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Le parole del dolore.

In queste due settimane non ho scritto molto. A dire la verità non ho scritto affatto. Principalmente perché non ho letto. A meno che Progettare siti web standard: XHTML e CSS possa essere considerata una lettura di cui fare una recensione su un blog letterario. Anche se…tecnicamente non so quanto sia valido, ma mi ha fatto ridere un macello. Joffrey Zeldman, l’autore, è proprio fuori di testa. Mi hanno assicurato però che tutti gli autori di libri per l’informatica sono classificabili da “un po’ mattacchione” a “pazzo furioso”. Fate voi.

Eppure un libro c’era e pure bello. L’avevo preso in biblioteca assieme a Progettare siti web standard: XHTML e CSS. C’è una cosa molto bella da dire sul singolo individuo cartaceo che mi è capitato tra le mani: va letteralmente in pezzi. Manca il risvolto di copertina; le prime dieci pagine sono attaccate con il nastro adesivo, anche la costa è ricoperta di nastro adesivo; gli orli della copertina sono consunti e i bordi cominciano a sbriciolarsi; sul retro c’è una cosa che sembra una bruciatura fatta con una lente d’ingrandimento; contiene della sabbia. I feticisti dei libri avranno cominciato a fare gli scongiuri. Questa copia è in uno stato pessimo. Però.

Quando l’ho tirata fuori dallo scaffale in basso e l’ho vista per la prima volta ho sorriso. Ero contento, perché ero in una biblioteca. Non in un negozio di libri usati. L’estrema consunzione del libro era stata causata dalle decine, forse centinaia di mani sudaticce che avevano sfogliato quelle pagine. Ragazzi, nonne, bambine, donne in carriera, avvocati. Ero in una biblioteca ed era una cosa molto bella da pensare. Anche all’autore del libro probabilmente sarebbe piaciuto. Jonathan Safran Foer ci avrebbe tirato fuori una bella storia. I suoi libri sono sempre pieni di oggetti: una chiave, un vaso, dell’argilla, delle riviste, lettere, un libro, diecimila libri, una casa fatta di libri.

Molto forte, incredibilmente vicino (Guanda, pp. 351, euro 16,50) riconferma il talento dell’autore, che con grazia e sincerità decisamente rari racconta la storia di un bambino che ha perso il suo papà e che comincia una ricerca per recuperare i brandelli dei ricordi che non sono ancora diventati polvere. Alla storia di Oskar, ragazzino e inventore immaginario si mescolano sempre più vorticosamente le altre storie: quella della mamma, della nonna, del nonno che non parla, di Mr. Black che abita al piano di sopra e ha una scheda per ogni personaggio importante che sia esistito; di Abby Black che vive nella casa più stretta di New York; del sesto distretto che un giorno, senza ragione apparente, ha deciso di andarsene dal resto della città lasciando solamente Central Park come ricordo. Come un ciclone alle estremità il vento cattura storie sempre più grandi, sempre più lontane, nello spazio, nel tempo: l’attacco alle Torri Gemelle, la bomba di Hiroshima, il bombardamento di Dresda, l’amore tra due ragazzi durante la guerra. Il papà di Oskar è morto un giorno di settembre e l’unica cosa che resta di lui è una registrazione sulla segreteria telefonica, pochi minuti prima che la torre crollasse. Anna, la ragazza che il nonno e la nonna amavano, è morta a causa di un bombardamento che ha fatto ardere (che in tedesco si dice brennen) la città di Dresda per giorni.

Chi aveva amato Ogni cosa è illuminata troverà la stessa spumeggiante e multiforme tecnica di scrittura, la straordinaria capacità di Safran Foer di spiegare il dolore dell’universo con le parole di un bambino, di condensare tutta la tristezza e il dolore possibili in due parole sole al centro della pagina bianca, di rappresentare l’angoscia di chi ha perso tutto e non può fare nient’altro che smettere di vivere e di parlare, perché la vita è più spaventosa della morte e non c’è più niente che valga la pena dire. È un libro in cui non sembra esserci futuro, sepolto sotto i detriti di tutte le guerre del mondo. Eppure.

Quasi per vergogna l’autore affianca ai 2.752 corpi altri 20.000 e poi altri 22.000. Non si danno colpe o meriti a nessuno di questa pesa di cadaveri, sono solo lì. Molto deboli nella memoria, estremamente lontani nel tempo. Qualcuno si ricorda ancora delle persone ricoperte di polvere che guardavano in cielo. In pochi hanno ricordi delle tempeste di fuoco che hanno sommerso una città tedesca e una giapponese. Eppure.

È tutto qui vicino. È tutto pieno di speranza. Un libro da battaglia, creato per affrontare il lutto, qualsiasi lutto, con la lancia in resta e la fronte alta. Un libro che ricorda a tutti di fare invenzioni, di dire alle persone della nostra vita che le amiamo, che non c’è nessuna ragione per essere qui ora su questo granello di sabbia che galleggia nella materia oscura dell’universo, ma abbiamo un’occasione sola e non possiamo sprecarla restando in silenzio. Che, ancora una volta, stiamo sfogliando tutti lo stesso libro rovinato e consunto, pieno di cose meravigliose.

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Una molto difficile ricerca.

Un turista ebreo-americano in cerca delle sue radici, un ragazzo ucraino che vuole diventare un uomo, attraversano l’Ucraina sulla macchina guidata dal nonno cieco, in compagnia della saliva e delle flatulenze di Sammy Davis Junior Junior. Una cagna. Nello shtetl di Trachimbrod (oppure Sofiowka?) i fedeli della RITTA SINAGOGA si azzuffano con gli scompigliati, da così tanto tempo da aver dimenticato il perché.

Davanti al lettore si prospetta una piacevolissima lettura, accompagnati da grotteschi compagni di viaggio e da assurde situazioni. Una lettura tranquilla, divertente, comicità brillante e spigliata. Senonchè, non è questo il libro di cui state leggendo la recensione.“Ogni cosa è illuminata” (Guanda, pp. 327, euro 12) è stato accolto dalla critica come uno dei libri più importanti del nuovo secolo. Perché?

La scrittura di Jonathan Safran Foer è sorprendente. I suoi personaggi non potrebbero parlare diversamente. L’inglese stentato di Alex è un’occasione per colorare esageratamente ogni errore grammaticale, ogni parola che sbaglia è la migliore parola che avrebbe potuto usare. Non si capisce se sia la lingua ad adeguarsi ai sorprendenti personaggi del libro o sia la stessa a plasmarli. I RABBINI DELLA RITTA SINAGOGA PARLANO IN STAMPATELLO, citando il Talmud. Quelli della congregazione scompigliata annotano i sogni, per fondare le Nuove Scritture nella lingua dell’inconscio. Mentre i personaggi crescono lo stile cresce con loro, le lettere di Alex alla fine del libro non saranno solo scritte meglio, ma saranno anche più vere.

Il virtuosismo espressionista dell’autore è allo stesso tempo il pregio e il difetto del libro: le parole non “dicono” soltanto, non si limitano a raccontare i fatti, ma alludono come in poesia, ad altro. Il tributo da pagare è la fatica di leggere, intesa come attenzione dedicata alla lettura. Per apprezzare e capire il libro non si può essere distratti, o superficiali. Ogni scelta è motivata. Quando si raccontano le origini dello shtetl il linguaggio è stilizzato e ingarbugliato, perché la materia del racconto è ancora primordiale, sta costruendo un mito. Gli abitanti del villaggio di trecento anni fa parlano, ma la loro lingua sono i testi sacri, oppure le battute di una commedia yiddish. L’autore non tratteggia i personaggi con descrizioni o le loro azioni, ma con le loro parole. Ogni tanto il cervello andrà in stand-by. Ma la ricompensa per la fatica è un mondo colorato, ricchissimo, mutevole, enigmatico.

Una scrittura ricca e a volte sofisticata, ma non fine a se stessa. Dischiude i suoi significati poco alla volta, come un tesoro prezioso, una formula segreta sul senso della vita. Siamo piccoli sassolini nel corso della Storia, ma se messi nel punto giusto possono variarne la direzione, anche se di poco. Le esistenze di ebrei come di ucraini sembrano guidate dal caso. Ma in realtà tutto dipende dalle loro scelte. Dalla scelta di andare a lavorare alla fabbrica, che una volta all’anno si porta via un uomo valido come tributo. Dalla scelta di affidare il messaggio con il nuovo nome dello shetl al possidente folle Sofiowka. Dalla scelta di adottare una bambina. Dalla scelta di sposare un assassino. Dalla scelta di non parlare quando un soldato minaccia di uccidere tutta la tua famiglia. E sull’inevitabile senso di colpa che segue a queste scelte, che si riverbera di generazione in generazione, come la malattia che Jawhè gettava sui peccatori. Sui tuoi figli e sui figli dei tuoi figli. Il nipote prega la statua del nonno per non dover essere come il padre. Il libro è una lunga ricerca nel proprio passato per trovare il momento dell’errore. Quando lo si è trovato l’unica possibilità è imparare a conviverci.

Con il passare delle pagine l’autore concede qualche pezzo in più per ricomporre il puzzle e il libro si trasforma, scava a fondo nello spirito di ciascuno, facendo emergere la storia personale e con essa il loro vero volto. Il libro è un viaggio, attraverso le pianure dell’Ucraina orientale, a ritroso nella storia della famiglia di Alex. Ed è un percorso in avanti, attraverso le strade del piccolo paese e della genealogia di Jonathan. E una discesa negli abissi della coscienza, dove si nasconde il peso più grande. Alla fine le strade si incontrano a metà, c’è ancora la possibilità di essere buoni. Dal buio si riemerge con un il volto sereno, un sorriso purificato. Nonostante tutto, ogni cosa sarà illuminata.

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