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Libri voluminosi e voluttosi. Se il libro è scritto bene, perchè non prolungare ancora un po’ il nostro soggiorno nel mondo di carta?

Germogli tra le macerie.

71RUw9k3ujLDa giorni e settimane ormai, girovago ramingo col pensiero. Mi illudo, dopo essermi coricato, di aver afferrato un lembo di verità, di essere arrivato al giro di boa, all’intuizione che mi porterà indietro, a scrivere questa benedetta recensione. Leggiucchio brandelli, citazioni avulse, vaneggiamenti vari, insulti generalizzati, cercando di trovare conferme ai movimenti della mia coscienza. Ovviamente il tutto inutilmente. Argomenti che sembravano importanti si stemperano in dettagli di un quadro più grande e, paradossalmente, più semplice. Ogni considerazione politica, filosofica, teologica, critica si abbatte con fragoroso rumore di fronte alla sconcertante realtà, dalle motivazioni profonde che hanno mosso l’autore di questo libro. Le rocce possenti, le analisi granitiche tenute assieme da testimonianze, lettere, saggi, si allentano e crollano. Potremmo stare giorni interi a confutare una per una tutte le teorie, le spiegazioni che vengono date su “il vero significato di”. Senza arrivare da nessuna parte. Tolkien è vissuto e ha scritto in uno dei momenti più oscuri della Storia dell’uomo. I deserti senza vita di Mordor, la terra del Nemico, sono aridi e repellenti, fangosi e sudici, sono gli stessi che ha trovato in Francia durante la battaglia della Somme. Dobbiamo però fermarci qui, ogni altra allusione è un azzardo. La Terra di Mezzo rimane solo la Terra di Mezzo, dove l’allegoria non può trovare casa. Ho cercato consiglio nel cielo e nella terra, nei corvi che fanno cadere le noci dall’alto, ma nemmeno il mio animale totemico ha saputo darmi una mano. Ho lasciato decantare questa recensione per lunghissime settimane, chissà se alla fine sarai d’accordo con me. Rompiamo gli indugi e cerchiamo di mettere assieme i pezzi, amico lettore.

Ho letto la prima volta Il Signore degli Anelli quando ero ragazzino, non ricordo bene dove e quando, poi l’ho riletto una seconda, una terza e una quarta. Ho perso il conto di quale sia l’ultima. Ho cominciato a disegnare cartine e a inventare nomi, che avevano tutto il loro significato nelle linee contorte di una costa o nel cupo suono di Udûn. Il piacere stava tutto nel lasciarsi trasportare fuori dalla tranquilla, accogliente, borghese e britannica Contea, scoprendo man mano pericoli sempre più cupi e terribili. Moria, Orthanc, Mordor. Abbandonarsi al racconto che ritmicamente si allunga tra luce e oscurità, tra fuga e riposo, tra battaglia e contemplazione. La storia in realtà la sapete già, come me, anche se non avete mai letto il libro e mai lo farete. E sapete benissimo che ci sono i Nani, gli Elfi e gli Uomini e, ovviamente, ci sono gli Hobbit. Ci sono mostri terribili e raccapriccianti, nascosti e striscianti nelle profondità della terra o ripugnanti esseri alati. Creature abiette ed eroi, foreste vergini popolate da alberi parlanti e torri di pietra aguzze e scintillanti, lande desolate ricoperte di scorie maleodoranti e accoglienti locande dove servono birra così buona da sembrare stregata, canti in lingue musicali che curano l’anima e maledizioni terrificanti che la annientano. Eserciti dalle armature lucenti e pire funebri. Prodigi e forze che sprigionano una forza vitale arcaica. Un Nemico da sconfiggere, aiutanti e antagonisti, strumenti magici che sarebbe molto meglio non utilizzare mai. C’è tutto un mondo là dentro, ma lo conoscete già. Avrete visto il film. Dovreste leggere il libro.

Ma cos’ha, qual’è la magia del libro? Gli strumenti usati da Tolkien per creare il suo mondo sono tutto sommato semplici, a portata di qualunque scrittore, antichi: un sapiente e consapevole dosaggio di dettagli al limite della follia contrapposti a poetiche vaghezze. Come nel nostro di mondo, si vede bene ciò che si ha vicino, mentre le montagne lontane si sfumano nella foschia, pronte per essere popolate dal mistero. Fa più paura un esercito schierato o i tamburi che risuonano lontani nell’oscurità? Nuvole oscure ottenebrano la vista, mentre il pensiero va ai compagni lontani e forse perduti. Ogni volta che lo leggo rido, e piango anche. Assaporo l’attesa e divoro le pagine. Penso a tutta la letteratura di genere che è mai stata scritta e so che non ci sarà mai nulla di simile. Penso che gli scrittori che provano ad emularlo si sentano come Petrarca che prova a scrivere in terzine incatenate. Perché è diverso da tutto? Perché è migliore di tutto? Forse è sempre la stessa vecchia storia: la bellezza di un libro dipende sempre da quanta anima l’autore deve strapparsi per donare la vita a quello che scrive. Qui dentro c’è tutta una vita.

J.R.R.Tolkien ha inventato una lingua, gli ha dato degli esseri che potessero pronunciare le sue melodiose parole e un mondo magico dove farli camminare, belli e splendenti sotto le stelle luminose. E poi ha fatto in modo che il mondo degli elfi andasse in rovina, così che noi potessimo piangere assieme a loro la scomparsa del loro mondo in una lunga e sofferente elegia. Per permettere alla vita di continuare, il vecchio mondo deve farsi da parte. Il Signore degli Anelli è ambientato in un mondo di macerie, dove oltretutto con la sconfitta del male scompariranno molte altre cose antiche e meravigliose, canti e racconti verranno dimenticati. Dalla terra spuntano statue dagli occhi vuoti, buchi nella pietra che ci ricordano come tutto è in perenne trasformazione. Gli elfi cantano la nostalgia del mare, gli Ent quella delle loro compagne perdute, ogni cosa è destinata a scomparire vaga nell’immensità dell’Oceano, più vasto di tutte le montagne e di tutte le pianure della Terra di Mezzo. E tutto questo solo per suscitare nei lettori nostalgia di un luogo dove non sono mai stati, i tedeschi la chiamano fernweh. Non c’è nient’altro. Niente Madonne o diavoli, monarchi inglesi e razze superiori. Le spade che scintillano nel buio, le cariche poderose della cavalleria, gli agguati nei boschi, le migliaia di pagine sottili di questo libro non sono nulla, nulla, se non storie. Non significano niente se non se stesse. È un libro che parla di morte e vita, primordiale. Alla fine avrete nostalgia di tempi e luoghi che non sono mai esistiti. Solo questo.

Non è un mondo preciso e cristallino, dove le corrispondenze illuminano di significato ogni versetto. È solo una lunga, meravigliosa, remotissima storia, con la potenza dell’epica e la profondità del romanzo. È come un poema antico, di cui abbiamo solo un canto. L’unica cosa secondo me sicura, che si può dire su questo libro è la speranza nella Vita. Nel buio più estremo può brillare la luce, da un vecchio albero morto possono nascere ancora germogli, un vecchio e stanco re può trovare ancora forze nelle sue ossa antiche. La pace è costosa, e le ferite più profonde sono quelle dell’anima ma tutto è comunque poca cosa, destinata a scomparire e a diventare altro. La razza degli Uomini, così debole, così mortale, così sciocca, avrà sempre una possibilità e questa speranza dorme, in un buco nella terra. È questo il segreto. Tolkien era un filologo, un linguista. Sapeva che le lingue non muoiono, ma si trasformano; cuce un arazzo fisso e immobile, lontano nel tempo, in cui però tutto germoglia, silenzioso ma vivo. Tutto il resto è un debole tentativo di piegare una storia troppo grande dentro le maglie di un interpretazione che sarà sempre stretta. Se lo leggerete, dovrete farlo solo per la sua ineguagliabile capacità di portarvi in un altro mondo, la meraviglia e il terrore. Nient’altro, e verrete accontentati.

 

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Leggere i mondi.

underworldVoltata l’ultima pagina, chiudo il libro e lo poso sul comodino. No, lo rigiro ancora un attimo tra le mani: ne percepisco il peso e osservo la sua struttura geometrica. Gli angoli smussati dall’usura non ne snaturano l’essenza di solido blocco quadrangolare. Potrebbe benissimo essere una pietra angolare di qualche antica cattedrale, di compatto granito. Immobile e ostile accanto alla mia testa lo osservo: le pagine di carta fine, il carattere minuscolo del tascabile non impediscono di raggiungere quasi le novecento pagine. Penso a quello che è successo quando ho finito il libro e al vago senso di incertezza che ha lasciato. Penso anche alle varie recensioni e analisi che ho letto: il postmoderno, la critica alla società dei consumi. Il complottismo che vede il numero 13 nascosto nei nomi dei giocatori di Baseball. L’ironia dell’autore che non vuole che il lettore capisca fino in fondo, perché alla fine non c’è nulla da capire. La tentazione di lasciare che questo monolito di carta mi convinca di essere un freddo esperimento di stile sono forti, dire a tutti che “sono rimasto stordito dalla sua complessità” e passare oltre.

Cosa crede che tu è, un Jedi, che muove così con tua manina? Io toydariano, trucchi di mente non funziona con me, solo money. – Watto a Qui-Gon Jinn, La minaccia fantasma.

Non posso fermarmi alla superficie, voglio recuperare la fraternità che ho condiviso con il libro mentre mi avventuravo nel suo mondo di carta. Le pagine nere che scandiscono la lettura non erano allora simboli di morte, ma solo riferimenti temporali di quel piccolo universo. La sensazione è che Underworld (Einaudi, pp. 880, euro 13,20, traduzione Delfina Vezzoli) sia un opera dove c’è poco spazio per l’emozione. Una costruzione di altissima abilità tecnica e stilistica, degna dei capolavori della cultura mondiale, fitti di connessioni, citazioni, sorprendenti scelte stilistiche e rigore compositivo. Don DeLillo, l’autore, crea un epico racconto, una straordinaria narrazione composta da molteplici storie e personaggi, tutte mescolate in un flusso unico dove la distinzione tra personaggio secondario e principale non è sempre chiarissima. Non mi piace definire queste parti frammenti, che sono piccoli pezzi sparsi dal caos, preferisco pensare alla torta marmorizzata: vaniglia e cioccolato sono separati in modo irregolare pur restando in un dolce unico, mescolati ma non uniti, venature marroni attraversano fette gialle. Una volontà ordinatrice, per quanto non segua sempre una motivazione logica, esiste. Stampatevi l’immagine di De Lillo, grembiule alla vita, che sforna la sua American Pie.

Avanti e indietro nella storia degli Stati Uniti d’America, durante la Guerra Fredda. I taxi gialli di New York potrebbero condurre in mezzo al deserto del Mojave se non prestate attenzione. Il Bronx italoamericano del dopoguerra si trasforma nel ghetto nero per antonomasia se non guardate dove camminate. Tutti i ceti sociali, tutte le razze dell’insalatiera americana. Personaggi storici famigerati e perfetti sconosciuti, personaggi d’invenzione che chiacchierano con ricordi di un mondo che è esistito. A collegare tutto e tutti, ma con un legame così apparentemente debole e fragile che l’unica parola che suona abbastanza bene è link, è una pallina da Baseball. Non una qualunque. Quella di una storica finale tra Giant e Dodgers. Oppure una qualunque, vi assicuro che non potrebbe fare differenza. L’apocalisse nucleare, il terrore rosso, la massificazione dei consumi e la produzione di rifiuti e scorie come caratteristica definente dell’essere umano, l’ossessione per la ricerca di un complotto sotterraneo che spieghi i segnali che vediamo dappertutto. La lotta per l’emancipazione dei neri, l’assassinio di Kennedy, il Texas Highway Killer. Tutto riconducibile alla piccola palla, al Botto Che Fece Il Giro Del Mondo.

Tutti gli episodi i capitoli i paragrafi le parti le frasi sono perfettamente autonomi. E perfetti. Lo stile di De Lillo è espressivo e misurato, consapevole del potere che ha sul lettore e della direzione in cui lo sta portando. Uno stile fatto di cose ed immagini, dove un cheesecake può essere «morbido e gustoso, con la personalità di uno zio benestante che conosce un centinaio di barzellette sporche, destinato a morire di eccessi sessuali tra le braccia dell’amante». I personaggi non sono mai gli agenti del racconto, ma sono molto aldilà dall’essere piatti. I servi dei Tre Moschettieri sono piatti, piazzati lì da Dumas solo per farsi prendere a bastonate o per consegnare un messaggio. Nel nostro libro invece ognuno ha una storia che ce lo rende interessante o fa parte di una Storia più grande che li rende tutti importanti. Tutti vedono qualcosa e cercano di leggere la storia e di nuovo, la Storia, con i loro strumenti, cercano ossessivamente una palla, il numero 13, la contaminazione, il complotto statale o quello straniero, una nave carica di merda che non può scaricare perché nessun paese la vuole. Il complotto segreto, anche se falso, è un modo per dare un ordine alla realtà incontrollabile.

E noi, lettori, sullo stesso loro piano. DeLillo genialmente non ci mostra i collegamenti che reggono la sua opera, non ci spiega come fa. Ci mette di fronte all’opera d’arte, spazio finito e autonomo, specchio e metafora del nostro mondo. Alla ricerca di un ordine i neuroni si uniscono e creano una realtà, noi assistiamo al suo formarsi, riflettendoci nei personaggi, non per come sono, ma per come vedono il mondo. Il loro di carta, il nostro solo un poco più vero. Sinapsi di un cervello.

Ora sì, posso spegnere la luce. Finalmente la pace.

P.S. Anche il mio titolo ha tredici lettere.

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Preparativi.

arts-graphics-2008_1183482aPer le solite e immeritate vacanze estive una sola cosa si è rivelata nel corso degli anni assolutamente fondamentale. Che io sia al mare o in montagna solitamente riesco a cavarmela mettendo in valigia un costume, un paio di scarponi e uno smocking. A volte neppure quello. Una sola cosa serve veramente. Siccome siamo in un blog dove si scrive di libri non sarà lo spazzolino o la Settimana Enigmistica. Ma LA LISTA. Dalle Alpi alle Ande, dal Manzanarre al Reno, tutti vorranno sicuramente sapere che libri dovrò comprare/rubare prima di partire. E allora squillino le trombe, rullino i taburi, ronzino i kazoo.

La nera di Dino Buzzati– (ovviamente) Dino Buzzati
È la raccolta fatta da Mondadori degli articoli di cronaca nera del mio scrittore preferito. Da tenere sul comodino e leggere prima di andare a letto.

Verdi colline d’Africa – Hernest Hemingway
Non so molto di questo libro effettivamente ma mi aspetto delle colline molto verdi e del machismo. È da un po’ che non leggo Hemingway, mi sembra giusto ricominciare.

Io sono un gatto – Natsume Sōseki
Miau miau miau.

Il signore dei lupi – Alexandre Dumas (padre! Per carità!)
Dumas è un genio, mi leggerò con gusto questo breve romanzo sui lupi mannari. Roba eccentrica.

La mia autobiografia – Charlie Chaplin
Sono anni che vorrei leggerla, da quando ho visto il film con R.D.J. È un bel supermattone, ma ci vuole.

Primo comando – Patrick O’Brian
Idem come sopra, per questo l’ho regalato alla morosa. Così poi lo rubo. Grandi speranze per l’accurata ricostruzione storica della vita sui velieri durante le Guerre Napoleoniche. Altro che pirati di sti caraibi.

Adriano VII – Frederik Rolfe
Non c’è nessun Adriano VII. Cercate pure. Libro strano strano strano. Scritto all’inizio del ‘900, adocchiato al Libraccio dei Navigli.

Chissà se riuscirò a leggerli tutti quest’estate. Intanto li prendo. Un po’ di accumulazione compulsiva non fa male. Se mi piaceranno troverete molto probabilmente le recensioni, nel prossimo mese, nei prossimi mesi. Ma ora vi si presenta un’opportunità imperdibile. Ci sono persone che darebbero di tutto per poterlo fare. In passato sono stati offerti un kebab, un posto da titolare al posto di Schelotto e una tuta da sommozzatore. Per cosa? Consigliare i tre libri che mancano per fare cifra tonda. Tema libero. Gentili lettrici e lettori di Muninn | libri da ricordare, fatevi onore.

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Storie con la S maiuscola.


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poi dovete sapere molto bene l’inglese».

Questo è il prezioso contributo offerto dalla conferenza di ieri sulle professioni dei laureati umanistici. Una summa, un sunto, un tweet. Si spiegava come certamente la letteratura, la filosofia, il greco e il latino siano importanti, più importanti anche delle materie scientifiche. Solo che poi, nella pratica, quello che hai imparato in 4, 3 o 5 anni non ti servirà mai. Certo, grandi abilità, competenze, adattabilità, elasticità. Tutte quelle cose che si ficcano nei CV per arrivare a fondo pagina. «Eh, mi spiace, hai frequentato l’università ma non sai abbastanza, neppure per insegnare il latino all’asilo.» Ma come? «Si, si puoi trovare lavoro in un ambito diverso da quello didattico o editoriale, basta che fai un master in Scienze Politiche o in Matematica.» Beh. «Serve un po’ di autoimprenditorialità.» Insomma ranges. Allora cosa sono venuto a fare a Milano? Per frequentare lezioni di stralunati e folli misantropi? Stavo a casa e leggevo. Imparavo di più. Mi autoimprenditorializzavo. Per scrivere la tesi mi sono basato sulle indicazioni che la mia insegnante di terza liceo mi aveva dato per il saggio breve. È come se, condotto in mezzo a un deserto, con in mano un cucchiaino, mi avessero mostrato una Panda arrugginita dicendo: «Bravo! Ora immagina che sia un fuoristrada e vedrai che te la cavi!»

Cos’è la cultura umanistica? O meglio, quella che mi fornisce oggi l’università? Perché mai dovrebbe aiutarmi nel lavoro quando un ingegnere che abbia una generica conoscenza dell’italiano, una biblioteca ben fornita vicino a casa e un minimo di voglia può arrivare al mio stesso livello? Io lo posso anche mettere in fondo al curriculum, vicino a dove c’è scritto che faccio judo, che ho letto tanti libri interessanti, molti di più rispetto a una scimmia e molti di meno rispetto a un docente universitario. Interesserà veramente a qualcuno?

Ho appena finito di leggere con grandissimo entusiasmo, il che mi ha regalato alcuni sguardi preoccupati da parte degli amici, il primo volume della Storia delle Crociate di Steven Runciman (Einaudi, pp. 1153, euro 26). Perché Muninn dedica spazio, ed è già capitato QUI e QUI, ai voluminosi saggi di storia? O meglio ad alcuni di essi? Perché se lo meritano, ecco perché.

Tra la sterminata produzione di libracci esoterici come La vera storia dei templari satanisti; vergognosamente nostalgici come Il fascismo – perché i treni arrivavano in orario; asetticamente accademici come La produzione dei chiodi nella Bergamo del 1800; c’è chi, nascosto tra la pula, ha il coraggio di raccontare una vera storia (con la s minuscola), col respiro dell’epica ma la chiarezza di visione di uno storico rigoroso. Questo è il caso del nostro caro Runciman, che guarda caso porta un nome degno di un paladino di Carlo Magno o uno scudiero di Orlando. Nonostante sia un bel supermattone di più di mille pagine la lettura è avvincente e quasi mai noiosa: omicidio, incesto, lebbra, guerre, massacri indiscriminati di popolazione civile inerme, tradimenti, capricci, donne e uomini bramosi di potere ma incapaci di gestirlo, intolleranza etnica e religiosa. Un libro di storia fatto bene è quasi meglio di Tempesta d’Amore e di qualsiasi altra soap opera sia mai stata pensata. Colpi di scena inattesi, gestiti con l’abilità dello scrittore di romanzi, solo che qui tutto è successo veramente. Runciman è bravo a scrivere ed è bravo anche a fare un’altra cosa: all’inizio di ogni capitolo c’è una citazione, sempre dalla Bibbia o dalle Lettere di qualche apostolo. Da bravo anglicano probabilmente gliela pucciavano nel porridge la mattina, ma grazie a questo ogni citazione è inevitabilmente perfetta per introdurre il suo capitolo, quattro parole di un profeta ebreo colorano cento pagine di saggio storico meglio di un immagine.

Sicuramente per leggere in questo modo un libro del genere bisogna dare fondo alle proprie risorse immaginative, fino a grattare il fondo. Ma con un po’ di allenamento ecco comparire poderosi eserciti in scintillanti armature, muraglie grandiose, splendidi palazzi. Solo che non sono le romantiche avventure dei crociati cristiani la cosa importante che questo libro ci lascia, quello per cui merita di essere ricordato. Questo è un libro che parla degli uomini, uomini grandiosi, che fanno la Storia (con la S maiuscola), ma pur sempre mortali:

“I francesi potevano ben tentare di far ricadere su altri la colpa dell’insuccesso, sullo sleale imperatore Manuele o sugli indifferenti baroni palestinesi, e san Bernardo poteva lanciare minacce contro i malvagi uomini che intralciavano i piani di Dio, ma in realtà la crociata non aveva concluso nulla a causa della ferocia, dell’ignoranza e della vuota stupidità dei suoi capi.”

Queste quattro righe, più le altre mille che stanno dietro, materia inerte animata da una scrittura abile, insegnano sull’uomo e sulla vita, sulla politica di oggi di ieri e di domani più di quanto possa fare un corso universitario o la lettura di tutti i giornali del mondo. Questo è quello che da in più la “cultura umanistica”. Questa è la dignità delle lettere. Per questo ricordiamo libri del genere. Saper giocare a scacchi non basta.

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Le notti d’Oriente.

Sono oramai passati più di due mesi, dall’ultima Fiera del Libro Usato. Nonostante ogni volta mi riproponga di fare molti acquisti sensati, ricado sempre nello stesso errore: attirato da un prezzo scontato di circa il 50% l’occhio cade inesorabilmente su un tipo di libro specifico, quello molto lungo. Lo vedo in mezzo agli altri: prime edizioni autografate, con dedica o impronta di rossetto dell’autore, grandi classici, libri semi-nuovi, tutti scompaiono dal mio campo visivo. Passo due o tre volte per sincerarmi che sia ancora lì. Ma chi potrebbe comprarlo! Chiedo il prezzo: 26 euro. “Ahh…ma è molto poco, si…è comunque una casa editrice buona…certo, certo, non è molto rovinato…sembra che i vari lettori si siano fermati tutti al primo volume…”. Ecco. PRIMO VOLUME. Perché infatti sono quattro. E ogni libro è scritto in piccolo, con poco spazio vuoto ai bordi, la carta di qualità ma sottile. 649 + 667 + 581 + 690 = 2587. A soli ventisei euro.

“Ma è una buona edizione?”

“Certo! La migliore in asssoluto. Tesssoro.”

“Bè…mi sembra completo…”

“Certo! È il più completo, sssicuro.”

“E a questo prezzo…”

“Certo! Non lo trovi a quessssto prezzo, almeno al doppio lo sssi trova, sssì!”

“E…”

“Certo! Anche quello, tesssoro.”

Quindi pago, metto nello zaino, torno a casa tutto contento. Sono riuscito a finire il primo volume due giorni fa. Devo dire che ho trovato questo libro molto diverso da come lo aspettavo. Credevo che “Le mille e una notte” (Einaudi, pp. 2588, euro 50) fosse una cosa leggera, nonostante la lunghezza infinita. Credevo fosse una raccolta di novellette come quelle che mi leggevano da bambino, una cosa divertente. Come era già successo molte volte, mi sbagliavo. Almeno in parte.

Se vi aspettate solo donne velate dai gesti raffinati che seducono in modo pudico giovani avventurieri o avventure fantastiche tra uccelli giganti e balene che sembrano isole, rimarrete stupiti dalla quantità incredibile di vecchie streghe lesbiche raggrinzite e scorreggione presenti in quasi tutte le storie. La traduzione di Francesco Gabrieli, pur essendo datata, è l’unica fatta direttamente su un originale arabo e tenta di riprodurre il linguaggio medio che contraddistingue l’opera. Non deve stupire quindi di trovare gli amplessi sessuali descritti in questo modo:  “A sua volta Badr ed-Din la attirò a se, la abbracciò, si pose i piedi di lei alla vita, indi caricò il cannone, lo puntò sulla rocca, lo fece sparare, e quello abbatté la fortezza.” O espressioni come: “emise un peto solenne”. Come è facile immaginare, in un opera scritta nel medioevo arabo, non esiste il concetto di politicamente corretto: ci sono negri, quasi sempre assassini e stupratori, beduini ignoranti e puzzolenti, ebrei avidi di denaro (vanno sempre forte), cristiani che si cospargono con i santi escrementi del patriarca di Costantinopoli, donne infide e traditrici assetate di sesso e omicidio. Tutto è permesso alla corte del califfo, purché ci si sottometta al volere di Allah.

Ma questi sono ancora tra i momenti più felici: la maggior parte delle novellette infatti sono di argomento amoroso e dissanguanti. Quasi sempre poi la struttura a scatole cinesi arriva a vertigini insondabili, qualcosa come quattro livelli di narrazione. Terrorizzato aspetti il momento in cui il personaggio, del quale hai appena imparato il complicato nome, si fermi lungo la strada e si metta a raccontare una storia al suo amico, nella quale sicuramente si racconterà di un tale che si è fermato per strada a raccontare una storia al suo amico, a proposito di quella volta in cui suo zio gli aveva raccontato di quando suo nonno gli aveva detto che e così via, fino a quando ti dimentichi chi sei e come ti chiami.

Le mille e una notte sono un labirinto letterario perfetto. Non a caso sono stati amati da personaggi della specie di Proust o Borges. Come falene con la fiamma i lettori sono attirati dalla promessa di un’oriente fantastico, pieno di gioielli, incensi, tessuti, donne bellissime (solo se hanno il sopracciglio unito), geni, demoni, maghi e magie. Questa promessa è spesso frustrata da migliaia di righe inutili e ripetitive, da tanti racconti tutti uguali. Ma nulla rende allettante un oggetto bramato come la sua assenza. Ecco che in mezzo alla pula compaiono piccoli gioielli, pietre scintillanti, fiabe fatate perfette dove la magia e l’esotismo producono le più fantastiche illusioni: pesci colorati che diventano umani, bestie parlanti, Jinn maligni, case stregate, vecchie megere che incantano giovani amanti. Un Oriente che non esiste e che non è mai esistito. Una leggenda, un’immagine che non corrisponde a nessuna realtà. Palazzi ricoperti d’oro e gemme preziose, giardini lussureggianti in mezzo al deserto, ricchi di fontane e fiori profumati. Ecco che questo libro, senza che ce ne accorgiamo o tantomeno lo vogliamo, ci rapisce e conquista, smarriti nel suo labirinto di storie infinite. Secondo il volere di Allah.

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La seduzione della vendetta.

«Io sono…», gli disse all’orecchio. «Io sono…».

E tra le labbra, appena dischiuse, si fece largo un nome proferito a voce così bassa che il conte sembrava aver paura di udirlo egli stesso.

L‘isola di Montecristo è l’isola più solinga dell’Arcipelago Toscano. Spoglia e rocciosa, ha resistito a innumerevoli tentativi di colonizzazione, nemmeno gli eremiti riuscivano a restarci a lungo. Una leggenda raccontava che un tesoro immenso fosse nascosto sotto l’altare della chiesetta di S.Mamiliano: ebbene è stato trovato recentemente, in una chiesa dedicata a S.Mamiliano, ma sulla terraferma. Per fortuna il tesoro è stato trovato pochi anni fa perché altrimenti, per qualche strano caso del destino, non avremmo mai avuto Il Conte di Montecristo (Feltrinelli, pp. 1066, euro 15). Alexandre Dumas avrebbe potuto scrivere Il Marchese di Cecina, o Il Barone di Poggibonsi, Il Duca di Colle Val d’Elsa o magari il Valvassore di Monteriggioni.

Per fortuna non lo ha fatto e ha scelto questo nome per uno dei personaggi più grandi della letteratura francese e mondiale di tutti i tempi. Nonostante non sia mai stato amato dalla critica e collocato sempre dopo Hugo e Flaubert dai più accondiscendenti, Dumas continua a dominare incontrastato l’immaginario di migliaia di lettori in ogni parte del mondo. Come mai? Non si riesce a capire. Anche i critici che lo hanno apprezzato e continuano ad apprezzarlo da più di cent’anni si scusano quando ne parlano, si sentono un po’ in imbarazzo ad elogiarlo. Dicono: «si, lo leggo, ma solo per riposarmi e divertirmi un po’…». Umberto Eco, che pure ha infilato Dumas dentro al suo ultimo romanzo, ha dichiarato al riguardo:

Il Conte di Montecristo è senz’altro uno dei romanzi più appassionanti che siano mai stati scritti e d’altra parte è uno dei romanzi più mal scritti di tutti i tempi e di tutte le letterature.

Non ci si sbilancia. Eppure, in quelle mille e più pagine che lo rendono a tutti gli effetti un SuperMattone, c’è la scintilla della vita.

Edmond Dantès, prima di morire e lasciare il posto al Conte conduceva una vita tranquilla e beata, buono, onesto, amorevole, affezionato al padre, alla promessa sposa Mercedès e agli amici. Pure belloccio, futuro assicurato dall’abilità nel comandare le navi. La noia assoluta. Per nostra fortuna si complotta alle sue spalle e lo condannano ad una vita rinchiuso tra i muri di una prigione. Dantès ritorna dall’Inferno per vendicarsi, e la vendetta sarà tremenda. Terribile, inaffondabile, il Conte di Montecristo è sopravvissuto solo grazie al desiderio di vedere soffrire i suoi nemici e di sprofondarli negli abissi della disperazione. È tornato, ricchissimo, coltissimo, fichissimo, con un piano per eliminare gli amici di un tempo nel modo che più si conviene, per farli soffrire dove fa più male. Per interi capitoli ha sofferto la fame, la sete, ha cercato di lasciarsi morire, ha rischiato di uscire di senno, la ricompensa per essere sopravvissuto è l’investitura divina, la possibilità di diventare il giustiziere di Dio in Terra. Con gusto sadico si assiste alle evoluzioni, ai balletti di Montecristo nel mondo: si traveste, da commerciante inglese, da abate italiano, conosce i veleni e conosce le medicine, sodale coi banditi romani e oppiomane, ogni piccola azione è parte di un disegno più grande, progettato per anni e anni niente, anche volendo, può sfuggire alla rete del Conte.

Dumas disegna con abilità indiscussa personaggi indelebili, ci porta in mezzo agli intrighi e ai tradimenti della Parigi di metà ottocento, ci presenta mogli avvelenatrici e figli illegittimi di uomini di nobile schiatta, criminali incalliti dei bassifondi e raffinati giornalisti, amanti e cocotte, con la delicatezza di una citazione classica insinua anche il rapporto omosessuale tra una ragazza e la sua insegnante di pianoforte. E siamo ai tempi di Garibaldi e Cavour. Che prurigine! Che suspance! Dumas sarebbe stato un perfetto sceneggiatore di telefilm, se si pensa che all’epoca della sua pubblicazione il Conte di Montecristo si leggeva a puntate.

Nonostante questo libro sia un’opera popolare (in tutte le accezioni del termine) ci da anche la possibilità di imparare qualcosa che non ha a che fare ne con la ricchezza ne con la vendetta, anzi. Montecristo ci racconta della sua guerra ma ci insegna il perdono.

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“Avete visto la balena bianca?” II

Quando si vanno a toccare libri di questo spessore metaforicamente e letteralmente, ci sarebbe troppo da dire. Su libri come questo si sono stratificati centinaia di anni di lettori che hanno letto, apprezzato o odiato, e hanno dato la loro interpretazione al tutto. Nella parte I della recensione, non c’era spazio per tutto questo. E non dovrebbe esserci, perché il suo posto è in qualche saggio scritto un po’ più seriamente. Qui, in un blog di recensioni tutto sommato artigianali, si dovrebbe mantenere un basso profilo. L’obiettivo è consigliare libri piacevoli da leggere, e cercare di spiegare perché lo sono. Aggiungiamo un paio di piccole cose che mancavano.

Quindi: Moby Dick è un romanzo scritto molto bene, leggetelo! Non saltate i capitoli quando parla di cetologia, o di come accidenti si deve piegare una sagola affinché non vi tranci una gamba se s’incastra mentre si srotola. Il libro è anche questo. Non ascoltate Pennac! Non si fanno le orecchie ai libri e non si saltano le pagine! Moby Dick è un libro che tutti conoscono, ma pochi hanno letto (tutto).

Melville era un genio, ci sono parti del libro in cui il romanzo si trasforma in un copione teatrale! Tra parentesi in corsivo scrive gli a-parte, i personaggi apostrofano il pubblico. I marinai, i ramponieri, il Capitano Achab, il Parsi, sono tutti meravigliosamente dipinti attraverso l’alternanza di ironia, epica e tragedia. Un meraviglioso miscuglio. Non c’è tempo di scrivere neppure del personaggio più importante, che compare solo alla fine del libro eppure ne è il titolo! E poi poesia, citazioni bibliche, aneddoti marinari, ogni capitolo (sono più di cento) qualcosa di nuovo.

Lasciatevi cullare e conquistare dal suo stile, vi porterà a spasso per gli oceani, giù nelle profondità marine, tra le grida dei marinai, in mezzo al fortunale. E vi proporrà la sua personale classificazione balenologica. E in tutto questo continuerete a chiedere ad ogni pagina: “Avete visto la balena bianca?” E continuerete a cercarla.

Melville[…] had mastered “The great Art of telling the Truth” through the dazzling plentitude and sly indirections of his language.

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“Avete visto la balena bianca?” I

Il mare. Un’enorme distesa di acqua. L’oceano ricopre 2\3 della superficie terrestre. Da millenni l’uomo è attirato verso queste sterminate praterie di onde. Da quando esiste la letteratura, e da quando l’uomo ha appreso la capacità di raccontare storie, si parla, si scrive, del mare. Un giorno vorrei provare. Imbarcato su una nave mercantile (ovviamente non disdegno la vela, chi mi vuole regalare un viaggio si faccia pure avanti). Probabilmente è un sentimento molto ingenuo, cercare l’avventura per mare, come ne “L’Isola del tesoro”. Non durerei due giorni. Catturato dai pirati al largo della Somalia, o stuprato da marinai filippini. Nondimeno, se capitasse l’opportunità, salperei per qualche destinazione lontana, con un sorriso ebete stampato in faccia, incurante del pericolo, guardando verso la linea dell’orizzonte. Attirato dalla magia e dal mistero dell’oceano. Perciò di buon grado ho iniziato la lettura di un libro che mi raccontasse un’avventura marina.

In questo romanzo si racconta questa storia: un uomo di nome Ismaele si imbarca su di una baleniera, il Pequod; capitano di questa nave è Achab, che ha un conto in sospeso riguardante una gamba con una balena, Moby Dick. Non credo di avere svelato nulla. Moby Dick (Feltrinelli, pp. 641, euro 10), è uno di quei libri di cui tutti conoscono la trama, senza mai averne letto nemmeno una pagina.

Paradossalmente, la parte in cui i due avversari si incontrano e si affrontano è lunga circa 30 pagine. Facendo due conti è la ventesima parte di tutto il libro. Niente. Come scrive Alessandro Ceni, che di questo libro ha curato la traduzione:

“La materia di cui tratta Moby Dick non è che un abnorme espansione di un banale antefatto.”

E allora cosa diavolo fa Herman Melville per tutte le altre seicento pagine? Racconta. Tutto, assolutamente tutto, ciò che succede quando un uomo decide di imbarcarsi su di una nave baleniera. La decisione, l’incontro con gli armatori, l’imbarco, la partenza, le persone incontrate, il duro lavoro a bordo, nelle pause di bonaccia compila una possibile suddivisione scientifica delle famiglie di cetacei. L’autore racconta come si avvista una balena, come si cattura una balena, come la si uccide e come si deve aprire una balena per ricavarne il prezioso olio. Tutto questo usando necessariamente i termini marinari, indicando nello specifico gli strumenti utilizzati, il materiale di cui sono fatti, la loro lunghezza e larghezza. Dopo aver letto questo libro potreste sostenere una lunga e approfondita conversazione con qualche grosso e rubicondo pescatore di capodogli islandese. Non c’è motivo di negarlo, Moby Dick è un pesantissimo mattone.

Ma, se nel corso della storia letteraria degli ultimi 150 anni questo libro e il suo autore, sono stati considerati parte integrante del canone e della cultura occidentali, un qualche motivo ci sarà. Il motivo principale, è la grandissima abilità di scrittura di Melville. Non solo riesce a rendere comprensibili e leggibili capitoli e capitoli, in cui sembra parlare a vanvera delle differenze tra il capodoglio e la balena groenlandese; ma li infarcisce di citazioni, allusioni, battute, analisi filosofiche, teologia spiccia. Il tutto con leggerezza e ironia, uno stile gentile e chiaro. Il suo contemporaneo (nonché dedicatario del libro) Nathaniel Hawthorne, nonostante abbia scritto uno dei libri più moderni della sua epoca e più letti oggidì, non ha mai scritto un periodo lineare. Non che l’autore della “Lettera scarlatta” non fosse capace di scrivere (anzi), ma probabilmente non resisterei due pagine se mi descrivesse di come si allestiscono le lance per la caccia alla balena.

Come forse è stato già detto, essere bravi a scrivere non basta, per diventare canone. E in questo caso è la materia stessa del libro a renderlo speciale. Melville scrive di cose. Per tutto il romanzo cerca di nobilitare l’umile mestiere del baleniere, infarcendo ogni pagina di una sovrabbondanza di citazioni più o meno comprensibili: la Bibbia, Shakespeare, Coleridge, e poi mille altri autori di libri più o meno sconosciuti. Ma, nonostante sia molto bravo a farlo, cioè senza appesantire la scrittura o risultare meccanico, l’autore continua a parlare di cose. Corde, assi di legno, spruzzi di acqua di mare, sagole, ancore, marinai, capitani impazziti, grasso di balena, puzza. Di tutto.

Da questo romanzo si è cercato in tutti i modi di tirare fuori qualche significato simbolico, allusivo, più o meno vagamente allegorico, per spiegare cosa l’autore avesse voluto dire. A volte serve soltanto a cavare d’impaccio qualche imbarazzato studioso, che non riesce a capire perchè questo libro si inabissi nell’anima degli uomini, come un capodoglio a caccia di calamari giganti nelle vertiginose profondità oceaniche. La verità è che Melville racconta in modo eccellente, il mare, gli uomini e gli animali che ci vivono, dove lui ha vissuto e lavorato per anni. E’ un mare reale. E forse è arrivato più vicino al mistero dell’oceano, e alla risposta al perché ci sentiamo così inermi, e così potenti, al cospetto di qualcosa che è solo un’enorme, sconfinata, infinita distesa d’acqua salata. Sotto la quale nuotano mostri.

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Il sangue, la sabbia e il peso della verità.


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omeriggio. Una spiaggia di un tranquillo villaggio vacanze egiziano. Nonostante il deserto, è inverno anche qui, e la temperatura si abbassa già nel pomeriggio. I più coraggiosi, che non vogliono tornare subito in camera, devono rimanere immobili rivolti al sole. Come lucertole distendono tutta la superficie del corpo per raccogliere gli ultimi raggi.

La dissenteria mi tormentava fin dal mio arrivo all’aeroporto, e passavo le mie giornate bevendo tè. Fortunatamente il villaggio disponeva di una immensa fornitura di bustine e acqua sempre bollente, a disposizione in una specie di samovar-bidone. Avevo appena finito di bere l’ennesima tazza quando una simpatica e decisamente bella animatrice me ne portò un’altra. Bisognava accettare per forza. Mentre sorseggiavo prudente il liquido caldo ed fin troppo dolce la ragazza notò il libro che stavo leggendo: “Che pesantezza!” disse. Non potei non essere d’accordo con lei.

Il sole aveva cominciato a scendere dietro alle montagne del Sinai. a circa quattrocento kilometri di distanza gli egiziani avevano da poco abbattuto il loro faraone e la Storia, come si dice, aveva cominciato a correre.

Ma quando aveva iniziato? Quando i tunisini avevano cominciato a darsi fuoco perché non trovavano lavoro? Oppure quando Israele aveva occupato definitivamente la “Palestina”? Magari quando le nazioni arabe avevano deciso che non doveva esistere uno stato ebraico, o addirittura quando un imbianchino di Monaco aveva deciso che non doveva esistere un popolo ebraico?

L’autore del libro che stavo leggendo cercava di capire proprio questo: non solo spiegare il Chi e il Dove, ma anche, e soprattutto il Perché la Storia ogni tanto, non può fare a meno di correre. Invece che andare alla consueta velocità di crociera.

Ripercorrendo la sua straordinaria esperienza giornalistica e i suoi taccuini d’appunti, Robert Fisk in “Cronache Mediorientali” (il Saggiatore, pp.1096, euro 17) cerca di dare un Perché al Medio Oriente. Lo fa attraverso le storie, i tanti piccoli e grandi incontri di trent’ anni di attività giornalistica. Raccontando le vittime, non importa chi siano.

I curdi carnefici dell’olocausto armeno assieme ai turchi, diventano profughi, durante la prima guerra del golfo.

Gli algerini del Fln che hanno combattuto i francesi in una delle prime e più sanguinose guerre di decolonizzazione, diventano i mandanti di massacri durante la guerra civile.

Il partito Baath, “resurrezione” dà origine alle più cruente dittature del mondo arabo.

Gli iracheni invasori dell’Iran, una delle guerre più costose (da ogni punto di vista) del secolo, sono gli stessi che vengono massacrati dalle bombe a grappolo americane mentre si ritirano dal Kuwait.

Gli israeliani che sparano sui bambini palestinesi muoiono dilaniati dalle esplosioni di fronte alle pizzerie.

Stermini, gas tossici, bambini mutilati, sangue, amputazioni, shock da bomba, criminali di guerra, saccheggi, assassini, torture, dittature, rivoluzioni, pulizie etniche, persecuzione religiosa, odi tribali, bombardamenti, corpi carbonizzati, attentati, ragazzini martire, impiccagioni sommarie, stupri, genocidi. In alcune pagine è difficile trattenere un conato di vomito. La pagina scritta possiede la capacità di evocare la realtà delle cose, di spaventare per quanto sembra irreale.

Ogni tanto bisogna fermarsi, scossi dai brividi, come Kurtz nella giungla nera. “L’orrore!”.

Fisk racconta tutto questo. Con gli occhi di chi ha visto, di chi ha perso il 25 % del suo udito vicino ai cannoni della contraerea, di chi è stato preso a sassate dalla folla afgana inferocita. Ricostruisce con lucidità ogni avvenimento dell’ultimo secolo, con la consapevolezza di chi non solo sa, ma ha vissuto in mezzo alla Storia in fieri. Preciso, puntuale, non risparmia dati e nomi, i nomi di tutte le vittime incontrate o meno, che si appunta sul taccuino, perché non siano dimenticate.

Arriva fino al punto di trovare un perché. La convenzione Balfour, ultimo sbuffo colonialista nel ventesimo secolo, che ha diviso arbitrariamente l’ex territorio ottomano, ha tracciato confini dove non esistevano, ha tradito le promesse fatte a qualsiasi popolazione della regione. Da questo peccato originale derivano tutte le sventure. Mentre me ne stavo sdraiato al sole, in ottima compagnia, la Storia toccava anche noi, su quella punta di continente, così vicino ai luoghi del libro. E il pensiero, veloce. La pesantezza di questo libro non è data dal numero delle sue pagine, ma da quello che vi è contenuto.

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Vecchi e nuovi giocatori in Asia Centrale

Tre anni fa la Russia portava la guerra in Georgia, otto anni fa la coalizione guidata da U.S.A. e Gran Bretagna attaccava Saddam Hussein, dieci anni fa cominciava una guerra in Afghanistan di cui non si vede tuttora la vera fine, e oramai trent’anni fa crollava l’Unione Sovietica, senza quasi far rumore nelle profonde distese dell’Asia Centrale.

Ciclicamente l’attenzione internazionale ritorna su queste immense distese semidesertiche, schiacciate tra le catene montuose più alte e aspre al mondo. Viene quasi il dubbio che non bastino ferrovie e canali d’irrigazione per portare la “modernità” in zone così isolate dal resto del mondo. Le nuove repubbliche presidenziali a partito unico non sono altro che la reminescenza degli antichissimi canati musulmani che per secoli hanno dominato le città lungo la Via della Seta. Il presidente del Kazakistan Nursultan Nazarbayef, si è appena concesso una piramide, come un faraone. Governi con il pugno di ferro si alternano a vaste zone dominate dall’anarchia tribale, senza soluzione di continuità, dal Caucaso al Karakorum.

Ma arretratezza politica non è sinonimo di arretratezza economica. Le città ,dopo secoli di abbandono delle rotte commerciali, rinascono grazie alla ricchezza dei tempi nuovi: le risorse energetiche. Petrolio e gas naturale, principalmente, ma anche oro, metalli pregiati, uranio. Non ci sono più immense carovane che portano le preziose spezie dal Cataio all’Europa, ma si progetta un nuovo oleodotto, per lo sfruttamento del più grande giacimento vergine di petrolio. Samarcanda, Taskènt, Merv, e le altre capitali dai muri di fango e sassi si arricchiscono di quartieri residenziali, che sfidano la maestosità della tomba di Tamerlano.

Questo mosaico di stati, di dittature, di capi tribali, è l’ambientazione giusta per qualsiasi romanzo di spionaggio, e molto probabilmente ogni giorno si confrontano su questo campo da gioco gli inviati delle potenze mondiali. Agenti della CIA, ufficiali dell’esercito cinese, mercenari ex-KGB, imam sauditi, trovano le condizioni ideali per mettersi in mostra e guadagnare un passaggio di carriera; ufficiali corruttibili da corrompere, informazioni segrete da trafugare, personaggi scomodi da eliminare: tutto il necessario per una nuovissima epopea di romanzi d’avventura. Solo che, come sempre, la storia si ripete, e tutto questo è già successo. Per duecento anni l’orso russo e il leone inglese si sono combattuti, senza mai (o quasi) incontrarsi, in mezzo alle steppe e ai passi di montagna, attraverso deserti incandescenti e nevi perenni. Ufficiali dell’esercito britannico e cosacchi russi si contendevano a distanza l’amicizia di questo o quel monarca assoluto, a rischio della vita, a maggior gloria dei rispettivi Imperi e della propria. Un affresco eccezionale di questi avventurieri lo dipinge Peter Hopkirk nel suo oramai classico “Il Grande gioco” (Adelphi, pp. 632, euro 32), che percorre la conquista dell’Asia Centrale dall’epoca dello zar Pietro il Grande fino alla prima guerra mondiale. Con uno stile che oltrepassa di gran lunga il saggio storico, Hopkirk non viene meno alla mole e alla precisione della sua ricerca (l’infinita bibliografia ne è un indizio), ma riesce a realizzare con la capacità dei migliori romanzieri, una narrazione piacevole e scorrevole, che quasi annulla il peso delle seicento e più pagine. Ripercorre con sapienza tutte le fasi dello scontro attraverso le storie degli uomini che giocarono al “Grande Gioco”, espressione coniata da uno di loro e immortalata da Kipling, senza mai annoiare o dilungarsi in noiosi elenchi di cifre. Ed è questa la forza dell’opera: si è subito immersi nelle storie dei personaggi, resi freschi e vivi grazie anche alla parola dei protagonisti stessi, raccolta dall’autore nella sterminata produzione di autobiografie e racconti di viaggio prodotta da questi soldati, mercanti e spie.

Degni dei migliori romanzi d’appendice, questi esploratori dell’ignoto escogitavano i più abili stratagemmi per poter entrare in territori dove gli stranieri erano considerati diavoli: travestimenti, doni preziosi, strumenti camuffati, e, quando tutto questo non bastava, la minaccia delle armi. Ma il Grande Gioco era pericoloso, e molti dei suoi partecipanti morirono mentre muovevano l’ultima pedina. Il colonnello Charles Stoddart e il capitano Arthur Connoly furono decapitati, dopo mesi di terribile prigionia, sulla piazza principale di Buchara. Aleksandr Griboedov, ambasciatore russo a Teheran, fu decapitato dalla folla inferocita. Sorte identica toccò ad Alexander Burnes che, dopo aver attraversato a piedi deserti e altipiani rocciosi, morì a Kabul, assediato dagli afghani bramosi di vendetta, nella sua stessa casa. Briganti, sicari, indigeni ostili, traditori dietro ad ogni sasso, ma nonostante tutti questi pericoli ogni volta un giovane (molto spesso più che ventenne) ufficiale partiva verso fiumi leggendari per mapparne il corso e trovarne i punti attraversabili, o attraverso il tetto del mondo per scoprire se un esercito poteva per caso passare di là.

Chi riuscì a tornare a casa divenne un eroe, ricevuto dallo Zar o dalla regina Vittoria, e alimentò la fantasia di generazioni di ragazzi tanto quanto le imprese tropicali di Livingstone o le avventure fantastiche di Jules Verne.

Hopkirk riesce a farci vivere le avventure di questi uomini, inglesi e russi, ma anche indiani del Native Indian Army e mongoli dell’esercito irregolare cosacco, seguendoli passo passo, ma senza dimenticare quanto succede in patria: il panico per una possibile (forse) invasione dell’India, che a tratti invadeva le sale di Whitehall, e la frustrazione che dominava a San Pietroburgo per ogni battaglia persa non possono non farci pensare ai nostri tempi. La paura, più o meno pretestuosa, del possesso di armi di distruzione di massa può favorire lo scoppio di una guerra; il timore che la rinata Repubblica Federale Russa possa essere di nuovo accerchiata fa muovere i carri armati nelle valli del Caucaso. Un libro imprescindibile per chi vuole avere una visione chiara di quello che accade oggi in quell’area, e forse anche in futuro; un libro affascinante anche per chi vuole sapere chi si nasconde dietro ai personaggi della fantasia di Salgari o Verne; una lettura davvero per chiunque trovi nella lettura la migliore avventura.

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