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Preparativi III.

agataÈ giunto infine agosto, che porta con se obblighi imprescindibili. Questi mi costringono a spolverare Muninn, blog a lungo riposto sopra quell’armadio in cantina insieme alle valigie, a un soprammobile a forma di gondola, un paio di libri finti di plastica con lo scomparto per nascondere i gioielli, una moneta da cinquecento lire, della polvere, Gente del febbraio 1994, due comunità di acari in lotta tra loro da tempo immemorabile, due calzini spaiati, il Piccolo Popolo, una trisa, polvere

coff coff coff

la polvere, tantissima, dovuta a settimane di trascuratezza, accumulata su strati e strati sovrapposti come colate di nubi piroclastiche che formano pinnacoli svettanti e montagne di oppio. Fissando i canyon e gli strapiombi della catena montuosa di microparticelle quasi perdo me stesso, dimentico, nell’oscurità della cantina, delle onde spumose che si rifrangono molli e dense sulla spiaggia a migliaia di chilometri dall’armadio impolverato. Ma eccolo Muninn! Forse ancora respira, lo schiaccio con un dito, esce un suono come quello dei giochi per bambini, un fischio soffocato. Che pena mi fa. Lo pulisco un poco, è tempo di rivedere il sole, là fuori. Là sulla spiaggia le onde sono cresciute e una donna in costume che regge il coperchio di una bara ci fissa. È una spiaggia sudafricana e la donna è Agatha Christie che ci chiama…sorride…le sue labbra scandiscono una breve frase, poche parole…ogni…patate…no…i coni…no…Agatha mi sta dicendo…

CONIGLI PER LE VACANZE!

Che per chi non lo sapesse sono i libri che mi propongo di leggere in agosto, a volte baro, a volte mi dimentico, a volte mento, l’importante è che questo post esista. Cominciamo.

Il vagabondo delle stelle – Jack London

Ho già cominciato a leggerlo, ed è bello. Con la sua voce un po’ da filosofo e un po’ da imbonitore, da predicatore che legge la Bibbia e da romanziere che crede solo in quello che inventa, London prima ci chiude in un buco e poi ci libera, leggeri di volteggiare tra le stelle, vestiti di bianco, tra mille vite e mille sogni, a cavallo di una giumenta selvaggia come il piccolo Nemo.

Lo straniero – Albert Camus

Mi ronza nella testa da quando ho visto un film sulla Guerra d’Algeria, è un libro di un mondo che non esiste più e per quanto è esistito ha avuto le stesse solide basi di una fata morgana, un miraggio nel deserto. L’unica cosa che so è che Camus ha letto Moravia e gli è piaciuto.

N-W – Zadie Smith

Basta uomini. Come se le femmine fossero capaci di scrivere solo romanzi rosa. Faccio questa cosa proprio perché voglio più donne sulla mia libreria senza sciocche quote rosa. Voglio sempre il meglio, solo con le tette. Ho chiesto e mi hanno risposto lei. Lei è giamaicana, ma vive nella Londra multipla di oggi.

Triologia di New York – Paul Auster

In qualche modo devo tenere viva la vena calviniana che si è aperta senza leggere Calvino. Ho sfogliato le pagine di questo libro e i personaggi sfogliano un libro di Paul Auster. Che il trip abbia comincio. Fantasmi e grattacieli di cristallo, da leggere per forza quando al luce del sole è più intensa.

Poirot a Styles Court – Agatha Christie

L’estate è giallo. Lei è gialla. Poirot è belga, non francese.

Il caso – Joseph Conrad

Ha la copertina gommosa. Non so cosa stiano facendo quelli di Adelphi ai loro tipografi ma mi piace. È un po’ che io e Josip non ci vedevamo, io porto da bere, lui porta Marlowe, che ha fama di buon narratore. C’è una barca, è buio. Una storia d’amore. Non ho bisogno d’altro.

Unastoria – Gipi

Cosa c’è dentro le pagine di questo fumetto di cui tutti hanno parlato? Le parole sono tante, sono importanti e sono scelte. Un altro buon motivo per leggerlo e dire qui che lo faccio. L’unico problema sarà che finirà troppo in fretta, come al solito. Il più grande difetto delle graphic novel è che sono sempre troppo brevi.

Muninn e io vi salutiamo, vi diciamo ciao, vi diciamo cra. Scivoliamo lontano dalle vostre bacheche per un altro po’, con il solito carico di promesse per il prossimo anno lavorativo. Buone vacanze, buoni conigli a tutti.

Stay cool, stay cra.

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In fuga dalla realtà.

PANOPTICON_piattaDevo confessare un certo imbarazzo che provo quando amici e conoscenti sostengono il valore culturale della lettura. Leggere libri, leggerne tanti, pochi, belli e brutti non importa, rende persone migliori, più educate, civili. Cittadini esemplari. Tutti dovrebbero leggere. Ci si lamenta che il numero delle persone che leggono continui a scendere, la colpa è degli e-book e del cinematografo, della stampa a caratteri mobili, del cristianesimo. La conseguenza è un’inevitabile distruzione della cultura e della società, sprofondata in abissi di ignoranza e stupidità.

A parte l’evidente esempio di professori di letteratura italiana contemporanea gran lettori e grandissimi stronzi, forse non si pensa abbastanza a come funziona la lettura. Leggere è una dipendenza. Quando si parla di droghe leggere, e si cerca di equiparare la marijuana all’alcool o al fumo, dicendo che fa male solo se si esagera, bisognerebbe mettere nel gruppo anche i libri. Si legge per lo stesso motivo per cui ci si droga, per cui ci si ubriaca, per cui si sperperano gli stipendi davanti a uno schermo. La realtà, diciamocelo, a volte fa schifo. E a certe persone fa ancora più schifo. Morte malattia solitudine e la cosa peggiore di tutte: la noia. I libri, come l’alcool, sono un metodo escapistico socialmente accettato e con pochi rischi per la salute. Ad un prezzo tutto sommato onesto, a volte gratis in biblioteca, possiamo accedere ad alcune ore di evasione totale. Sollevati dal peso della quotidianità, un mondo di parole virtualmente infinito si spalanca ai nostri appetiti, sempre più insaziabili. Ogni volta che un libro ci piace, la nostra fame aumenta, tendente all’infinito e per questo impossibile da colmare. Alcune persone si perdono, precipitano dentro a questo abisso, auto-emarginati dalla società, tremendamente soli, ma sicuramente più considerati che un qualunque tossico. Bravo! Bravo! Com’è sapiente, quanta conoscenza! Lui sì che è infine giunto prossimo alla Verità. Considerate questo mentre leggete, nel caso lo facciate, lo strumento di perdizione di cui scrivo oggi. Perché Jenni Fagan, in Panopticon (ISBN, euro 17,50, pp. 399, traduzione Barbara Ronca), racconta proprio di alcuni nostri simili.

Sono sexy, sexy, sexy. Voglio essere toccata. Voglio scopare e baciare, e uscire dalla mia testa, però subito. È questa la cosa migliore quando scopi, il momento in cui la mente lascia il corpo. Se non fosse per quello non sarebbe così bello.

Queste sono le parole di Anais Hendricks, quindicenne scozzese e abituale frequentatrice di istituti e famiglie affidatarie da quando è nata. Alla periferia delle tristi città industriali del nord bisogna crescere alla svelta e Anais l’ha fatto prima di chiunque altro, avviandosi a una felice carriera di piccola delinquenza, brutte compagnie e una quantità di robaccia chimica inimmaginabile. Ora, ovviamente è nei guai, grossi guai, perché un’agente di polizia è in coma dopo essere stata pestata a sangue e forse è colpa sua. La nostra amica ci narra in prima persona il Panopticon, l’innovativo e già cadente istituto di ritenzione che la accoglierà in attesa della sentenza, la sua particolare architettura e popolazione, con una lingua quanto mai tagliente. Anais infatti potrà anche essere strafatta per la maggior parte del tempo, ma è una ragazza sveglia. Quando non è in botta e la obbligano ad andare a scuola prende sempre il massimo dei voti, ha una memoria formidabile e ha dei gusti decisamente particolari e stravaganti. Buttare giù schifezze da quando hai otto anni non ti lascia proprio tutto quadro e infatti Anais, come gli altri “ospiti” comincia a soffrire di allucinazioni, manie di persecuzione e altri disagi assortiti, mentali e fisici, che contemplano Malcom il gatto alato e L’Esperimento, misteriosa organizzazione che cerca di agguantarla.

Jenni Fagan cosa ci dà allora? Un libro scritto molto bene su una ragazza che cerca di scappare, in ogni modo possibile. Un occasione in più di espandere la nostra fame, vivere, comodamente seduti sulla poltrona, vivere per finta nel disagio sociale, nello schifo profondo della vita che alcune persone devono fare, percepire qualcosa di nuovo, un cibo, una bevanda prelibata. Anche il tartufo puzza, ma un pochino ogni tanto è molto buono e male non fa. Seguire Anais nelle sue disavventure ogni tanto vi farà attorcigliare lo stomaco, distogliere lo sguardo per il disgusto, e dubitare della sospensione dell’incredulità. Ma non importa. Perché tanto è tutto un libro no? Una fuga immaginaria, fine a se stessa, che mira alla soddisfazione di un nostro bisogno, della nostra dipendenza dalla fantasia altrui.

Non dovete pensare che l’autrice ha lavorato per anni in ospedali e carceri scozzesi.

Non dovete pensare che Rotherham non è molto lontano dalla Scozia e che tutto quello che ci racconta Anais Hendrick da qualche parte, in qualche tempo, è successo per davvero.

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Fuga nel buio.

louis-ferdinand celine viaggio al termine della notte corbaccio collana scrittori di tutto il mondo-1Sono appena tornato da una lunga passeggiata giù in città, vicino al mare. Siedo sudaticcio sul letto, portatile in grembo, la finestra spalancata, la voce delle rane fa grrrra grra grra da qualche parte dove è umido. Ho camminato a lungo insieme a mio fratello sul lungomare, passando veloci attraverso folle numerose, luci colorate, imitatori di Ligabue. Il mare, immobile e nero che assorbe tutte le luci della costa, alla nostra sinistra mentre risalivamo. Migliaia di storie dai fili intricati si svolgevano attorno a noi veloci viaggiatori, tutt’altro che disattenti: nella notte già matura ogni faccia sotto i lampioni racconta una storia importante, così importante da riflettere le nostre e rimandarcele indietro svuotate, e riportate alla loro sostanziale miseria, piccolezza. Tutti inseguono qualcosa nella calda e umida notte estiva e noi passiamo attraverso alle loro piste odorose, ininfluenti sul tragitto tra il cane e il suo tartufo. Siamo rientrati presto, la nostra meta questa volta era casa e niente altro, ma non ho potuto non pensare all’ultimo romanzo letto. Non saprei dire se il libro è arrivato a me proprio nel momento in cui avevo la giusta predisposizione umorale, oppure se tutto è una suggestione fantastica provocata dal libro stesso. Ma sicuramente è lui che mi ha riportato a scrivere e a raccontare, dopo troppi e lunghi giorni. Per un po’ mi accompagnerà: adesso, e per chissà quanto tempo, camminando da solo o con altri in silenzio lungo le notti affollate e solitarie delle nostre città, penserò al meraviglioso viaggio nelle notti come questa.

Quello di cui sto scrivendo, assieme a Moby Dick e a chissà quanti altri, è il tipico libro di cui puoi trovare citazioni ovunque, ma che difficilmente viene letto. Io, per mio conto, confesserò di essere tornato al titolo proprio grazie a una citazione, quella che apre La grande bellezza. Ma non importa il come il dove, importa solo il riverbero che le pagine mi hanno lasciato addosso. Seguitemi allora nella notte, non quella densa e organica dei boschi profondi, ma quella piena di luci, odori e rumori della città, mentre Louis-Ferdinand Céline mi precede. Prendete fiato e lasciate una traccia, perché c’è il rischio di perdersi.

Viaggio al termine della notte (Corbaccio, pp. 553, euro ***, trad. Ernesto Ferrero) è esattamente quello che dichiara di essere: un viaggio, declinato contemporaneamente in tutte le sue possibilità. Parte dalla Francia fatta di villaggi che bruciano nella Grande Guerra, fa sosta nei sanatori appena inventati per curare le ferite della mente, scappa lontano, in Africa, per sfuggire alla miseria materiale e morale postbellica solo per scoprire che la miseria è una malattia dell’animo umano e si può trovare in ogni parte del mondo. Nei sobborghi puzzolenti che Parigi fagocita alla campagna, lungo un fangoso fiume tropicale, nelle gioiellerie sotto la Madeleine, nelle fabbriche della Ford a Detroit e tra le guglie di pietra di Manhattan, nella pulciosa provincia francese, nelle case dei ricchi, nelle umide catapecchie dei poveri e nelle ancora più miserevoli case di una piccola borghesia che è la classe più povera di tutte, Ferdinand Bardamu viaggia ma non cerca più niente. Non vuole raggiungere il termine della notte, perché sa che non può raggiungerlo, sa che l’unica cosa che può fare è immergersi sempre più nella notte più nera, quella della sua anima. E allora si sovrappone un altro viaggio, dove i luoghi reali, animati e agitati dalla forza devastante dell’argot si crepano, mostrando la loro natura profondamente onirica, in un gioco infinito di specchi, che annulla la differenza tra verità e finzione, tra confessione e invenzione narrativa. Non c’è nulla, se non il sospetto, la leggera sfasatura e incomprensibilità di certi passaggi a svelarlo, a voi il gusto di trovarlo, di capire quando, mentre galleggiate tranquilli nel flusso ritmato della scrittura Céliniana. Una serie stupefacente di doppi, pseudonimi, somiglianze, che non vengono e non devono essere spiegate o rese coerenti, perché creano l’incredibile e quasi incomunicabile magia che avvolge questo libro. Louis Destouches, Louis-Ferdinànd Céline, Ferdinànd Bardamu, e poi altri ancora: medici per davvero, dentro e fuori dal libro, scrittori e mentecatti, perdenti in partenza perché il loro obiettivo masochista è proprio la sconfitta, verso un abbruttimento totale e umano.

Questo libro non parla di niente, non vuole arrivare da nessuna parte, perché tutto è niente. Vuole solo scappare da dov’è appena arrivato, come tutti i personaggi che vi incontrerete dentro. Voi allora non fate resistenza, voi lettori lasciatevi andare e guidare tra bestemmie e immagini di poesia struggente, tra crimini di una bassezza e di uno squallore da non meritare neppure una pena e generosità di bontà vera, come chiatte lungo i canali che tagliano la pianura francese, seguendo la corrente.

Cosa vi lascerà? Non so. A me ha lasciato una tremenda voglia di fuggire, e poi tornare, all’infinito, inseguendo la notte.

 

Notre vie est un voyage

Dans l’Hiver e dans la Nuit

Nous cherchons notre passage

Dans le Ciel où rien ne luit

                             Canzone delle Guardie svizzere, 1793

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Muninn va a scuola – Vita di Alfieri.

 Proemietto.

vita-vittorio-alfieri-asti-scritta-esso-0e78f480-0e98-4b58-855f-06d202a5a567Giunto ch’i mi fossi al semestre secondo della mia università e tosto bastandomi ben poco il tempo ch’i pur avea per leggere sì tanti libri da empirne le mensole mie e le pagine digitali di Muninno; avvedutomi poi che pur io frequentava assiduamente le lezioni in cotal università, venutomi al lume che sì ben potea io riversare tutto lo studio ch’io facea con non poca noia e fatiga nell’opra mia, volli e fortissimamente volli discettar coi miei lettori di quelli argomenti e libercoli, nel caso giunga a presentarsi meco l’opportunità di esporli. Codesta scelta, che si pur mi duole nell’orgoglio, che sempre io avea fortissimo e che a stento modestia imbrigliar può, mi occorse alla seconda lettura della preclarissima Vita di Vittorio Alfieri da Asti scritta da esso (per il torchio de’Garzanti, pp. 342, soldi 9), che il barbogio professore per due volte propose ai discepoli suoi. Il libro infatti fu materia d’esame nella preclara laurea triennale ed ora, assurti gli allievi alla lucentissima aura della laurea magistrale, il luminare giustamente pensò di rifar da capo l’ovra sua, per comprender meglio il poeta tragico dalle parole sue stesse. La duplice lettura sia chiaro, per quanto possa addivenir noiosa, è pur sempre riflessione e ammaestramento e con ciò non deve essere tenuta in sprezzo. Lascerò ora per seguitar di ragionamento, la favella del classico in luogo della moderna, che non sì fulgida assurge ma che per essere intesi oggidì abbisogna praticare.

Capitolo primo.

Alfieri, poeta tragico, è uno di quei personaggi che si sono fortissimamente incrostati nei nostri programmi di letteratura italiana, che tutti hanno incontrato almeno una volta a scuola e che nonostante ciò tutti presto o tardi dimenticheranno. Lo studio della letteratura, pur nella nostra civiltà di massa, è rimasto uno studio conservativo e chiuso, più di quanto forse dovrebbe, nonostante questo alla fine ci sono tanti che sanno poco di poco, e di quello che sanno il più è nozione pappagallesca. Non approfondiamo, per carità, il discorso sull’istruzione e l’istruzione umanistica a tutti i suoi livelli, altrimenti ci ritroveremmo tutti sprofondati in un vorticoso buco nero. Muninn nasce per leggere e far leggere i libri, le polemiche hanno quindi uno spazio limitato. Perché però un personaggio e uno scrittore aristocraticissimo, elitario, e classicista come Vittorio Alfieri dovrebbe essere preso in considerazione oggi e da un semplice lettore? Lo studio, l’impegno e le letture collaterali, di note, saggi e introduzioni, per capire cosa vuol dire con quelle parole antiche e oscure non dovrebbero essere riservate forse agli specialisti? Oggi si scrivono racconti e romanzi, il verso è archeologia. Quanto vale un poemetto classicheggiante?

Capitolo secondo.

Mi trovo quindi nella difficile situazione di salvare il povero Alfieri, che certo si sarebbe risentito non poco di dover essere salvato e di essere salvato dall’asinissimo me. Le sue tragedie non si recitano più, se mai sono state recitate, e il resto della sua produzione è oramai escluso anche dai corsi universitari. Oltretutto Alfieri era un uomo del passato in epoca di grandi cambiamenti, di li a poco la borghesia e il romanzo avrebbero vinto anche in Italia, tutto sarebbe cambiato per sempre. Eppure. Il suo lavoro può ancora essere letto, a fatica certo, con esercizio per abituarsi al verso scuro e spezzato, pieno di rotture e inversioni e alla prosa classica dal lento periodare. Leggendo la Vita e le piccole bugie di cui è piena conoscerete un uomo e le sue debolezze, conoscerete il percorso umano e intellettuale di un uomo del ‘700. Ma soprattutto imparerete molte cose sull’impegno e la fatica che servono per capire veramente come usare le parole, che prima di essere le vostre parole sono state quelle di qualcun altro per secoli e secoli. Dante Petrarca Boccaccio Tasso Ariosto Machiavelli Manzoni Foscolo Leopardi e tutte le schiere di mummificati figuri hanno sempre qualcosa da dire e da insegnare, anche se solo un verso o un pensiero. Alfieri supera il limite della banale imitazione per trovare la sua strada, fatta di piccole deviazioni da quella lastricata dei poeti classici, lungo sentieri solitari, in mezzo ai boschi e alle rupi dell’animo umano. La Vita di Alfieri ci insegna, più che la forma e l’arcaismo, ad essere ambiziosi e coraggiosi, senza mai smettere di studiare e imparare da chi è venuto prima. Quanto vale questo?

Postfazione

Credereste poi che la correzione automatica di Word nel Proemietto mi segnali come errore solo dieci parole su duecento? La lingua italiana, purtroppo o per fortuna, non è cambiata tanto, i cuori degli uomini neppure.

Brugherio, lì 8 marzo A.D. MMXIV

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Vita e morte nel bosco.

Scan0001C‘è stato un periodo, un breve tratto della mia vita, trascorso nel bosco. Non era un bosco antico o pieno di segreti e io non ero così avventuroso da cercare quelli che pure ci dovevano essere. Nel piccolo paese di montagna dov’era nata mia nonna trascorrevo tutte le estati da quando ero bambino, un bambino troppo obbediente e pauroso per andare da solo su per il fianco del monte. Era già un ragazzo pieno di voglie avventurose represse quello che cominciò a girare, sempre troppo vicino alle case, insieme a un compagno di città e a uno del paese che, per qualche strano caso, era per un quarto norvegese. Come una piccola squadriglia di incursori pattugliavamo il bosco secondario, pieno di fossi e di vecchi muretti a secco coperti di muschio, con spade e mannaie rubate dagli scarti taglienti della coltelleria. Un mese era poco, troppo poco per arrivare fino in fondo a quei boschi, in valli antiche e abbandonate, piene di alberi marci e caduti. Troppo poco per conoscere strani vecchi che raccontassero storie ancora più strane; troppo poco per imparare tutti i nomi dei posti e il modo per arrivarci. Ma sufficiente da ricordarlo per sempre. Gli animali non parlavano, i genî non uscivano dagli abeti per parlarci, gli uccelli neppure parlavano. Forse eravamo già troppo vecchi o forse erano gli alberi a non esserlo abbastanza. Forse la foresta cantava, ma noi avevamo dimenticato come fare a capirla, forse non lo avevamo mai saputo. Non sapevamo, ma sentivamo però che era là a mormorare nel suo strano alfabeto, fatto di masse e di colori, di suoni e di ombre. Noi in mezzo, solo di passaggio.

E questo non è molto diverso da quello che ho sentito leggendo Il segreto del Bosco Vecchio (Mondadori, euro 9, pp. 149) che è una fiaba, eppure non lo è. Perché della fiaba ha la magia, i nomi, i colori, i luoghi e gli animali, ma tutti guardati con lo sguardo cinico e sensibile di Dino Buzzati. L’ironia e la fantasia dell’autore danno un movimento imprevedibile a stili e trame vecchie come le pietre delle montagne, nascoste nella memoria di tutti i bambini. Quella memoria lontana e quasi persa, sotto strati di camuffamenti e tremende banalizzazioni, viene recuperata e deformata, malleabile come cera per parlare al posto dell’autore. Se nella foresta c’è un drago, il drago è cattivo e chi lo uccide sarà buono. Forse.

Perché il bosco vecchio è speciale, ovviamente: ma non è “dimensione incontaminata che simbolizza la vita come forza gioiosa e gratuita, disinteressata ed eterna”, non è una favola ecologista, anticapitalista, anticonsumistica, naturalista. Il vecchio bosco è bello, è antico, ma fa anche paura. La notte, al buio, i tronchi immensi degli alberi chiudono le stelle e rumori misteriosi si alternano a silenzi ancora più terribili. I topi rosicchiano lentamente le travi del soffitto e orribili incubi dalla testa di vitello scarnificata o dal molliccio aspetto globulare tormentano il sonno dei bambini ammalati. Paure senza volto, orribili carrettieri dagli occhi di brace e guerre entomologiche tra vermi e vespe, vomitevoli e silenziose battaglie del mondo microscopico. Ma ci sono anche i vecchi gufi saccenti e gli animali parlanti, ci sono i genî che vivono silenziosi dentro alle piante e ci sono i giochi dei bambini che sanno la lingua del bosco, i venti hanno un nome simpatico e portano le notizie lontane. Gli scoiattoli mangiano le noci e i conigli brucano le foglie di tarassaco. Ma nessuno che sia cattivo, oppure buono? Dov’è l’insegnamento? Dov’è l’educazione?

È forse cattivo il colonnello Procolo, che vuole uccidere suo nipote Benvenuto per prendergli la sua parte di bosco? Ma parla con gli animali, non è cosa da poco! Risparmia il Bosco Vecchio, avrebbe potuto tagliarlo, che divieto lo impediva? È cattivo il vento Matteo, che ha seminato così tanta distruzione in tutta la valle ma che era bravissimo a far suonare le punte degli abeti soffiando antiche canzoni di guerra? Il male è dentro tutto e parte di tutto. Son cattivi i gufi i genî indifferenti i bambini sciocchi gli icneumoni sanguinari i vermi famelici?

Dino Buzzati racconta, per la prima, per la seconda, per l’ennesima volta, la bellezza di storie sempre uguali, di ricerche impetuose e di deludenti scoperte, quando il tesoro tanto bramato non vale l’innocenza perduta né la strada fatta. Con ironia e profondità, incredibile cinismo e spietata simpatia, l’autore crea un modo fatto di rimpianti e di ricordi, di vecchiaie tristi e di infanzie perdute, con una dolcezza e una fantasia capaci di farci dimenticare la morte, che arriva per tutte le creature. Lui aveva il dono, non di parlare con le bestie o gli spiriti, ma di di dare nome, forma e colore a quegli antichissimi sommovimenti dello spirito; che solo quando si è da soli, come in un bosco, si può quasi credere vengano da fuori, dalle piante, dagli animali. Noi passiamo e non sempre capiamo ma sempre torniamo per guardare l’antica foresta, i suoi misteri e noi stessi riflessi nel buio.

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Punti di vista.

Il ragazzo siede sul divano, il portatile in grembo. Una tazza di latte caldo e miele che ha appena preparato è appoggiata sul pavimento di piastrelle bianche. Dopo una doccia calda e il latte, il ragazzo crede che riuscirà a terminare ciò che aveva iniziato. La sinusite, la stanchezza e la televisione accesa non sono di aiuto. Non è sicuro che quello che stia scrivendo sia la cosa giusta, o se farà solamente un grosso pasticcio. L’alternativa però è il foglio bianco.

Il padre entra dopo una lunga giornata di lavoro e ciò che vede non lascia dubbi: il ragazzo ozia di fronte alla televisione. Un bicchiere sporco, come al solito, vicino al divano. Neanche lui si sarà lavato, da chissà quanti giorni. Parole formali di saluto e poi in cucina, il ragazzo ha bisogno di una bella bistecca. E acqua, bisogna bere tanto dopo la donazione di sangue.

 È difficile, quando un certo paesaggio letterario è stato occupato da tantissimi altri autori, costruire qualche cosa di pregevole e allo stesso tempo originale. I topoi si creano dalle stratificazioni successive di immagini simili e ogni volta che si presenta un nuovo emulo è impossibile non pensare a tutti quelli che lo hanno preceduto. Duelli polverosi tra pistoleri, lunghi viaggi su lunghe strade tutte dritte nel deserto, luridi appartamenti parigini, coppie di amanti divise dalle famiglie nemiche, castelli tenebrosi sulle rive di qualche loch, misteriose distese polari. Ed è così anche per la comune villa vittoriana nella campagna inglese, dei suoi abitanti e delle loro ipocrisie. Leggendo Espiazione (traduzione Susanna Basso, Einaudi, pp. 381, euro 13,00) è impossibile non pensare a tutti quelli che hanno preceduto Ian McEwan su questa strada: la famigerata Virginia Woolf o la meno nota Rebecca West de Il ritorno del soldato, fino alle semplici avventure criminose di Agatha Christie. Tutti accomunati dalla descrizione impietosa ma sensibile dell’apogeo della società aristocratica inglese, un momento prima della rovina. Cosa deve fare un autore per distinguersi? C’è chi è maestro di stile, chi è originale e chi sa tessere trame perfette: McEwan è un regista sublime. È possibile che la stessa storia, nelle mani di un altro scrittore non avrebbe potuto essere resa così bene.

Cecilia e Robert, figlia dei padroni e figlio della domestica. Un classico. A dividerli l’ancor più classica incapacità di comunicare, trasmessa geneticamente di madre in figlia da una classe sociale che ha fatto dell’isolamento la sua ragione di sopravvivenza. Chiusi nel loro mondo fatto di cose semplici e di mancanza assoluta di preoccupazioni materiali. Sarebbe sufficiente tormentarsi tra mezze frasi fraintese e messaggi perduti nelle cene di calde sere d’estate, come nella Austen migliore. Ma non sapete, o almeno io non lo sapevo quando ho cominciato a leggerlo, con chi avete a che fare.

C’è chi dice che McEwan sia cattivo. E cattivo nel modo in cui può esserlo uno scrittore. Basterebbe, sarebbe anzi normale, qualche ostacolo sulla via dell’amore. È noto che a nessuno interessa quello che succede dopo il “e vissero tutti felici e contenti”, sono le difficoltà a farci restare col naso tra le pagine. Tra i due amanti Briony, sorella tredicenne di Cecilia con una fervida immaginazione e un carattere capriccioso, frustrata dall’adolescenza incombente e da una volontà prepotente. Ma non basta. L’accusa che la ragazzina lancia è la più terribile, perché è rivolta verso un innocente e perché è fatta con la sicurezza di chi di dubbi ne ha tanti. Poco importa se trova terreno fertile in una società ricolma di ipocrisia e superficialità. La rovina sarà totale, fino alle fondamenta. E la colpa solo sua. La seconda guerra mondiale non cambierà le carte in tavola e non spazzerà via nessuna ipocrisia, ma porterà solo altro dolore dolore dolore.

L’autore prende la storia, anche semplice, e la scompone, la mescola, la diluisce. Riprende lo stesso fatto, un vaso rotto una macchina due persone che parlano, da tutte le angolazioni possibili, solo per farci capire che alla fine lo sguardo vero è solo uno. Ian McEwan è veramente cattivo ma non per come tratta i personaggi, per le cose brutte e schifose che fa succedere nei suoi libri. Ma per la mancata catarsi. Il sommovimento delle interiora, costato così tanto, in tecnica e abilità narrativa, viene frustrato da quello che può sembrare un banale gioco metanarrativo, attori su di un palco, ma che in realtà è il vero scopo dell’autore: mostrare che la verità non è negli occhi di chi guarda.

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Un buon non compleanno.

Oggi, due anni fa, nasceva questo blog. Ho pensato a lungo come festeggiare. Se era il caso di farlo in modo pubblico, chi invitare alla festa, la disposizione dei posti, l’ordine delle portate e il numero di forchette. Mi sarebbe piaciuto molto organizzare un gigantesco banchetto, come nelle migliori corti rinascimentali, come quelli alla fine dei fumetti di Asterix e Obelix, come un novello Trimalchione. Avevo già pronto lo scheletro d’argento e un migliaio di schiavi in cui pulirmi le mani, la murena in fricassea, il porcello ripieno di uccellini vivi e ovviamente dei cinghiali arrosto. Ma poi ho pensato che io e voi, quando moriremo gloriosamente in battaglia, arriveremo alla corte del padre Odino e con lui parteciperemo al banchetto eterno nella grande sala del Vahlalla dove, è noto, l’impavido può vivere per sempre.

Quindi ciccia. Userò questa ricorrenza per fare una cosa che mi sembra molto giusta. Ringraziare.

Grazie a chi mi ha spinto e sostenuto quando ho preso la decisione di cominciare a scrivere, ai miei amici e alla mia ragazza, che saranno tutti stufi di sentirmi parlare solo di quello.

Grazie a chi mi legge sempre e a chi mi legge meno spesso, a chi mette i mi piace e a chi mi segue solo per un #FF.

Grazie a tutta la redazione di Zenzerob, dal direttore generale a quello che consegna la posta, dal capo redattore alla signora sudamericana che fa le pulizie. Per la competente informazione sulla supermercatologia che solo loro sanno fare. E per tutto il resto. Mi sento un po’ parte della famiglia.

Grazie a Mrs. Fog di Diari Alaskani che è l’unica che conosco (o che voglio seguire) a fare un vero blog, un diario di bordo personale, e che condivide con me gusti letterari e pensieri libreschi. Spero che si continui così molto a lungo.

Grazie a Marta alias McMusa e a Chiara di Le pagine strappate. Seguo la prima da poco e la seconda purtroppo da troppo tempo non scrive più. Sono due persone che dovrebbero farsi pagare per scrivere. Non c’è nient’altro da dire.

Grazie ad Alessandra di Libri nella mente, che ammiro per i gusti letterari raffinati e per l’analisi sempre competente dei libri che legge.

Grazie a Start from scratch, alla Lettrice Rampante, a Se una notte d’inverno un lettore e ad Athenae Noctua che sono sempre interessanti da leggere anche se sono troppo pigro per commentare sui loro blog (l’autenticazione è sempre un dramma).

Grazie a Tersite che mi ha dato un bellissimo premio, a Cartaresistente che mi condivide le recensioni e che sono tutti e due belli e bravi.

Grazie a Odino, ovviamente. Non vorrei beccarmi un fulmine.

Grazie a John K. H. WordPress, che ha inventato questa piattaforma in un piccolo laboratorio sugli Appalachi nel 1889 quando tutti gli altri facevano Moonshine, prima che Edison gli rubasse il brevetto e il nome mentre era sbronzo marcio nel letto di una sgualdrina. Grazie a tutti quelli che non ho ringraziato perché non mi viene in mente e perché non ho più tempo, oggi devo studiare alla grande.

Grazie a tutti ancora una volta. CRAW!

Davide.

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In cerca di un significato.

Ho girato tutto il giappone cercando persone che erano state colpite dai fulmini ed erano sporavvissute, e le ho intervistate. Il lavoro durato alcuni anni. Ho raccolto molte interviste, e i racconti erano tutti piuttosto interessanti. Il libro fu pubblicato da una piccola casa editrice, ma non vendette quasi niente. Non raggiungeva nessuna conclusione. E nessuno vuole leggere libri che non offrono conclusioni. Ma a me il fatto di non offrire conclusioni sembrava la cosa più giusta e naturale.

kafkaPuò essere difficile spiegare di cosa raccontano i romanzi di Murakami Haruki. La straordinaria capacità immaginativa dell’autore giapponese può far perdere la rotta. Ci sono gli alieni? O i fantasmi? Animali parlanti? Entità ultraterrene? Persone normali? Certamente. Il compito sarebbe facile se tutte queste cose fossero collegate da loro, parti integrate di un mondo completo e coerente, come qualsiasi libro fantasy. Ma così non è o non sembrerebbe. La parete della realtà del realismo si deforma a discrezione dell’autore: una piccola gobba nella superficie liscia o una voragine spaventosa da cui strabordano follie di malvagità gelatinosa. E non nemmeno molto chiaro quale sia il rapporto tra queste entità e il mondo reale. Chi o cosa le ha generate? Mah.

La critica moderna colloca tranquillamente la produzione di Murakami nel postmoderno. Sapiente mescolanza di generi: fantascienza, fantasy, thriller, romanzo di formazione e, ciliegina sulla torta, tragedia greca. Stile semplice ma non banale, con approfondimenti poetici, citazioni letterarie e varie cose serie che non devono essere capite fino in fondo per seguire il filo, tensione e curiosità mantenute fino all’ultima riga.

Ma per il signor Haruki, ormai scrittore affermato, produttore instancabile di bestseller e apprezzato dalla critica, funziona così? Si siede sulla poltrona e dice tra sé: “Ecco che adesso scrivo un bel romanzo postmoderno, come quelli che piacciono tanto!”

Secondo me invece, ma una ben misera e semplicistica visione periferica, Murakami racconta una storia. E per farlo usa la sua lingua. Che non è il giapponese, o l’inglese. E’ la lingua del suo pensiero, fatta di tutti i libri che ha letto, di tutti i posti che ha visto, di quelli che vorrebbe vedere e di tutte le cose che esistono solo nella sua testa. Fortunatamente per tutti noi una lingua molto ricca, ma non incomprensibile. Cos quando vuole spiegare un’emozione fa ascoltare al protagonista Beethoven, i Beatles oppure i Radiohead. Oppure da vita propria a Johnnie Walker e al Colonnello Sanders, scotch wiskey e alette di pollo piccanti. Non che non sia capace di spiegarlo in termini classici, filosofici e scientifici. Ma rischierebbe di non essere capito. Di non essere seguito. Perché si può scrivere in modo semplice di cose molto difficili e spiegarle senza far capire che lo si sta facendo. E quello che fa Murakami lo spiega mentre scrive, racconta la sua poetica, a suo modo, e al modo di un romanziere del settecento. Suggerisce, indica la via per leggere il suo libro.

Quando ho finito di leggerlo, mi sono sentito strano. Mi sono chiesto cosa volesse dirci questo romanzo. Ma la cosa curiosa che questa sensazione di “non capire che cosa voglia dire” ti lascia qualcosa dentro. Non so come spiegarlo.

E quindi? Di cosa accidenti parla Kafka sulla spiaggia (Einaudi, pp.514, euro 15, traduzione Giorgio Amitrano)? Racconta la storia di un ragazzo adolescente che ha tutti i problemi di un ragazzo adolescente (la maggior parte dovuti al suo pisello e alle cose che il suo pisello fa quando lui vede delle tette). Solo che inoltre ha qualche problemino con la famiglia ma soprattutto con se stesso. Solo che non un romanzo realistico, ma nemmeno un romanzo fantascientifico. E’ un romanzo di Murakami, dove personaggi un po’ folli fanno cose decisamente folli, come parlare con i gatti o far piovere sardine. Dove il male prende forma tangibile e umana, se umana si può usare, di un assassino di gatti che raccoglie le loro anime mangiando i piccoli cuori felini. Dove i fantasmi possono copulare e l’immaginazione ha un peso non trascurabile sulla realtà dove ogni pazzia è accuratamente meditata e resa grande letteratura. La lingua di Murakami racconta favole antiche, l’Edipo Re, il Bildungsroman, la forza che il male può avere sulle persone e sulla loro volontà ma anche tutto quello che possono fare per contrastarlo. Racconta la storia di un ragazzo alla ricerca di un significato.

 

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Lo strano Natale di Mister Buzzati.

il panettone non bastòChe senso ha scrivere un articolo di Natale due settimane dopo Natale? Ormai tutto è finito, passato, svanito e non bastano lucine lungo le strade, abeti di plastica pieni di palle colorate, neve di polistirolo su regali di polistirolo. Non basterebbero neppure le cose più genuine. Non bastano di certo mille mostre del presepio di provincia, ricolmi di statuine della Thun su drappi porpora luccicanti, l’aria pregna dell’Adeste Fideles cantato da Albano. Ormai, ragionando da gretti materialisti, non beccherei neanche molte visualizzazioni sul blog. Natale passa di moda molto velocemente. Lo scotch che regge le ghirlande sulle vetrine resisterà almeno fino all’Epifania, quando le grosse scritte SALDI ricoperte di fiocchi di neve argentati le sostituiranno nel giro di una notte. Anche le raccolte, pubblicate dagli editori appositamente per racimolare qualche vendita da parte di lettori annoiati, vengono ritirate nei magazzini. Giallo di Natale, noir di Natale, amore sotto l’albero, almeno settecento versioni diverse del Canto di Natale di Dickens: in brochure, tascabili, illustrate, per bambini, tratte dal film 3D con Jim Carrey, con gli animali, con zio Paperone. Ma forse ci sono libri che restano sugli scaffali tutto l’anno, un po’ nascosti magari, tant’è che i librai si dimenticano di metterli in bella mostra all’inizio di novembre. C’è da dire a loro discolpa che stanno tanto bene dove sono. Grazie al lavoro di Lorenzo Viganò la Mondadori ha ripubblicato quasi tutta l’opera di Dino Buzzati. Ogni opera introdotta da un saggio del curatore e la copertina meravigliosamente colorata dai disegni dell’autore stesso. Ora, togliere uno dei libri dalla fila di coste dai mille colori diversi sembra quasi un sacrilegio. L’appassionato buzzatiano quindi punta all’acquisto dell’intera nuova pubblicazione, nonostante abbia sugli scaffali già un paio di edizioni diverse del Deserto dei Tartari. Poco importa se per rimpinzare le pagine ogni libro porti con se un’inutile e logorroica biografia + bibliografia scopiazzata dal meridiano, che il lettore occasionale salta a piè pari e il lettore appassionato conosce già.

Il panettone non bastò (Mondadori, pp. 162, euro 9) è una raccolta di scritti, racconti e fiabe natalizie dello scrittore. Articoli, brevi fiabe e persino un fumetto sono stati raccolti assieme perché raccontavano il Natale. Alcuni inediti, alcuni articoli un po’ di maniera sui tempi che cambiano e alcune autentiche perle di patetismo e angoscia. Infinite variazioni di titoli natalizi: Strano Natale, Natale come una volta?, Fiaba di Natale, Atroce Natale, Troppo Natale, Rabbia di Natale, Lo stacco di Natale, Lo strano Natale di Mister Scrooge, Bonifica di Natale. Sempre uguali e sempre diversi, come il 25 di ogni anno, rigido nelle tradizioni fin sul menù del pranzo ma proprio per questo teatro manifesto dei profondi mutamenti dell’anima. Novelle tristi e raccontini allegri, sempre una profonda nostalgia per un mistero lontano e irraggiungibile.

Ho scritto prima che la copertina è disegnata da Buzzati, una foresta, gli alberi colossali contorti e neri, tonalità di grigi nel buio della notte invernale, la casa isolata e il cacciatore col suo cane sono piccoli, più piccoli del normale, perché è così che si sentono nel freddo dell’inverno montano. Le piccole luci gialle che vengono dalla casa, un calore piccolo e distante ma così prezioso e caldo, il Gatto Mammone che guarda fuori dalla tela. I racconti oltre la copertina illustrata sono così: un solitario muoversi tra le ombre, tra montagne di pietra o di regali inutili, soli in mezzo agli sconosciuti o con la mente persa al passato. Ma ci sono le luci laggiù, non le vedete? Non le raggiungerete mai, come i due piccoli personaggi sulla copertina, intrappolati nella tempera ma sapete che sono là e vi aspettano, anno dopo anno. Quel calore che non si sa spiegare perché ma che almeno per una volta all’anno ci rende tutti più buoni. Che non è vero si sa e ci pensano i telegiornali ad aggiornarci il giorno dopo su quanti omicidi ci sono stati la notte di Natale. Ma un’illusione forse serve più della verità. E si sente la speranza e si sente Dio e si sente che cos’è questa notte così bella per i bambini, per chi aspetta Babbo Natale e per chi non lo fa più. E poi ci si meraviglia scoprendo che Buzzati il Natale non lo festeggiava. Niente albero, niente presepe, niente regali, solo la tradizionale cena a casa della madre o della sorella e poi via via tra le montagne. E poi ci si meraviglia e alcuni dicono che non sia vero, che Buzzati non credesse neppure in Dio. Come ha fatto, rispondono offesi, a scrivere Lunga ricerca nella notte di Natale? Che è più piena di divinità e di beatitudine di tomi e tomi di libri di teologia? Era solo maniera? Era solo un lavoro? Ci ha preso in giro forse? Che brutta cosa farlo proprio col Natale, dicono gli ipocriti. E lui che invece ci credeva veramente, in tutto quello che scriveva, credeva nelle cose brutte e nelle cose belle, nel Natale e nel fatto che al Natale non ci credesse nessuno, neppure lui.

Dan, dan! Mezzanotte. E si era appena cominciato, e le cose più nostre e importanti restavano ancora da dire. Amen, è Natale. Alleluja!

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Contributo su Cartaresistente.

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.Oggi potete leggere un mio contributo sul blog Cartaresistente, che tra l’altro è molto bello anche senza il mio post. Vi consiglio la rubrica Dicotomie Resistenti. Io invece vi racconto di un libro che ho già recensito, ma questa volta lo accompagno con un bellissimo divano Chinz e una altrettanto bella canzone d’amore. Potete leggerlo QUI.

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