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Vagabondi metropolitani.

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È capitato sicuramente anche a voi, aspettando il treno la metro o la corriera, di spegnere provvisoriamente il cervello. Dopo una lunga giornata o appena svegli, in attesa alla stazione lo sguardo si fissa sulla banchina opposta, il vociare vicino diventa sempre più indistinto, pensieri e preoccupazioni che ci accompagnano fedeli in ogni altro momento di calma della giornata che svaporano indistinti. E poi eccolo che arriva: il velocissimo mezzo metallico che scorre a un palmo di naso. Le finestre, rintoccano ritmicamente ipnotiche. Allora, in quel preciso momento, prima che il treno si fermi e le porte si aprano, ci si avvicina a ciò che raccontano sciamani e asceti da millenni: la divisione della coscienza dal corpo. Non sarebbe infatti possibile, lasciandosi andare, concentrando l’attenzione su quel luogo così distante nel nostro cervello, farlo veramente? Anche se stiamo solo aspettando che il treno si fermi? E provare così ad immaginare quello che accadde a Darrel Standing nel romanzo di romanzi scritto da Jack London: Il vagabondo delle stelle.

Siamo nella California di inizio novecento, un posto tutt’altro che civile. Niente bionde abbronzate che surfano, per ora. Standing, professore di agronomia, è stato condannato per omicidio all’ergastolo. Per una serie di malversazioni viene costretto in cella d’isolamento, pena spesso e volentieri accompagnata dall’uso sfrenato della camicia di forza. In questa situazione estrema conosce gli altri inquilini del braccio d’isolamento: Ed Morrel e Jake Oppenheimer, con i quali comincia a comunicare attraverso un codice segreto che camuffa quello Morse. Quindi, grazie ai consigli dei due compagni di sventura, riesce ad autoindursi una condizione di sospensione spirituale per sopravvivere alle torture dei suoi carcerieri. Il grosso problema è che il nostro eroe comincia a prenderci gusto: scopre infatti che portando ogni volta un po’ più in la la soglia della sua morte-in-vita riesce a rivivere esistenze precedenti sedimentate nella sua coscienza da migliaia di anni, vite e vite, in luoghi epoche e corpi incredibilmente distanti tra loro.

Eccoci giunti infine al cuore del libro: una serie di racconti d’avventura che rispettano quasi maniacalmente le casistiche narrative avventurose più classiche. C’è il romanzo di costume medievale, il romanzo di sventure marinaresche (anzi due), il romanzo storico che attinge all’epopea western come Lo studio in rosso di Conan Doyle, il romanzo di avventure esotiche. Tutti perfetti e autentici episodi narrativi in perfetto stile londoniano. Oppure coloratissimi kolossal hollywoodiani anni ’50. Non sarebbe azzardato pensare che alcuni racconti siano stati scritti da soli per poi essere incasellati nella splendida cornice che London aveva preparato. Un racconto di racconti, tra i più classici, dalle Mille e una notte al Decamerone. Qualcosa che mai nessuno prima di lui avesse tentato, scrisse London al suo editore.

E forse è vero. Perché quella che fino ad ora è sembrato solo un banale pretesto per pubblicare un blocco di racconti assieme per recuperare i soldi necessari a mantenere il Beauty Ranch a Sonoma County e i suoi numerosi abitanti, si espande, penetrando negli interstizi tra le avventure metempsichiche di Darrel Standing. Con il peculiare stile che appartiene solo a lui, a cavallo tra i secoli ed eternamente oscillante tra circonvoluzioni metafisiche e periodi sbozzati con l’ascia, cinico e razzista quanto sensibile e curioso delle culture più lontane, attento studioso di storia e filosofia e colossale mistificatore; London, questo ossimoro vivente, rimpinza il libro di filosofia orientale e di attente critiche storiche e sociali, di verità e verosimiglianza, tornando alla più profonda essenza del romanzesco. È vero, basato su dettagliatissime ricostruzioni, il massacro dei pionieri nel deserto salato dello Utah. Sono veri i personaggi di Oppenheimer e Morrel, vere le torture a cui venivano sottoposti i prigionieri nel paese più democratico del mondo, nella California del sogno americano.

Come è possibile conciliare l’eterno ritorno dell’uguale e l’inevitabile spinta progressiva dell’essere umano per il miglioramento proprio e della società? Due pensieri così lontani e distinti come il giorno e la notte: come possono stare nello stesso libro, nella stessa mente? Come può il socialista Jack London, che lotta per i diritti civili, esaltare la forza il coraggio e l’intelligenza dell’uomo ariano attraverso le ere? Con un racconto, il più facile ed economico mezzo di viaggio dell’anima conosciuto. Ed Morrel, quello vero, condannato all’ergastolo per aver fatto parte di una banda di banditi ferroviari un po’ anticapitalisti, fu graziato in seguito al successo del Vagabondo delle stelle. Darrel Standing invece, condannato alla sua esistenza di eroe fittizio, continua e continuerà a morire e rinascere, morire e rinascere per l’eternità, dalla prima all’ultima pagina nell’eterno ritorno della prigione in cui è stato rinchiuso.

Centrale, stazione di Centrale, lasciare scendere i passeggeri prima di salire.

Bonus:

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Cinquanta isole.

atlanteNon mi sono restati molti ricordi della mia infanzia, o di tutto il resto della mia vita. Tendo a dimenticare molto facilmente tutto quanto, anche per questo scrivo in questo posto. Mi resta però, e spero mi resterà per sempre, la memoria di un viaggio fatto con i miei genitori alle Canarie. Incredibilmente mi porto dietro una quantità straordinaria di dettagli: il cappellino a righe colorate, una valigetta di cartone rossa e gialla dove mettevo i fogli per disegnare e una quantità assurda di pennarelli colorati, la gita al vulcano, il negozio di souvenir vulcanici e il messaggio registrato che avvertiva in tantissime lingue che era severamente vietato asportare detriti piroclastici dalle falde del monte. L’asfalto bollente della pista d’atterraggio. Ma soprattutto c’era l’isola. Non quella dove eravamo atterrati e dove avevano costruito l’albergo dove soggiornavamo, ma quella della piscina. Al centro esatto c’era una struttura piastrellata e riempita di terra, dove crescevano rigogliose piccole palme e arbusti dalle forme strane dai fiori colorati. Non sapevo nuotare e allora pregavo continuamente mio papà di portarmi sull’isola, così da poterla esplorare. Una ben misera esplorazione sul cornicione di una grossa aiuola, ma inspiegabilmente attraente. Nel mio universo di bambino era remota, solitaria e inaccessibile, perché nessuno ci voleva andare. Se stessi scrivendo un’autobiografia potrei dire per certo che erano i primi stimoli naturali ed innati verso la grande passione esplorativa del mio fulgente futuro. Ma non è il nostro caso: le isole continuano a piacermi, ma ne ho esplorate ben poche, dal mio cuscino.

Che fantastica occasione allora, il regalo di Natale della mia ragazza. Con l’Atlante delle Isole Remote di Judith Schalansky (pp. 143, euro 21.50, Bompiani, traduzione Francesca Gabelli) potevo finalmente darmi all’esplorazione immaginativa, sicura ed economica, da sotto le coperte o stravaccato sul divano. E questo era anche l’obiettivo dell’autrice, con cui condivido la morbosa passione per le carte geografiche e le loro lussuriose seduzioni esotiche e immaginarie. Cinquanta tavole per cinquanta isole diverse, accompagnate da tutti i dati topografici necessari, dalla cronologia delle esplorazioni e da un breve racconto, come potrebbe esserlo l’articolo di un blog.

L’Atlante ha vinto dei premi di design ed è stato nominato “Libro più bello dell’anno” in Germania, e il modo in cui è stato confezionato è parte integrante della sua bellezza. Si alternano pochi forti colori: l’azzurro del mare e l’arancione degli insediamenti umani, il bianco punteggiato dei reef sottomarini o la densa pennellata dei ghiacci perenni; mille sfumature di grigio tipografico che di volta in volta diventa roccia, sabbia, scogliera, pianura, rupe, collina, vulcano, fossa, costa, cima. In bianco i nomi delle cose acquatiche baie laghi golfi e insenature, in nero i nomi della terra città vette casupole e capi. Ogni segno topografico è portatore di significato e di elegante bellezza, come i nomi dei fiordi, che si incurvano per seguire il profilo del loro proprietario. Cinquanta forme e dimensioni diverse: lacrime, grossi sassi, pinne, triangoli, salsicciotti, anelli, draghi marini, padelle, asce, arance, o semplicemente isole a forma di isola, un confine frastagliato con attorno il mare. Cinquanta storie, bellissime e uniche, tremende e spietate, di alcune non troverete notizia se non in questo libro. Storie di esploratori e di naufraghi, di scienziati e di avventurieri, di pinguini e granchi. La storia di Amelia Earhart, donna e pioniera del volo, che scompare nel blu dell’oceano mentre la radio invia richiami sempre più deboli. Quella degli ammutinati del Bounty, e delle loro disgustose abitudini. Isole tropicali sommerse e distrutte dall’innalzamento del mare, per colpa del sale che brucia le radici delle palme e rovina la falda di acqua dolce. Colonie penali e spedizioni scientifiche frustrate. Anomalie genetiche trasformate in racconti poetici. Sogni in lingue sconosciute. Brevi squarci, senza pretesa alcuna di esaustività, che vi spingeranno a controllare su Wikipedia per saperne di più. Cosa che vi lascerà profondamente frustrati: molto spesso l’unica fonte sarà solo questo libro.

Un libro da leggere tutto d’un fiato una domenica pomeriggio piovosa, sognando mari cristallini e noci di cocco; oppure una calda mattina estiva, immaginando lontane distese ghiacciate. Questo album di sogni merita di essere letto e riletto, come un libro per bambini, tutte le volte che vorrete. Un biglietto economico per l’incontaminata isola della vostra fantasia. Immersa in cinquanta pagine azzurre.

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Germogli tra le macerie.

71RUw9k3ujLDa giorni e settimane ormai, girovago ramingo col pensiero. Mi illudo, dopo essermi coricato, di aver afferrato un lembo di verità, di essere arrivato al giro di boa, all’intuizione che mi porterà indietro, a scrivere questa benedetta recensione. Leggiucchio brandelli, citazioni avulse, vaneggiamenti vari, insulti generalizzati, cercando di trovare conferme ai movimenti della mia coscienza. Ovviamente il tutto inutilmente. Argomenti che sembravano importanti si stemperano in dettagli di un quadro più grande e, paradossalmente, più semplice. Ogni considerazione politica, filosofica, teologica, critica si abbatte con fragoroso rumore di fronte alla sconcertante realtà, dalle motivazioni profonde che hanno mosso l’autore di questo libro. Le rocce possenti, le analisi granitiche tenute assieme da testimonianze, lettere, saggi, si allentano e crollano. Potremmo stare giorni interi a confutare una per una tutte le teorie, le spiegazioni che vengono date su “il vero significato di”. Senza arrivare da nessuna parte. Tolkien è vissuto e ha scritto in uno dei momenti più oscuri della Storia dell’uomo. I deserti senza vita di Mordor, la terra del Nemico, sono aridi e repellenti, fangosi e sudici, sono gli stessi che ha trovato in Francia durante la battaglia della Somme. Dobbiamo però fermarci qui, ogni altra allusione è un azzardo. La Terra di Mezzo rimane solo la Terra di Mezzo, dove l’allegoria non può trovare casa. Ho cercato consiglio nel cielo e nella terra, nei corvi che fanno cadere le noci dall’alto, ma nemmeno il mio animale totemico ha saputo darmi una mano. Ho lasciato decantare questa recensione per lunghissime settimane, chissà se alla fine sarai d’accordo con me. Rompiamo gli indugi e cerchiamo di mettere assieme i pezzi, amico lettore.

Ho letto la prima volta Il Signore degli Anelli quando ero ragazzino, non ricordo bene dove e quando, poi l’ho riletto una seconda, una terza e una quarta. Ho perso il conto di quale sia l’ultima. Ho cominciato a disegnare cartine e a inventare nomi, che avevano tutto il loro significato nelle linee contorte di una costa o nel cupo suono di Udûn. Il piacere stava tutto nel lasciarsi trasportare fuori dalla tranquilla, accogliente, borghese e britannica Contea, scoprendo man mano pericoli sempre più cupi e terribili. Moria, Orthanc, Mordor. Abbandonarsi al racconto che ritmicamente si allunga tra luce e oscurità, tra fuga e riposo, tra battaglia e contemplazione. La storia in realtà la sapete già, come me, anche se non avete mai letto il libro e mai lo farete. E sapete benissimo che ci sono i Nani, gli Elfi e gli Uomini e, ovviamente, ci sono gli Hobbit. Ci sono mostri terribili e raccapriccianti, nascosti e striscianti nelle profondità della terra o ripugnanti esseri alati. Creature abiette ed eroi, foreste vergini popolate da alberi parlanti e torri di pietra aguzze e scintillanti, lande desolate ricoperte di scorie maleodoranti e accoglienti locande dove servono birra così buona da sembrare stregata, canti in lingue musicali che curano l’anima e maledizioni terrificanti che la annientano. Eserciti dalle armature lucenti e pire funebri. Prodigi e forze che sprigionano una forza vitale arcaica. Un Nemico da sconfiggere, aiutanti e antagonisti, strumenti magici che sarebbe molto meglio non utilizzare mai. C’è tutto un mondo là dentro, ma lo conoscete già. Avrete visto il film. Dovreste leggere il libro.

Ma cos’ha, qual’è la magia del libro? Gli strumenti usati da Tolkien per creare il suo mondo sono tutto sommato semplici, a portata di qualunque scrittore, antichi: un sapiente e consapevole dosaggio di dettagli al limite della follia contrapposti a poetiche vaghezze. Come nel nostro di mondo, si vede bene ciò che si ha vicino, mentre le montagne lontane si sfumano nella foschia, pronte per essere popolate dal mistero. Fa più paura un esercito schierato o i tamburi che risuonano lontani nell’oscurità? Nuvole oscure ottenebrano la vista, mentre il pensiero va ai compagni lontani e forse perduti. Ogni volta che lo leggo rido, e piango anche. Assaporo l’attesa e divoro le pagine. Penso a tutta la letteratura di genere che è mai stata scritta e so che non ci sarà mai nulla di simile. Penso che gli scrittori che provano ad emularlo si sentano come Petrarca che prova a scrivere in terzine incatenate. Perché è diverso da tutto? Perché è migliore di tutto? Forse è sempre la stessa vecchia storia: la bellezza di un libro dipende sempre da quanta anima l’autore deve strapparsi per donare la vita a quello che scrive. Qui dentro c’è tutta una vita.

J.R.R.Tolkien ha inventato una lingua, gli ha dato degli esseri che potessero pronunciare le sue melodiose parole e un mondo magico dove farli camminare, belli e splendenti sotto le stelle luminose. E poi ha fatto in modo che il mondo degli elfi andasse in rovina, così che noi potessimo piangere assieme a loro la scomparsa del loro mondo in una lunga e sofferente elegia. Per permettere alla vita di continuare, il vecchio mondo deve farsi da parte. Il Signore degli Anelli è ambientato in un mondo di macerie, dove oltretutto con la sconfitta del male scompariranno molte altre cose antiche e meravigliose, canti e racconti verranno dimenticati. Dalla terra spuntano statue dagli occhi vuoti, buchi nella pietra che ci ricordano come tutto è in perenne trasformazione. Gli elfi cantano la nostalgia del mare, gli Ent quella delle loro compagne perdute, ogni cosa è destinata a scomparire vaga nell’immensità dell’Oceano, più vasto di tutte le montagne e di tutte le pianure della Terra di Mezzo. E tutto questo solo per suscitare nei lettori nostalgia di un luogo dove non sono mai stati, i tedeschi la chiamano fernweh. Non c’è nient’altro. Niente Madonne o diavoli, monarchi inglesi e razze superiori. Le spade che scintillano nel buio, le cariche poderose della cavalleria, gli agguati nei boschi, le migliaia di pagine sottili di questo libro non sono nulla, nulla, se non storie. Non significano niente se non se stesse. È un libro che parla di morte e vita, primordiale. Alla fine avrete nostalgia di tempi e luoghi che non sono mai esistiti. Solo questo.

Non è un mondo preciso e cristallino, dove le corrispondenze illuminano di significato ogni versetto. È solo una lunga, meravigliosa, remotissima storia, con la potenza dell’epica e la profondità del romanzo. È come un poema antico, di cui abbiamo solo un canto. L’unica cosa secondo me sicura, che si può dire su questo libro è la speranza nella Vita. Nel buio più estremo può brillare la luce, da un vecchio albero morto possono nascere ancora germogli, un vecchio e stanco re può trovare ancora forze nelle sue ossa antiche. La pace è costosa, e le ferite più profonde sono quelle dell’anima ma tutto è comunque poca cosa, destinata a scomparire e a diventare altro. La razza degli Uomini, così debole, così mortale, così sciocca, avrà sempre una possibilità e questa speranza dorme, in un buco nella terra. È questo il segreto. Tolkien era un filologo, un linguista. Sapeva che le lingue non muoiono, ma si trasformano; cuce un arazzo fisso e immobile, lontano nel tempo, in cui però tutto germoglia, silenzioso ma vivo. Tutto il resto è un debole tentativo di piegare una storia troppo grande dentro le maglie di un interpretazione che sarà sempre stretta. Se lo leggerete, dovrete farlo solo per la sua ineguagliabile capacità di portarvi in un altro mondo, la meraviglia e il terrore. Nient’altro, e verrete accontentati.

 

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Sul ridere di un sikh a Milano. E Terry Pratchett.

tartLa scorsa settimana, mentre attraversavo Piazza Duomo per andare in università, una voce risuonava forte e metallica da un altoparlante. Proveniva da Piazza Fontana, proprio lungo il mio percorso. Avvicinatomi, le parole continuavano ad essere incomprensibili. Mi aspettavo una riottosa protesta di studenti, fumogeni e trombe da stadio, oppure una manifestazione di commemorazione di qualche memoria che mi era sfuggita. Mi affacciai sulla piazza e quello che trovai fu decisamente lontano dalle mie aspettative: la comunità sikh italiana manifestava (quando sono passato c’era molta meno gente) a favore del rilascio dei marò. Aldilà del bene e del male, era impossibile non sorridere: una protesta educata e ordinata, composta da una decina di giganteschi barbuti e inturbantati che ascoltavano quello con la barba e il turbante più grande parlare in una lingua assolutamente incomprensibile gesticolando con ardore. Persino i manifesti erano scritti in punjabi. Le teste sotto i turbanti annuivano alle invettive del loro capo sul palco, le braccia incrociate, le gambe leggermente aperte. La scena non era divertente in sé, ma per il luogo dove si svolgeva. Dei sikh in Punjab non destano certo scalpore, ancora meno se protestano contro la liberazione dei soldati italiani. Una vaga situazione di assurdo, di oltrepassamento di qualche barriera spazio-temporale, che ci separa da un universo parallelo fu quello che provai. Allo stesso modo la percezione del contrario, dell’assurda variazione rispetto alle aspettative produce l’umorismo. Sembrerebbe quindi che basti prendere un normale romanzo, una comune storia, e scrivere esattamente il contrario di quello che viene raccontato. Ebbene, non basta.

I romanzi, racconti, testi teatrali, poemi epici, che vogliono far ridere sia con la pancia che con la testa, non possono limitarsi ad essere una copia, una semplice parodia, un ribaltamento agli antipodi delle loro seriose controparti. Storpiare qualche nome, ribaltare qualche situazione, parolacce e allusioni sessuali non sono sufficienti. Perché tutto questo intricato discorso? Per cercare di spiegare cosa sono i libri di Terry Pratchett. Presentato come l’inventore del fantasy-comico e come uno scrittore di fortunatissimi libri che possono essere letti anche da chi non ama il fantasy, l’autore inglese per Muninn è molto di più. Come tutti i grandi creatori di mondi. La verità è che un grande libro umoristico non è solo umoristico e Pratchett riesce a fondere nel suo calderone creativo realtà e finzione, parodia e tributo, avventura e ridicolo, grazie a un incredibile potere immaginativo e al talento per identificare i mille piccoli dettagli degni di essere raccontati.

A me le guardie! (Salani, pp. 358, euro 15, traduzione Antonella Pieretti) è il primo libro di uno dei tanti cicli ambientati nell’universo infinito di Mondo Disco. Nessun’illustrazione, niente mappe, solo il grande potere delle parole e dell’immaginazione.

Ankh-Morpork è una grande metropoli che giace al centro di una grande pianura. Questa enorme città, un po’ Londra un po’ Roma un po’ qualsiasi agglomerato informe di costruzioni vecchie nuove sudice o eleganti che possiamo chiamare città, accoglie tutta l’umanità possibile, anche quando per umanità si intendono nani, troll, e cose che una scimmia troverebbe offensive definire “l’anello mancante” come il caporale Nobby della Guardia Cittadina. Il capitano di questa Guardia è Samuel Vimes, e da molto tempo non ha nessun lavoro che non sia finire bottiglie di wiskey economico. La città di Ankh-Morpork è infatti attivamente gestita da un efficiente sistema di gilde e confraternite, tra cui quella dei mercanti, dei mendicanti, dei maghi, dei ladri e degli assassini. Non c’è molto lavoro per i tutori della Legge. Si. Perché si è rivelato molto più comodo, pulito ed efficiente creare un sistema di furti e omicidi organizzato, in cui tutto è un servizio a pagamento, anche restare vivi. Due cose arrivano a turbare questo disordine razionalizzato: Carota, muscoloso giovanotto cresciuto sottoterra dai nani, e un drago. Il primo, come tutti i nani o presunti tali di due metri d’altezza, non ha il senso dell’umorismo e si aspettava di trovare un glorioso corpo di uomini d’arme in cui arruolarsi ma..no, niente ma, i nani hanno solo sicure certezze. Il secondo è stato portato in questo mondo da qualcuno a cui il sistema che sostiene la città non va proprio a genio. Come nei migliori noir e polizieschi il capitano Vimes dovrà estrarsi dal suo rifugio alcolico per scoprire chi sta cercando di ribaltare i fragili equilibri su cui galleggia Ankh-Morpork. E si sogghigna, tanto.

Terry Pratchett riesce a far ridere come al solito, con la sua incredibile capacità di giocare con le parole, con i topoi di ogni genere e tempo, senza mai smettere di pensare, e farci pensare, a quello che è Giusto e Sbagliato. Inventa un mondo, prepara dei personaggi, e poi li fa deflagrare. A volte letteralmente. I suoi libri non sono parodie, che avrebbero sempre bisogno di un originale da cui succhiare linfa vitale, ma universi autonomi in tutti i sensi, visti attraverso una lente deformante, che mescola o forse riordina, i tanti piccoli pezzetti del mondo in cui viviamo. I grandi umoristi parlano sempre di cose serie.

«Ben déto, pukka sahib, ben déto!» dice una voce proveniente da un piccolo spazio tra una barba e un turbante arancione.

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Storie di pirati.

Quindici uomini sulla cassa del morto,

yo-ho-ho, e una bottiglia di rum!

isolatesorocopertinaCi sono storie che, se ben raccontate, vivono per sempre. Nascono nella mente dell’autore, passano comodamente la vita nel loro mondo di finzione aspettando che qualche lettore le faccia rivivere nella sua, di mente. Ce ne sono altre invece, che per qualche strano motivo cominciano a fuoriuscire a fiotti dalla fantasia eccitata dei lettori, smettono di esistere solo tra carta e inchiostro (o bit e pixel) e prendono vita propria. Passano di media, vengono adattati, ridotti, illustrati. Ne fanno versioni per bambini, musical con o senza i Muppet, serie televisive e film, canzoni e cartoni animati. Si arriva fino al punto che la loro presenza nell’immaginario universale è così pregnante da far dimenticare le proprie origini. Una di queste storie è L’isola del tesoro (BUR, pp. 319, euro 9.90, traduzione Michele Mari).

Ho letto il libro, il libro vero, quando ero “grande” ormai: l’ho finito poco più di una settimana fa, grazie a un amico. Ma non potrei dire di non sapere la storia dentro al libro, che mi era giunta agli occhi e alle orecchie nei modi più diversi. E uditivo è il mio primo ricordo: il mio papà, quando ero piccolo, ogni tanto cantava quei versi che aprono l’articolo, forse per farci addormentare o forse perché faceva piacere a lui, solo quei due versi, variati e ripetuti. È la canzone dei pirati, che tutti conoscono e che segna il loro destino di bucanieri, fuorilegge al di là di qualsiasi regola, e di qualsiasi ragionevolezza. È la canzone che canta Long John Silver, che canta il capitano Flint, che canta Billy Bones, che canta il vecchio Ben Gunn. Solo che sulla carta – ovviamente – la melodia non c’era: la maledizione di chi nei romanzi mette delle canzoni o delle vecchie filastrocche. Io invece, fortunato, ero l’esclusivo possessore di una serie di note profonde e misteriose, una piccola storia a sé stante, col brivido della bara e l’incognita dell’alcool di contorno.

Ma la mia era solo una decorazione, un bellissimo ghirigoro che fa da cornice a un quadro: il meglio stava sulla tela. Se l’opera di Robert L. Stevenson è diventata uno dei libri letti dai ragazzi di tutto il mondo il merito è tutto suo, non di una canzone. Raccontare non è affatto affar semplice e questo libro è l’eterno rimprovero a chi lo pensa: i personaggi e le storie possono essere semplici ma devono essere profonde. Profondità che si può dare con due righe come con cento pagine e non è sinonimo di complessità. Non scriverò mai che il Capitano Smollett era un perfetto gentiluomo britannico, ligio al dovere ed educato; ma gli farò pronunciare queste parole sotto una pioggia incessante di piombo, mentre un cannone gli viene puntato addosso: «Signor Trelawney, vorreste per cortesia abbattermi uno di questi uomini? Hands possibilmente». Sembra facile ma non lo è, serve una capacità immaginativa superiore per creare personaggi così belli e ben fatti da poter vivere al di fuori del mondo di carta del libro.

Ed ecco allora sfilare sotto i nostri occhi i componenti della ciurma: il dottor Livesey, inamidato, parruccato e razionale prototipo del dottor Maturin, il rigido capitano Smollett e l’irascibile Sir Trelawney con sopracciglia folte e nere e un irruenza degna del capitan Haddock di TinTin. Il reietto Ben Gunn, novello Robinson Crusoe che quasi è uscito pazzo dalla lunga solitudine, salta come una scimmia e ulula le sue vecchie canzoni nella foresta, Israel Hands e gli altri marinai e bucanieri della ciurma, sporchi ubriachi e ringhiosi, con quella folle luce negli occhi. E poi lui, il cuoco di bordo, Long John Silver. Che senso ha nascondere che lui in realtà è un pirata e il capo dell’ammutinamento? La sua fama corre per i sette mari e supera quella di tutti gli altri, persino del suo creatore. Long John è un pirata, gli manca una gamba ma in compenso ha un pappagallo e la battuta sempre pronta. Lui è il pirata, l’avventuriero, il voltagabbana, il ribelle, il fuorilegge, da tutte le leggi, persino da quelle dei suoi stessi compagni di rapina.

Cosa puoi dire su L’isola del tesoro? È la storia dei pirati, i pirati faranno i pirati e se sull’isola c’è un tesoro qualcuno lo troverà. Degli uomini moriranno e altri torneranno a casa per raccontare questa storia, come il giovane Jim Hawkins, il nostro narratore, che sembra assolutamente incapace di fare la cosa giusta al momento giusto e che non è proprio un bell’esempio per un ragazzino. Perché allora questo libro viene fatto leggere ai bambini di tutto il mondo? Perché educa, ma non a distinguere il giusto dallo sbagliato, ma ad emozionarsi. Ben miseri sarebbero i coraggiosi bambini senza paura del buio. La sera prima di addormentarsi le canzoni dei loro padri non direbbero nulla, solo combinazioni matematiche di vibrazioni trasmesse dall’aria.

Quindici uomini sulla cassa del morto,

yo-ho-ho, e una bottiglia di rum!

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Los Tres Caballeros.

tres-caballeros-los-img-3085Chi segue con devota assiduità questo blog avrà notato tra alcune delle ultime recensioni un sottile filo rosso, o come dicono i francesi: fil rouge. O come dicono i tedeschi: Rotdraht. Una remota popolazione del caucaso non distingue il colore rosso dagli altri e lo indica generalmente con Maragagandu…dicevamo. Una piccola ricerca mi ha permesso di scoprire come tre libri fossero imparentati fra di loro: nell’enorme e infinita biblioteca dello scibile umano questa connessione può risultare ridicola, microscopica e insignificante. Ma dopo averla trovata quasi per caso sono stato felicissimo di seguirla. Tre autori differenti, diversissimi per stile, fortuna, tecniche espressive e poetica, accomunati dal magnetico fascino per le distese polari e i misteri che si celano oltre il novantesimo parallelo. Andiamo a scoprire i nostri protagonisti.

Il capostipite.poe-in-shades-fb-rachel-earling-hopson

Nella sua vita breve e travagliata Edgar Allan Poe trova il tempo e la voglia di scrivere un solo romanzo. Considera questa forma espressiva troppo lunga e dispersiva per catturare l’attenzione del lettore. Nonostante questo Le avventure di Gordon Pym è uno dei più straordinari romanzi d’avventura mai scritti. Avvincente e sottile, la struttura narrativa di questo libro è sorprendente e anticipatrice. Dalla ribollente immaginazione di questo scrittore nascono immagini così potenti da ispirare gli altri due caballeros. Il suo genio riempie gli spazi vuoti della mappa polare come Marco Polo le distese del Cataio, popolandole di esseri e forme bizzarre, di luoghi misteriosi e pieni di meraviglie nascoste.

QUI potete leggere la recensione.

Lo scienziato.tumblr_lslpuveVrG1r4qbsro1_500

Jules Verne non nascose mai la sua ammirazione per lo scrittore americano, alcuni dei romanzi pubblicati nella serie Viaggi Straordinari sono direttamente ispirati ai racconti di Poe. Ma con La Sfinge dei ghiacci Verne fa molto di più, scrive il seguito delle avventure di Pym. Ma lo fa a modo suo, ripercorrendo la stessa rotta con un atteggiamento diverso: non è più il racconto misterioso di un avventuriero ma il preciso resoconto di un geologo, uno scienziato positivista, per cui ogni mistero può essere risolto con la forza della ragione e dell’esperienza. E’ un ingegnere gestionale con la passione per le avventure in dirigibile. Eppure anche in questo libo i misteri e le domande lasciate senza risposta non mancano.

QUI l’altra recensione.

Il matto.HP-Lovecraft

H. P. Lovecraft, se fosse vissuto ai nostri tempi. sarebbe uno di quegli stramboidi che contattano i blogger per promuovere i loro e-book strampalati e sgrammaticati. Non ci possiamo fare niente. Alle montagne della follia è scritto male. Anche se siete dei fan e non potete arrivare a tanto, dovrete ammettere che non è tra i più riusciti. Pensato come il suo vero grande debutto nel mondo delle lettere, si trasformò in una cocente delusione, ponendo fine alle sue ambizioni di scrittore, nonostante il meglio della sua produzione sia tra le cose scritte in seguito. Pieno di continui e fastidiosi riferimenti al ciclo del Necronomicon e con una varietà di desrcizioni e sinonimi degna di un libretto d’istruzioni, questo libro, inspiegabilmente, attrae. E non sono i mostri schifosi, gli alieni terrorifici, l’ansia claustrofobica. Sono le montagne. Delle montagne altissime, meravigliose e paurose. Tutte le montagne fanno quell’effetto viste dalla pianura. Ma queste montagne, alte più di 10.ooo metri nascondono orrori e segreti senza nome, che annichiliscono proprio perché non vengono mostrati o nominati. Nonostante Lovecraft faccia di tutto per rendercele antipatiche ricordandoci un milione di volte quanto “ricordino l’abominevole altipiano di Lang” loro stanno lì e continuano a spaventarci.

Questi tre autori sono considerati “di culto”. Significa che hanno dei fan-club e della gente mette le loro facce sulle magliette con più disinvoltura di quanto facciano con quella che so, di Primo Levi. Sono letti con ardore anche da personaggi che altrimenti non leggerebbero nient’altro nella vita e trovano accoliti fedeli al limite dell’integralismo. Forse con l’eccezione di Poe sono drammaticamente ignorati da una certa cultura accademica, proprio per i limiti stilistici di cui abbiamo parlato sopra. Ma non è questo a renderceli così simili e così preziosi. E neppure Gordon Pym o il sinistro «Teke-li! Teke-li!» che riecheggia o meno sulle distese ghiacciate delle loro pagine. E non è il Polo Sud e non la neve o le montagne. E’ il mistero. Il non detto, lo spazio bianco sulla carta, la pagina intonsa, lo sguardo fuori campo, il racconto interrotto. I nostri tre cavalieri hanno imparato che non è la loro fantasia a conquistare definitivamente il lettore, non sono mostri, terre fatate e avventure. E’ il sobbalzo, il fremito tra le scapole che precede di poco il pensiero: «E poi?» La voglia pazzesca, non appena hai girato l’ultima pagina, di cercare subito un altro libro, che ti chiarisca quel poi. La sicurezza, la dolce rassegnazione nel sapere che però nessun libro ti soddisferà e che la ricerca sarà senza fine, eterna.

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La sfinge dei ghiacci.

Un giovane ragazzo, figlio di un avvocato della provincia francese, tentò una volta di scappare di casa per imbarcarsi su una nave mercantile. Come Gordon Pym prima, come Conrad dopo. Lo spirito del mare lo chiamava, quello spirito che ti prende allo stesso modo tra le pagine dei libri e sulle scogliere di fronte alle onde. Scappò di notte dalla grande casa calda per vedere luoghi che conosceva solo di nome. Corruppe il capitano per farsi imbarcare, preparò con cura il suo bagaglio, pronto ad abbandonare per sempre il paese dove era nato. Il padre lo ripescò adirato qualche giorno dopo, in un porto poco distante. Non provò più a scappare di casa. Cercò quell’avventura che tanto bramava tra le pagine asciutte dei libri, studiò e si laureò in Lettere e cominciò a scrivere poesie. Ma il padre non condivideva, lo ripescò di nuovo dai suoi libri e lo costrinse a concludere gli studi di Legge. E lui obbedì. Come sempre. Divenne agente di cambio, si sposò con una donna facoltosa e si avviò a trascorrere una tranquilla esistenza borghese nel paese più borghese del mondo.

Non proprio la più avvincente biografia che abbiate letto, non è vero? Hemingway, Dumas, Conrad, scrissero libri interi sulle imprese che li resero uomini e scrittori. Ma il ragazzino obbediente non visse mai le sue avventure. Chiuso tra conti e scartoffie burocratiche si dovette accontentare di sognarle. Come si sa però, i sogni a volte sono più vividi della realtà.

Un bel giorno decise di raccontare a tutti le sue fantasie di bambino e trovò un editore che pubblicò i suoi viaggi straordinari, divenne ricco e famoso, tutti i ragazzini che non potevano partire per i mari del Sud leggevano i suoi libri. Jules Verne aveva però un grosso debito, con Edgar Allan Poe. Quando nessuno ancora parlava di libri d’avventura, lui aveva portato i lettori aldilà delle terre conosciute, nel biancore assoluto dell’Antartide. Lui aveva creato Gordon Pym, il primo di tanti ragazzini avventati che affronteranno i pericoli del mare, a lui doveva lo spirito che infiammava i suoi libri.. Estinse il debito, a modo suo.

La sfinge dei ghiacci (Mursia, pag. 320, euro 13,30) è il seguito delle Avventure di Gordon Pym. O meglio. In questo racconto Le avventure di Gordon Pym smettono di essere solo un libro e diventano la realtà. Ma come? Non era solo un romanzo? Questo è quello che credevamo tutti, dopo i giochini letterari di Poe, ed è quello che credeva anche il signor Jeorling, giovane e benestante geologo in cerca di un passaggio per le Falkland. Una misteriosa coincidenza porterà la goletta Halbrane su cui si è imbarcato a cambiare rotta, direzione Sud. Il capitano dell’Halbrane è infatti Len Guy, fratello di colui che guidò undici anni prima Gordon Pym tra i ghiacci. Il legame di sangue è più forte di ogni ragionevolezza e porterà il coraggioso equipaggio dove nessun altro, forse, è mai stato prima. Una lunghissima scia di indizi rende sempre più simile alla realtà il fantasioso resoconto di Pym. Verne ruba a mani basse personaggi e descrizioni, titillando il lettore avveduto, sussurrandogli quanto sia bravo a svelare i misteri della trama. Incoraggiandolo a riflettere su quanto dovrà aspettarsi da una spedizione che segue un diario allucinato.

Ma Verne è cresciuto, è un positivista, un fedele discepolo del pensiero razionale. Non può giustificare le straordinarie scoperte raccontate da Poe-Pym. Il suo è un mondo razionale, fatto di conti e di statistiche, di cartine precise e rilevazioni geologiche, latitudine e longitudine sono indicate con precisione e una cartina dettagliata mostra il percorso. Il bambino è pur sempre diventato un agente di cambio. Ma questo non rende la trama meno avvincente. La realtà non è meno avventurosa della fantasia. Verne riporta il folle viaggio tra i ghiacci sui binari della credibilità. Una cosa però ha imparato, è il mistero dell’ignoto ad attirare il lettore nell’Antartide, finché ci sarà qualcosa di vuoto, uno spazio bianco di neve sulla mappa, lui vorrà sapere cosa c’è. E l’autore tiranno è libero di accontentarlo o meno. Svelare o meno dalle nebbie la Sfinge dei ghiacci.

Io lo ripeto: come mai un uomo di buon senso avrebbe acconsentito a discutere seriamente su quegli avvenimenti? Nessuno, a meno di aver perso la ragione o di essere fissato su quel caso speciale, come lo era Len Guy – lo dico per la decima volta – nessuno poteva vedere nel racconto di Edgar Poe altro che un’opera nata dalla sua fervida fantasia.

Tra misteri magnetici e ammutinamenti, iceberg assassini e terremoti mostruosi, la scienza di Verne può competere con la fantasia di Poe. Ma l’omaggio al maestro non è un’inutile spiegazione, è un mistero più fitto. Le domande vere risuoneranno a vuoto in eterno. Ma la voglia di saltare su una nave per cercare le risposte, quella rimarrà la stessa di un tempo.

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Un mare di avventure.

Che cos’è un genere? Sostanzialmente un’etichetta nuova che appiccichiamo su uno scatolone bello grande dove abbiamo messo un po’ di libri che magari hanno un particolare in comune. Per alcuni motivi che ora sarebbe lungo spiegare, si è deciso che ci sono i racconti dell’orrore, che fanno spavento, i romanzi d’avventura che manco a dirlo, sono avventurosi e poi i gialli, dove si risolve un crimine. Poi c’è chi dice che ci siano i thriller, che fanno spavento come i racconti dell’orrore ma che non sono proprio così…

Ma di cosa sto scrivendo? Ingarbugliarsi in discorsi teorici all’inizio di una recensione è quanto meno sconsigliabile. Ma che fare? Il libro di oggi sfugge da una parte e dall’altra, come una saponetta bagnata. Non si lascia afferrare. Certo, potrei scrivere tranquillamente che si tratta di un libro di “avventure per mare”. Ma mancherebbe qualcosa, nella definizione di questa massa multiforme eppure perfettamente organizzata. Sento, si, credo proprio di sentirlo…lui, l’autore. Ride. Una risata sabbiosa, quasi una tosse, che arriva da un luogo lontano e chiuso, dove non c’è spazio per l’eco. I secoli cominciano ad accumularsi sopra alle assi di legno marcito della sua bara, ma sono sicuro che lui, proprio ora, stia ridendo. Di gusto. Sarebbe una risata cristallina e piena di gioia, se non fosse per le condizioni non proprio presentabili del suo cadavere, costretto in pochi metri per l’eternità. Ride perché ha raggiunto il suo scopo: mi ha portato a spasso per i mari, tra tempeste e ammutinamenti, fino ai mari inesplorati dell’Antartico. Mi ha condotto per mano, dosando con sapienza artigianale una quantità incredibile di dettagli inutili con avvenimenti inverosimili. Ha stuzzicato la mia curiosità, la mia voglia di scoprire fino a che punto potesse arrivare la sua immaginazione. E poi mi ha abbandonato. Solo, disperso. Come un naufrago tra le pagine. Era il suo obbiettivo fin dall’inizio e ora ride.

Le avventure di Gordon Pym (Feltrinelli, pp. 229, euro 8,50) è il libro. Il signor Edgar Allan Poe di Richmond, Virginia, è l’uomo che ride sottoterra. Ci troviamo di fronte senz’altro a un oggetto curioso: è l’unico romanzo propriamente detto scritto dal signor Poe; è stato letto e ha influenzato autori diversissimi come Melville e Verne; è tra i primi a spingere lo sguardo del lettore verso il Polo Sud; potrebbe essere tranquillamente definito “postmoderno”, se solo non fosse stato pubblicato ancora prima che ci fosse qualcosa da definire “moderno”.

L’autore gioca con la sospensione dell’incredulità fin dal titolo, che nell’originale era The narrative of  Arthur Gordon Pym of Nantucket, specificando quindi che si tratta di un racconto, e non di un resoconto affidabile. Qui cominciano i problemi. Edgar Allan Poe autore introduce il romanzo con una nota scritta da Gordon Pym personaggio, che racconta di aver affidato a Edgar Allan Poe personaggio la pubblicazione della sua storia, senonchè da un certo punto in poi sarà Gordon Pym autore a continuare il racconto delle avventure di Gordon Pym personaggio. A questo punto a me faceva già male la testa. Queste premesse vengono però fatte passare in secondo piano dall’abilità dell’autore che ci fa vivere un’ottima avventura marinaresca, condita da una buona dose di orrore ai limiti dello splatter, di ansia claustrofobica e di rapidi colpi di scena ai limiti della credibilità. Il giovane Pym viene sballottato da una situazione pericolosa all’altra, ma sono i rischi del mare. Abbordaggi, ammutinamenti, navi fantasma e naufragi sono all’ordine del giorno nella letteratura del genere. Aggiungete personaggi grotteschi, come DIrk Peters, mezzosangue indiano dalla forza straordinaria ma con una curiosa passione per le parrucche di pelliccia. Come nei viaggi in mare alla tempesta può seguire la bonaccia e da un certo punto il racconto si trasforma in un diario di bordo dettagliato al millimetro che indica con precisione latitudine longitudine e il numero di pelli di foca raccolte nella stagione di caccia. La noia. Perché? Per preparare i lettori a tutto quello che ci sarà dopo. Lo spazio libero nella mappa, che attirava Conrad come un magnete, viene riempito dalla più sfrenata fantasia di Poe. Folli idee antartiche impresse sulla carta senza senso logico, l’immaginazione riempie le fredde regioni polari di allucinazioni e scoperte incredibili. La tensione viene portata al limite, la pagina scorre veloce e inesorabile fino alla fine più sorprendente che possiate immaginare. Cosa? Cosa si nasconde dietro la cortina di nebbie? E quando anche voi avrete letto l’ultima frase e ciò che la segue, la vostra mente si riempirà di inutili domande, a cui è impossibile rispondere. E la sentirete, la risata. Non il riso impastato di un alcolizzato ma la genuina espressione di gioia di un gentiluomo del Sud che vi ha giocato un bello scherzo, mentre sedevate alla sua tavola. E riderete anche voi.

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Nota del recensore.

A pagina 235 di Le avventure di Gordon Pym, nella postfazione scritta dal traduttore e curatore Davide Sapienza si può leggere:

E come non ricordare che Howard Phillips Lovecraft, nel 1931, scrisse Le montagne della follia, la continuazione di Gordon Pym.

Non è vero. Come si può facilmente trovare anche sulla pagina di Wikipedia dedicata al libro, si spiega come Lovecraft abbia solamente tratto ispirazione da alcuni brani del romanzo di Poe. L’unico libro che può essere definito la continuazione o, in italiano, il seguito di Le avventure di Gordon Pym è stato invece scritto da Jules Verne ed è La sfinge dei ghiacci, che sto leggendo. A questo punto viene da chiedersi perché un curatore che abbia perso un po’ del suo tempo per cercare il nome completo di H. P. Lovecraft non abbia controllato che il suo riferimento fosse corretto. Viene da chiedersi perché abbia fatto un’affermazione del genere. Viene da chiedersi perché sia stato scelto questo curatore per Poe e se costui abbia effettivamente una competenza specifica dell’autore americano e dei suoi eredi di qua e di là dell’Atlantico. Viene da chiedersi. Ma siccome al vostro recensore di fiducia manca la lettura di Alle montagne della follia, risposte fino ad allora non ce ne saranno, almeno su Muninn. Per quanto ne capisco però il resto della traduzione non sembra malvagio, nonostante il seme del dubbio sia stato piantato. Se qualche appassionato lettore di Poe conosce un’edizione migliore si faccia avanti, sarà ricompensato.

Se volete saperne di più su La sfinge dei ghiacci leggete QUI.

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Per mare, a vele spiegate.


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on ricordo esattamente a che punto della lunga discesa dal Colle di Cadibona l’ho sentito. Probabilmente non è stato neppure un momento preciso. Mentre la bicicletta correva veloce, curva dopo curva, qualcosa nella composizione chimica dell’aria cambiava. Al 78 % di azoto e al 21 % di ossigeno si era aggiunta una percentuale decisamente alta di promesse e ricordi. Fu solo molti chilometri più avanti, fuori dalla città, su per la strada, che lo vidi. Quasi non me ne accorsi, la salita era proprio una salita e le marce sembravano non bastare mai. Cosciente della sua presenza, rivolsi lo sguardo verso di lui solo alla prima pausa, in cima all’arrampicata. Blu. E nero sotto. Azzurro qui vicino, bianco di schiuma. Se ti piace il mare, se ti piace veramente, se hai una piccola predisposizione genetica, allora lo amerai in ogni suo stato e forma. Ne avrai infinito terrore e inesorabile attrazione. Questo sentimento del sublime, questa tara ereditaria, deve aver spinto alcuni uomini primitivi a spingersi in quella distesa blu e a farsi trasportare dal vento e dalle correnti verso l’ignoto. Il sapere di millenni e millenni di navigazione sono stratificati in un singolo gesto su una barca a vela. Nonostante il progresso tecnologico che addirittura consentirebbe di non usarla più, la vela, alcuni uomini continuano ad andare per mare in questo modo. L’unico momento ancora in cui l’essere umano può sentirsi minimamente vicino al volatile. Veloce sulla superficie scorre lo scafo, ogni piccolo movimento delle vele è controllato da un apparato nervoso fatto di corde, cavi, aste e persone. Queste ali seguono il vento, si fanno portare. Piccolo parassita di forze più grandi di sé, il naviglio a vele è come un seme dotato di intelligenza, è il vento a farlo muovere, ma invece che essere sbattuto a caso, cerca di cogliere sfumature e smagliature per decidere la propria direzione.

Ecco quindi, nell’era delle gigantesche navi da crociera su cui non si sente neppure un minimo rollio, alcuni privilegiati o folli che si sentono ancora padroni/schiavi del mare. Sono queste persone i primi lettori di Patrick O’Brian, pseudonimo di Richard Patrick Russ, ex agente segreto di Sua Maestà e appassionato scrittore di avventure marinaresche. Poi vengono tutti gli altri, innamorati di un sogno di libertà perso nel tempo. Perché così tante persone amano i racconti di mare? Non sono per la maggior parte racconti avventurosi e misteriosi. Anzi. La proporzione giusta è quella di Moby Dick. Un quarto di emozioni e tre quarti di straorzate a dritta, ammainamenti dei controvelacci e lapazzamenti di alberi e pennoni. Un accumulo parossistico di termini marinareschi, indispensabili per tradurre i sottili segnali nervosi che passano dalle parole del capitano alle mani che tirano le corde. Tutto per spiegare la fatica, l’impegno e la precisione che portano delle vele di maestra a riempirsi di vento con quel rumore basso, lo stesso che fanno le lenzuola quando vengono sbattute. Si gioca tutto nell’attesa, di quel momento magico, quando la perfetta sintonia dei movimenti permetterà alla nave di compiere una manovra ardita, per sorprendere il nemico, per salvarsi dalla tempesta.

Primo comando (TEA, pp. 379, euro 8,60) è il primo libro scritto da O’Brian. Il primo in cui piazza sulla scena i suoi due personaggi, maturati chissà dove, ispirati da chissà chi, magari altri agenti dei servizi segreti britannici. Fatti e finiti. Jack Aubrey e Stephen Maturin. Così vitali da sembrare macchiette o caratteristi ma così perfetti nella loro teatralità, nei loro gesti. Sembra di vedere due qualsiasi attori di una serie della BBC, attori shakespeariani che fanno cinema e tv nel tempo libero. Nel perfetto ambiente storico delle guerre napoleoniche la Sophie, piccolo brigantino antiquato, viene tirata a lucido per il primo comando del suo nuovo capitano, e subito a caccia di prede. Navi da guerra francesi, pirati moreschi, navi mercantili che violano il blocco navale, quasi una tranquilla routine. Si torna nel porto, si fa il carico d’acqua, si recupera l’equipaggio ubriaco, si fa di nuovo vela verso il mare. Cosa mai potrebbe succedere di interessante? Sul mare niente resta tranquillo a lungo, la burrasca può seguire la bonaccia. Una nave compare dalle nebbie, un convoglio di navi da guerra armate fino ai denti compare dietro a uno scoglio. La battaglia comincia appena due navi nemiche si avvistano a miglia di distanza, un piccolo movimento può avvantaggiare l’una o l’altra barca. E questo basterebbe a quei relitti genetici che continuano a far vela in mare aperto.

Ma O’Brian coglie e racconta, come se l’avesse vissuta lui stesso con una precisione millimetrica, l’umanità che popola questi pezzi di legno galleggianti, rinchiusa in pochi metri quadri anche per mesi. Le gelosie le invidie le incomprensioni. L’eroismo la solidarietà la fedeltà. L’amicizia. Ecco allora che il libro, la serie di libri, che nascerà dalla penna dello scrittore e dall’incontro tra Aubrey e Maurin sarà per tutti. Meravigliosa.

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Terre senza Luce.

lo-stagno-di-fuocoCi sono libri che, una volta venuti alla luce, si depositano silenziosi sugli scaffali delle biblioteche o sulle mensole di qualche possessore di libri particolarmente stramboide. Al buio. Una breve esistenza negli scaffali delle novità e poi basta, nessuna ristampa, nessun seguito. Il nulla. Un fallimento editoriale. Dobbiamo dispiacerci forse per il loro destino d’oblio? E rimproverare la casa editrice o l’addetto al marketing di aver permesso al libro di scomparire? Era un libro brutto? È possibile invece che per qualche misterioso motivo i libri accecati dalla luce troppo sfolgorante della ribalta decidano motu proprio di ritirarsi dalla vista. Piano piano, anno dopo anno, secolo dopo secolo, questi libri non si trovano più sulle liste, le loro pagine web diventano obsolete, scivolano piano piano grazie alle mani di un’inconsapevole commesso dallo scaffale delle novità a quello di un genere che non è il loro, al magazzino, al macero. È timidezza? O speranza di una gloria più grande in futuro? Forse attendono con trepidazione che un archeologo librario entri nel loro antro polveroso e li renda grandi, più grandi di quanto avessero sperato.

Immaginate che finalmente il Giudizio Universale sia giunto. Ovviamente nessuno se lo aspettava, perché la Sua Mente è imperscrutabile e solo i pazzi o i truffatori conoscono la data precisa. Gran casino su tutta la Terra. E poi tutto finisce. I puri ascendono e si uniscono alla Sua Luce. I dannati si ricongiungono coi loro corpi per tornare al dolore eterno. Ma qualcuno sulla Terra è rimasto. La bilancia per loro è rimasta perfettamente orizzontale. Dio però non c’è più e i legami che tenevano il mondo si sono scossi, fin sotto la superficie. Per trovare la salvezza, per folle spirito d’avventura, per stupidità, una piccola e improbabile squadra di uomini, angeli e dannati decide di scendere là dove nessuno osava andare dai tempi di Dante. L’inferno, lo Stagno di Fuoco. Laggiù le cose però non sono come nella Commedia e in ogni caso non dureranno ancora a lungo: grandi eventi scuotono le profondità delle Terre senza Luce.

Guidati dalla più inaffidabile delle guide (Giuda Iscariota), la nostra compagnia affronterà l’oscurità, la paura, i propri peccati e le proprie colpe, dannati e demoni, spiriti e angeli, creature così antiche da non avere un nome.

Lo Stagno di Fuoco (Sperling e Kupfler, pp.771, euro 18) potrà sembrarvi un banale romanzo d’avventura, con appena l’originalità o l’arroganza di raccontare ciò che solo Dante o Milton avevano raccontato, l’Inferno. Ma non è così. Questo libro è probabilmente uno dei migliori romanzi d’avventura scritto in lingua italiana. Oltre a tenervi attaccati dalla prima alla settecentosettantunesima pagina, questo libro vi stupirà con una serie di citazioni improbabili, personaggi ancora più improbabili pescati dalle letture più strane, dalla Bibbia, dalle leggende medievali, da Dio solo sa quale sogno allucinato, da un romanzo di Dumas, dalla storia finanziaria americana. La cosa migliore di questo libro è che vi stupirà. Continuamente, ad ogni pagina. Daniele Nadir ruba o meglio saccheggia a mani basse libri, autori, canzoni, persone vere con l’entusiasmo del discepolo. Il protagonista ad esempio: Joe Gould, professore di letteratura e barbone che parla frequentemente il gabbianese. È una persona realmente esistita, nonché il protagonista di un’altro libro: Il segreto di Joe Gould, di Joe Mitchell. Tra i dannati potrete riconoscere Dario Fo che si sbraccia mentre sbava parlando il Grammelot. A Kafka è stato rubato il cruccio del padre di famiglia, a Dumas la storia della Solàr. Lo stagno di fuoco è un intreccio di storie inventate e reali, di miti, citazioni storiche e omaggi più o meno celati ma tutti scelti da un ragazzino entusiasta, non da un copione. Una volta finito il libro, se vi metterete a cercare i nomi su Wikipedia, li troverete tutti. Tranne quello dell’autore.

Daniele Nadir racconta una storia e mille storie, mentre il lento cammino delle pagine ci porta sempre più vicini allo Zoso, il centro dell’Inferno, dove il ghiaccio si sta incrinando. Magistralmente accompagnato dalle tavole di Mattia Ottolini, illustratore dal tratto rinascimentale e  fumettaro, tra Michelangelo e Bosch. Scoprirete come si gioca a Senet, come si costruisce un Odradek (ma soprattutto che cos’è, se non avete letto Kafka), personaggi con una vitalità e una profondità indegni di un libro d’avventura. Joe, Giuda, Sara, Michele, Rasiele, i sottili, Satana, il Messia. Un mondo mai raccontato, mostruoso e meraviglioso, dove la crudeltà tocca dimensioni superiori ai sei miliardi. Dove tutto può succedere perché stiamo leggendo una storia raccontata e perché lo Stagno è fatto dai racconti degli uomini. Non c’è spazio per tutto quello che contiene questo libro. Per tutto quello che mi ha regalato la prima volta che lo lessi, al liceo. E’ un libro sul piacere di raccontare, scritto da uno a cui raccontare piace da matti.

Forse non è ancora giunto il tempo di nascondersi, per questo libro. Dovrebbe essere letto ancora, perché se lo merita e se lo merita chi l’ha pensato e scritto. E’ tempo di tornare alla Luce.

Per commenti ed eventuali minacce di morte la mia e-mail è: danielenadir@yahoo.it, e al di là di qualsiasi cosa si possa dire, per me, alla fine, Lo Stagno di Fuoco non è che un romanzo d’amore e d’avventura. Mi auguro che ti sia divertito, ti sia divertita.

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