvincente biografia che abbiate letto, non è vero? Hemingway, Dumas, Conrad, scrissero libri interi sulle imprese che li resero uomini e scrittori. Ma il ragazzino obbediente non visse mai le sue avventure. Chiuso tra conti e scartoffie burocratiche si dovette accontentare di sognarle. Come si sa però, i sogni a volte sono più vividi della realtà.

Un bel giorno decise di raccontare a tutti le sue fantasie di bambino e trovò un editore che pubblicò i suoi viaggi straordinari, divenne ricco e famoso, tutti i ragazzini che non potevano partire per i mari del Sud leggevano i suoi libri. Jules Verne aveva però un grosso debito, con Edgar Allan Poe. Quando nessuno ancora parlava di libri d’avventura, lui aveva portato i lettori aldilà delle terre conosciute, nel biancore assoluto dell’Antartide. Lui aveva creato Gordon Pym, il primo di tanti ragazzini avventati che affronteranno i pericoli del mare, a lui doveva lo spirito che infiammava i suoi libri.. Estinse il debito, a modo suo.

La sfinge dei ghiacci (Mursia, pag. 320, euro 13,30) è il seguito delle Avventure di Gordon Pym. O meglio. In questo racconto Le avventure di Gordon Pym smettono di essere solo un libro e diventano la realtà. Ma come? Non era solo un romanzo? Questo è quello che credevamo tutti, dopo i giochini letterari di Poe, ed è quello che credeva anche il signor Jeorling, giovane e benestante geologo in cerca di un passaggio per le Falkland. Una misteriosa coincidenza porterà la goletta Halbrane su cui si è imbarcato a cambiare rotta, direzione Sud. Il capitano dell’Halbrane è infatti Len Guy, fratello di colui che guidò undici anni prima Gordon Pym tra i ghiacci. Il legame di sangue è più forte di ogni ragionevolezza e porterà il coraggioso equipaggio dove nessun altro, forse, è mai stato prima. Una lunghissima scia di indizi rende sempre più simile alla realtà il fantasioso resoconto di Pym. Verne ruba a mani basse personaggi e descrizioni, titillando il lettore avveduto, sussurrandogli quanto sia bravo a svelare i misteri della trama. Incoraggiandolo a riflettere su quanto dovrà aspettarsi da una spedizione che segue un diario allucinato.

Ma Verne è cresciuto, è un positivista, un fedele discepolo del pensiero razionale. Non può giustificare le straordinarie scoperte raccontate da Poe-Pym. Il suo è un mondo razionale, fatto di conti e di statistiche, di cartine precise e rilevazioni geologiche, latitudine e longitudine sono indicate con precisione e una cartina dettagliata mostra il percorso. Il bambino è pur sempre diventato un agente di cambio. Ma questo non rende la trama meno avvincente. La realtà non è meno avventurosa della fantasia. Verne riporta il folle viaggio tra i ghiacci sui binari della credibilità. Una cosa però ha imparato, è il mistero dell’ignoto ad attirare il lettore nell’Antartide, finché ci sarà qualcosa di vuoto, uno spazio bianco di neve sulla mappa, lui vorrà sapere cosa c’è. E l’autore tiranno è libero di accontentarlo o meno. Svelare o meno dalle nebbie la Sfinge dei ghiacci.

Io lo ripeto: come mai un uomo di buon senso avrebbe acconsentito a discutere seriamente su quegli avvenimenti? Nessuno, a meno di aver perso la ragione o di essere fissato su quel caso speciale, come lo era Len Guy – lo dico per la decima volta – nessuno poteva vedere nel racconto di Edgar Poe altro che un’opera nata dalla sua fervida fantasia.

Tra misteri magnetici e ammutinamenti, iceberg assassini e terremoti mostruosi, la scienza di Verne può competere con la fantasia di Poe. Ma l’omaggio al maestro non è un’inutile spiegazione, è un mistero più fitto. Le domande vere risuoneranno a vuoto in eterno. Ma la voglia di saltare su una nave per cercare le risposte, quella rimarrà la stessa di un tempo.

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Un mare di avventure.

Che cos’è un genere? Sostanzialmente un’etichetta nuova che appiccichiamo su uno scatolone bello grande dove abbiamo messo un po’ di libri che magari hanno un particolare in comune. Per alcuni motivi che ora sarebbe lungo spiegare, si è deciso che ci sono i racconti dell’orrore, che fanno spavento, i romanzi d’avventura che manco a dirlo, sono avventurosi e poi i gialli, dove si risolve un crimine. Poi c’è chi dice che ci siano i thriller, che fanno spavento come i racconti dell’orrore ma che non sono proprio così…

Ma di cosa sto scrivendo? Ingarbugliarsi in discorsi teorici all’inizio di una recensione è quanto meno sconsigliabile. Ma che fare? Il libro di oggi sfugge da una parte e dall’altra, come una saponetta bagnata. Non si lascia afferrare. Certo, potrei scrivere tranquillamente che si tratta di un libro di “avventure per mare”. Ma mancherebbe qualcosa, nella definizione di questa massa multiforme eppure perfettamente organizzata. Sento, si, credo proprio di sentirlo…lui, l’autore. Ride. Una risata sabbiosa, quasi una tosse, che arriva da un luogo lontano e chiuso, dove non c’è spazio per l’eco. I secoli cominciano ad accumularsi sopra alle assi di legno marcito della sua bara, ma sono sicuro che lui, proprio ora, stia ridendo. Di gusto. Sarebbe una risata cristallina e piena di gioia, se non fosse per le condizioni non proprio presentabili del suo cadavere, costretto in pochi metri per l’eternità. Ride perché ha raggiunto il suo scopo: mi ha portato a spasso per i mari, tra tempeste e ammutinamenti, fino ai mari inesplorati dell’Antartico. Mi ha condotto per mano, dosando con sapienza artigianale una quantità incredibile di dettagli inutili con avvenimenti inverosimili. Ha stuzzicato la mia curiosità, la mia voglia di scoprire fino a che punto potesse arrivare la sua immaginazione. E poi mi ha abbandonato. Solo, disperso. Come un naufrago tra le pagine. Era il suo obbiettivo fin dall’inizio e ora ride.

Le avventure di Gordon Pym (Feltrinelli, pp. 229, euro 8,50) è il libro. Il signor Edgar Allan Poe di Richmond, Virginia, è l’uomo che ride sottoterra. Ci troviamo di fronte senz’altro a un oggetto curioso: è l’unico romanzo propriamente detto scritto dal signor Poe; è stato letto e ha influenzato autori diversissimi come Melville e Verne; è tra i primi a spingere lo sguardo del lettore verso il Polo Sud; potrebbe essere tranquillamente definito “postmoderno”, se solo non fosse stato pubblicato ancora prima che ci fosse qualcosa da definire “moderno”.

L’autore gioca con la sospensione dell’incredulità fin dal titolo, che nell’originale era The narrative of  Arthur Gordon Pym of Nantucket, specificando quindi che si tratta di un racconto, e non di un resoconto affidabile. Qui cominciano i problemi. Edgar Allan Poe autore introduce il romanzo con una nota scritta da Gordon Pym personaggio, che racconta di aver affidato a Edgar Allan Poe personaggio la pubblicazione della sua storia, senonchè da un certo punto in poi sarà Gordon Pym autore a continuare il racconto delle avventure di Gordon Pym personaggio. A questo punto a me faceva già male la testa. Queste premesse vengono però fatte passare in secondo piano dall’abilità dell’autore che ci fa vivere un’ottima avventura marinaresca, condita da una buona dose di orrore ai limiti dello splatter, di ansia claustrofobica e di rapidi colpi di scena ai limiti della credibilità. Il giovane Pym viene sballottato da una situazione pericolosa all’altra, ma sono i rischi del mare. Abbordaggi, ammutinamenti, navi fantasma e naufragi sono all’ordine del giorno nella letteratura del genere. Aggiungete personaggi grotteschi, come DIrk Peters, mezzosangue indiano dalla forza straordinaria ma con una curiosa passione per le parrucche di pelliccia. Come nei viaggi in mare alla tempesta può seguire la bonaccia e da un certo punto il racconto si trasforma in un diario di bordo dettagliato al millimetro che indica con precisione latitudine longitudine e il numero di pelli di foca raccolte nella stagione di caccia. La noia. Perché? Per preparare i lettori a tutto quello che ci sarà dopo. Lo spazio libero nella mappa, che attirava Conrad come un magnete, viene riempito dalla più sfrenata fantasia di Poe. Folli idee antartiche impresse sulla carta senza senso logico, l’immaginazione riempie le fredde regioni polari di allucinazioni e scoperte incredibili. La tensione viene portata al limite, la pagina scorre veloce e inesorabile fino alla fine più sorprendente che possiate immaginare. Cosa? Cosa si nasconde dietro la cortina di nebbie? E quando anche voi avrete letto l’ultima frase e ciò che la segue, la vostra mente si riempirà di inutili domande, a cui è impossibile rispondere. E la sentirete, la risata. Non il riso impastato di un alcolizzato ma la genuina espressione di gioia di un gentiluomo del Sud che vi ha giocato un bello scherzo, mentre sedevate alla sua tavola. E riderete anche voi.

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Nota del recensore.

A pagina 235 di Le avventure di Gordon Pym, nella postfazione scritta dal traduttore e curatore Davide Sapienza si può leggere:

E come non ricordare che Howard Phillips Lovecraft, nel 1931, scrisse Le montagne della follia, la continuazione di Gordon Pym.

Non è vero. Come si può facilmente trovare anche sulla pagina di Wikipedia dedicata al libro, si spiega come Lovecraft abbia solamente tratto ispirazione da alcuni brani del romanzo di Poe. L’unico libro che può essere definito la continuazione o, in italiano, il seguito di Le avventure di Gordon Pym è stato invece scritto da Jules Verne ed è La sfinge dei ghiacci, che sto leggendo. A questo punto viene da chiedersi perché un curatore che abbia perso un po’ del suo tempo per cercare il nome completo di H. P. Lovecraft non abbia controllato che il suo riferimento fosse corretto. Viene da chiedersi perché abbia fatto un’affermazione del genere. Viene da chiedersi perché sia stato scelto questo curatore per Poe e se costui abbia effettivamente una competenza specifica dell’autore americano e dei suoi eredi di qua e di là dell’Atlantico. Viene da chiedersi. Ma siccome al vostro recensore di fiducia manca la lettura di Alle montagne della follia, risposte fino ad allora non ce ne saranno, almeno su Muninn. Per quanto ne capisco però il resto della traduzione non sembra malvagio, nonostante il seme del dubbio sia stato piantato. Se qualche appassionato lettore di Poe conosce un’edizione migliore si faccia avanti, sarà ricompensato.

Se volete saperne di più su La sfinge dei ghiacci leggete QUI.

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Per mare, a vele spiegate.


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on ricordo esattamente a che punto della lunga discesa dal Colle di Cadibona l’ho sentito. Probabilmente non è stato neppure un momento preciso. Mentre la bicicletta correva veloce, curva dopo curva, qualcosa nella composizione chimica dell’aria cambiava. Al 78 % di azoto e al 21 % di ossigeno si era aggiunta una percentuale decisamente alta di promesse e ricordi. Fu solo molti chilometri più avanti, fuori dalla città, su per la strada, che lo vidi. Quasi non me ne accorsi, la salita era proprio una salita e le marce sembravano non bastare mai. Cosciente della sua presenza, rivolsi lo sguardo verso di lui solo alla prima pausa, in cima all’arrampicata. Blu. E nero sotto. Azzurro qui vicino, bianco di schiuma. Se ti piace il mare, se ti piace veramente, se hai una piccola predisposizione genetica, allora lo amerai in ogni suo stato e forma. Ne avrai infinito terrore e inesorabile attrazione. Questo sentimento del sublime, questa tara ereditaria, deve aver spinto alcuni uomini primitivi a spingersi in quella distesa blu e a farsi trasportare dal vento e dalle correnti verso l’ignoto. Il sapere di millenni e millenni di navigazione sono stratificati in un singolo gesto su una barca a vela. Nonostante il progresso tecnologico che addirittura consentirebbe di non usarla più, la vela, alcuni uomini continuano ad andare per mare in questo modo. L’unico momento ancora in cui l’essere umano può sentirsi minimamente vicino al volatile. Veloce sulla superficie scorre lo scafo, ogni piccolo movimento delle vele è controllato da un apparato nervoso fatto di corde, cavi, aste e persone. Queste ali seguono il vento, si fanno portare. Piccolo parassita di forze più grandi di sé, il naviglio a vele è come un seme dotato di intelligenza, è il vento a farlo muovere, ma invece che essere sbattuto a caso, cerca di cogliere sfumature e smagliature per decidere la propria direzione.

Ecco quindi, nell’era delle gigantesche navi da crociera su cui non si sente neppure un minimo rollio, alcuni privilegiati o folli che si sentono ancora padroni/schiavi del mare. Sono queste persone i primi lettori di Patrick O’Brian, pseudonimo di Richard Patrick Russ, ex agente segreto di Sua Maestà e appassionato scrittore di avventure marinaresche. Poi vengono tutti gli altri, innamorati di un sogno di libertà perso nel tempo. Perché così tante persone amano i racconti di mare? Non sono per la maggior parte racconti avventurosi e misteriosi. Anzi. La proporzione giusta è quella di Moby Dick. Un quarto di emozioni e tre quarti di straorzate a dritta, ammainamenti dei controvelacci e lapazzamenti di alberi e pennoni. Un accumulo parossistico di termini marinareschi, indispensabili per tradurre i sottili segnali nervosi che passano dalle parole del capitano alle mani che tirano le corde. Tutto per spiegare la fatica, l’impegno e la precisione che portano delle vele di maestra a riempirsi di vento con quel rumore basso, lo stesso che fanno le lenzuola quando vengono sbattute. Si gioca tutto nell’attesa, di quel momento magico, quando la perfetta sintonia dei movimenti permetterà alla nave di compiere una manovra ardita, per sorprendere il nemico, per salvarsi dalla tempesta.

Primo comando (TEA, pp. 379, euro 8,60) è il primo libro scritto da O’Brian. Il primo in cui piazza sulla scena i suoi due personaggi, maturati chissà dove, ispirati da chissà chi, magari altri agenti dei servizi segreti britannici. Fatti e finiti. Jack Aubrey e Stephen Maturin. Così vitali da sembrare macchiette o caratteristi ma così perfetti nella loro teatralità, nei loro gesti. Sembra di vedere due qualsiasi attori di una serie della BBC, attori shakespeariani che fanno cinema e tv nel tempo libero. Nel perfetto ambiente storico delle guerre napoleoniche la Sophie, piccolo brigantino antiquato, viene tirata a lucido per il primo comando del suo nuovo capitano, e subito a caccia di prede. Navi da guerra francesi, pirati moreschi, navi mercantili che violano il blocco navale, quasi una tranquilla routine. Si torna nel porto, si fa il carico d’acqua, si recupera l’equipaggio ubriaco, si fa di nuovo vela verso il mare. Cosa mai potrebbe succedere di interessante? Sul mare niente resta tranquillo a lungo, la burrasca può seguire la bonaccia. Una nave compare dalle nebbie, un convoglio di navi da guerra armate fino ai denti compare dietro a uno scoglio. La battaglia comincia appena due navi nemiche si avvistano a miglia di distanza, un piccolo movimento può avvantaggiare l’una o l’altra barca. E questo basterebbe a quei relitti genetici che continuano a far vela in mare aperto.

Ma O’Brian coglie e racconta, come se l’avesse vissuta lui stesso con una precisione millimetrica, l’umanità che popola questi pezzi di legno galleggianti, rinchiusa in pochi metri quadri anche per mesi. Le gelosie le invidie le incomprensioni. L’eroismo la solidarietà la fedeltà. L’amicizia. Ecco allora che il libro, la serie di libri, che nascerà dalla penna dello scrittore e dall’incontro tra Aubrey e Maurin sarà per tutti. Meravigliosa.

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“Avete visto la balena bianca?” I

Il mare. Un’enorme distesa di acqua. L’oceano ricopre 2\3 della superficie terrestre. Da millenni l’uomo è attirato verso queste sterminate praterie di onde. Da quando esiste la letteratura, e da quando l’uomo ha appreso la capacità di raccontare storie, si parla, si scrive, del mare. Un giorno vorrei provare. Imbarcato su una nave mercantile (ovviamente non disdegno la vela, chi mi vuole regalare un viaggio si faccia pure avanti). Probabilmente è un sentimento molto ingenuo, cercare l’avventura per mare, come ne “L’Isola del tesoro”. Non durerei due giorni. Catturato dai pirati al largo della Somalia, o stuprato da marinai filippini. Nondimeno, se capitasse l’opportunità, salperei per qualche destinazione lontana, con un sorriso ebete stampato in faccia, incurante del pericolo, guardando verso la linea dell’orizzonte. Attirato dalla magia e dal mistero dell’oceano. Perciò di buon grado ho iniziato la lettura di un libro che mi raccontasse un’avventura marina.

In questo romanzo si racconta questa storia: un uomo di nome Ismaele si imbarca su di una baleniera, il Pequod; capitano di questa nave è Achab, che ha un conto in sospeso riguardante una gamba con una balena, Moby Dick. Non credo di avere svelato nulla. Moby Dick (Feltrinelli, pp. 641, euro 10), è uno di quei libri di cui tutti conoscono la trama, senza mai averne letto nemmeno una pagina.

Paradossalmente, la parte in cui i due avversari si incontrano e si affrontano è lunga circa 30 pagine. Facendo due conti è la ventesima parte di tutto il libro. Niente. Come scrive Alessandro Ceni, che di questo libro ha curato la traduzione:

“La materia di cui tratta Moby Dick non è che un abnorme espansione di un banale antefatto.”

E allora cosa diavolo fa Herman Melville per tutte le altre seicento pagine? Racconta. Tutto, assolutamente tutto, ciò che succede quando un uomo decide di imbarcarsi su di una nave baleniera. La decisione, l’incontro con gli armatori, l’imbarco, la partenza, le persone incontrate, il duro lavoro a bordo, nelle pause di bonaccia compila una possibile suddivisione scientifica delle famiglie di cetacei. L’autore racconta come si avvista una balena, come si cattura una balena, come la si uccide e come si deve aprire una balena per ricavarne il prezioso olio. Tutto questo usando necessariamente i termini marinari, indicando nello specifico gli strumenti utilizzati, il materiale di cui sono fatti, la loro lunghezza e larghezza. Dopo aver letto questo libro potreste sostenere una lunga e approfondita conversazione con qualche grosso e rubicondo pescatore di capodogli islandese. Non c’è motivo di negarlo, Moby Dick è un pesantissimo mattone.

Ma, se nel corso della storia letteraria degli ultimi 150 anni questo libro e il suo autore, sono stati considerati parte integrante del canone e della cultura occidentali, un qualche motivo ci sarà. Il motivo principale, è la grandissima abilità di scrittura di Melville. Non solo riesce a rendere comprensibili e leggibili capitoli e capitoli, in cui sembra parlare a vanvera delle differenze tra il capodoglio e la balena groenlandese; ma li infarcisce di citazioni, allusioni, battute, analisi filosofiche, teologia spiccia. Il tutto con leggerezza e ironia, uno stile gentile e chiaro. Il suo contemporaneo (nonché dedicatario del libro) Nathaniel Hawthorne, nonostante abbia scritto uno dei libri più moderni della sua epoca e più letti oggidì, non ha mai scritto un periodo lineare. Non che l’autore della “Lettera scarlatta” non fosse capace di scrivere (anzi), ma probabilmente non resisterei due pagine se mi descrivesse di come si allestiscono le lance per la caccia alla balena.

Come forse è stato già detto, essere bravi a scrivere non basta, per diventare canone. E in questo caso è la materia stessa del libro a renderlo speciale. Melville scrive di cose. Per tutto il romanzo cerca di nobilitare l’umile mestiere del baleniere, infarcendo ogni pagina di una sovrabbondanza di citazioni più o meno comprensibili: la Bibbia, Shakespeare, Coleridge, e poi mille altri autori di libri più o meno sconosciuti. Ma, nonostante sia molto bravo a farlo, cioè senza appesantire la scrittura o risultare meccanico, l’autore continua a parlare di cose. Corde, assi di legno, spruzzi di acqua di mare, sagole, ancore, marinai, capitani impazziti, grasso di balena, puzza. Di tutto.

Da questo romanzo si è cercato in tutti i modi di tirare fuori qualche significato simbolico, allusivo, più o meno vagamente allegorico, per spiegare cosa l’autore avesse voluto dire. A volte serve soltanto a cavare d’impaccio qualche imbarazzato studioso, che non riesce a capire perchè questo libro si inabissi nell’anima degli uomini, come un capodoglio a caccia di calamari giganti nelle vertiginose profondità oceaniche. La verità è che Melville racconta in modo eccellente, il mare, gli uomini e gli animali che ci vivono, dove lui ha vissuto e lavorato per anni. E’ un mare reale. E forse è arrivato più vicino al mistero dell’oceano, e alla risposta al perché ci sentiamo così inermi, e così potenti, al cospetto di qualcosa che è solo un’enorme, sconfinata, infinita distesa d’acqua salata. Sotto la quale nuotano mostri.

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