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Brevi miserie navali e sentimentali.

coverSono qui nella lavanderia, il famoso luogo mistico che favorisce la meditazione e la riflessione. Le lavatrici ruotano silenziose risciacquando gli stracci sporchi. Dalle grate esterne sale una densa nuvola di vapori che viene su dagli scarichi delle asciugatrici, dalle bocche incorniciate di granito di una vecchia cantina o carbonaia. La nebbia isola il piccolo locale dal mondo esterno, che irrompe comunque ogni volta che un cliente entra accompagnato dal fragoroso scampanellio sovrastando il rifrangersi della biancheria nella centrifuga che fa

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BUONGIORNO! COME ANDIAMO!? SANTINI GIUSTO? È QUI TUTTO PRONTO SA PERO’ QUEL COLLO LI PIU’ DI TANTO NON SI PUO’ FARE ARRIVEDERCI ME LO SALUTI TANTO!

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Nonostante la lavanderia sia automatica i padroni sono sempre lì. Attivissimi sorridono aiutano puliscono stirano cambiano ridono salutano compatiscono consigliano matronali. Perfetto esempio di una piccolissima borghesia brianzola che aveva dei locali sfitti e si irritava a sentire il capitale immobilizzato, nonostante sul tavolinetto davanti alle poltroncine ci siano Internazionale e L’Espresso (adesso c’è anche il Dipiù che sennò la clientela fascia vecchia signora non ha niente da leggere). Per fortuna non è come la piccolissima borghesia francese, che è quasi un tòpos tutto d’oltralpe, vedove raggrinzite che risparmiano centesimo su centesimo ritirandosi dalla propria vita e prosciugando quella degli altri, che apprezzano libri fastidiosi come la Dama delle Camelie, dove si parla c o s t a n t e m e n t e di soldi, che tanto lei alla fine crepa e il capitale resta intatto. Come i personaggi sudici e squallidi incontrati da Cèline nei suoi vagabondaggi o quelli raccontati spesso dall’abile penna di Georges Simenon. Come i Pitard, schiatta di questo tipo, che da il nome a un breve romanzo del suddetto famoso autore di libri gialli.

C’è un capitano coraggioso di nome Emile Lannec, che dopo aver servito sulle navi degli altri invece dei lupini si compra la nave tutta. C’è la moglie, che si ostina a seguirlo nel suo primo viaggio da capitano e proprietario, per tutelare gli interessi di famiglia, che ha fatto da garante per il naviglio. Eh si, perché la famiglia, i Pitard, sono tutta una cosa sola fatta di zie e figli ignavi e nipoti disabili che si muove quasi come un organismo unico e teme che anche un matrimonio possa danneggiare la stabilità finanziaria dei risparmi messi da parte con tanta sofferenza e tanto godimento. I Lannec invece non sono così, no, o meglio lui non è così. È un capitano del Mare del Nord, dove le onde sono più alte dei condomini posseduti dai Pitard e dove ogni giorno può essere l’ultimo e devi dare tutto te stesso per salvare la barca, gli uomini, la vita. Tra i flutti potenti del “polmone marino” che fonde aria e acqua in un unica sostanza, si scontrano entità superiori alle volontà delle singole persone, capaci di scuotere anche i sentimenti più profondi. Il sospetto e l’inganno si nascondono tra mezze frasi e biglietti anonimi.

Simenon scrive breve e conciso, come solo lui sa fare e quindi non vedo perché io debba dilungarmi più di tanto a raccontarvi delle grosse mani di Emile o della figura efebica ma rigida di Mathilde e della loro sfida tra le onde del mare in tempesta, della miseria e della follia umana. Un libro che si legge in pochissimo tempo, per rilassarsi da letture più impegnative, ma con la forza potente di una tragedia, dipinta coi colori scuri e grigi del Nord. Solo che non ci sono grandi eroi e tutto quanto, nell’Atlantico, sembra ancora più piccolo e misero.

Fuori piove lentamente una pioggia oleosa, il cielo è grigio mentre il sole tramonta. Tutte le lenzuola sono asciutte, si torna a casa. Il campanello strilla mentre esco attraverso la nebbia.

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Crimini balneari.

Georges Simenon - Le vacanze di Maigret«Buongiorno, avrei da farle una domanda. Potrà sembrarle un po’ strana ma, per favore, non rida di me». «Prego!» risponde l’occhialuta e riccia signora dietro al bancone. «Starei cercando un libro di Simenon, un Maigret, ma non so neppure se esiste». Le sopracciglia sopra la montatura si aggrottano. «In che senso? Spiegati meglio…» «Beh, vorrei un libro con Maigret e con il sole». «Con la parola sole nel titolo?» «No no, con il sole nel libro…nei libri di Simenon piove sempre, o nevica, o c’è la nebbia, e fa sempre freddo. Ne vorrei leggere uno dove c’è il sole, dove c’è bel tempo». La libraia non mantiene la promessa: ride. Ma subito dopo comincia a pensare, passa in rassegna la sua memoria di lettrice e mi risponde subito: «Di solito quando va in vacanza…a Vichy per esempio, o al mare, il clima è migliore». Ma le viene un dubbio e allora va nello scaffale, fruga fra i libri, ne toglie uno dalla confezione, lo sfoglia velocemente e poi dice: «No, non lo abbiamo, ma c’è a Carugate, se vuoi te lo ordino». Io rispondo che ci andrò di persona, è vicino a casa, la saluto, la ringrazio e me ne vado, lasciandola sorridente al piano inferiore di un libreria universitaria in via Festa del Perdono.

Alla fine il libro l’ho trovato a metà prezzo, ma non nella stessa catena di librerie. Un po’ mi sento in colpa, ma tanto so che prima o poi qualcosa in quella libreria la comprerò ancora. Intanto il libro cel’ho, e dentro ci sta pure il sole, tanto caldo e il caro commissario. È Le vacanze di Maigret (Adelphi, traduzione Laura Frausin Guarino, pp. 174, euro 10). Questa volta il celebre personaggio di Simenon non lavora, o almeno non dovrebbe farlo. Negli anni trenta ancora non esisteva il turismo balneare di massa come lo conosciamo oggi, ma ci si stava attrezzando. Ogni estate, le famiglie piccolo borghesi, che non potevano permettersi uno yatch in Costa Azzurra, sceglievano come meta delle loro vacanze la costa atlantica, dove sorge Les Sables d’Olonne e tutta una serie di neonate stazioni balneari, germoglio di una riviera romagnola francese che ora fa a gara con la nostra in quanto a bruttezza dei palazzoni a bordo spiaggia. Allora, sulle spiagge sabbiose del golfo di Biscaglia, non era ancora arrivato il cemento, e il nostro commissario avrebbe potuto passeggiare con tranquillità lungo il celebre Ramblais, tra schiamazzi dei bambini e costumi colorati. Avrebbe potuto, perché Maigret in vacanza non riesce proprio ad andarci. Anche se la colpa non è della moglie, che si prende un’appendicite fulminante appena due giorni dopo il loro arrivo e neppure di qualche misterioso crimine da risolvere. A Maigret, tutto sommato, stare in vacanza non piace. E allora cammina, cammina sotto il sole tutto il giorno, aspettando che le suore lo facciano entrare dalla moglie ricoverata, su e giù per i vicoli della cittadina e sul lungomare, bevendo un bianchino dopo l’altro. Ogni bistrot e ogni piccolo bar lungo la sua tortuosa strada quotidiana sono dolorose stazioni di una Via Crucis alcoolica, anche se bianca e frizzantina.

Certo però il nostro commissario non può stare nell’ozio tanto a lungo, altrimenti potremmo ben tornare dal nostro libraio e chiedergli perché in questo libro giallo non ci sia un crimine da risolvere, e pretendere indietro i soldi per mancato procurato mistero. L’indagine arriva sotto forma di misterioso bigliettino, recapitato da misteriosa manina direttamente nel cappotto di Maigret e continua, anche se non in maniera ufficiale, tra le case della città balneare. Ma il sole non illumina la via più di quanto farebbe una lampada la notte, i segreti si nascondono dentro le persone, non fuori. Come al solito Maigret si trova a dover combattere contro un muro di omertà, vergogne, o semplice snobismo. C’è un famoso dottore che ha sicuramente molto altro da nascondere, oltre a una moglie bellissima. E ci sono i soliti intrecci contorti tra ricchezza e povertà, che sembrano piacere molto a Simenon.

L’autore questa volta non può tormentare il commissario con l’acqua, il vento, la nebbia, e allora lo fa camminare, all’infinito, avanti e indietro, tra una casa e l’altra, cercando di superare la velocità di pensiero del suo avversario con quella dei piedi. Il suo nemico è molto intelligente, ma anche lui, come Maigret, è solamente un uomo.

Sotto il sole caldo e tranquillo del mare, come sotto la pioggia battente di Parigi, il nostro Maigret è esattamente come lo vogliamo.

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Attraverso la nebbia.

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Nelle scorse settimane la Brianza è stata interessata da un fenomeno atmosferico che al giorno d’oggi possiamo definire insolito: la nebbia. Per giorni, alla sera e alla mattina presto strade, lampioni, marciapiedi case e alberi scomparivano per un paio d’ore. Immersi nel denso grigiore fatto di minutissime goccioline di acqua che galleggiano sopra la città si va tutti più piano, da un momento all’altro dal muro bianco potrebbe spuntare un’auto o una bicicletta. In queste situazioni il cervello lavora in modo strano. Le poche luci che spuntano dalla nebbia sembrano sospese nel nulla e diventano occhi e fauci di giganteschi mostri silenziosi. Le finestre più alte, private dei loro contorni di cemento sembrano cabine di enormi dirigibili sospesi nell’aria. Non si riconoscono le facce nella nebbia, non si riconoscono gli odori, avvolti dal profumo fumoso e umido della bruma. Persino i suoni, che arrivano più veloci del normale alle orecchie, tradiscono il nostro senso dell’orientamento, lasciandoci smarriti in un mondo impossibile. Da vicino quello che prima sembrava un castello dalle torri svettanti ritorna ad essere un gruppo di tristi pini. Le quiete bestie dagli occhi luminosi si scoprono essere le indicazioni per l’autostrada. Un mondo di inganni ovattati.

Pensate ora al nostro commissario della polizia giudiziaria di Parigi. A poco servono il suo cappotto col colletto di pesante velluto e la bombetta. Anche questa volta le condizioni atmosferiche non sono favorevoli. Una fitta nebbia avvolge il piccolo scalo marittimo di Ouistreham, poco più di qualche casa, un porto, una chiusa e un canale verso l’entroterra. Le basse abitazioni dei pescatori, la fumosa osteria, la casa cantoniera, le ville sulla collina scompaiono quando alla sera la bruma sale dall’acqua. Le sirene delle navi da carico rompono il silenzio, seguite dai comandi sicuri dei marinai, parole forti, decise, ancora più forti nella nebbia. Ma senza la conferma della vista, si può essere veramente sicuri di quello che si sente? Il grido delle sirene da nebbia non può nascondere un urlo di terrore? I tonfi e i colpi sono i pesanti carichi di merci che toccano terra o sono corpi che si accasciano senza più vita. Nulla è come sembra.

Ne Il porto delle nebbie (Adelphi, pp. 182, euro 10, traduzione Fabrizio Ascari) Maigret deve fare i conti con illusioni, bugie e inganni. È difficile entrare in un piccolo mondo, che sia un piccolo paese normanno, una calda osteria piena di marinai o l’angusta cabina di una nave merci. Lo è ancora di più se lo si vuole fare nel pieno delle proprie funzioni di ufficiale della Repubblica Francese. È quasi impossibile se non si vede a un palmo dal naso. Nessuno sembra voler collaborare, tutti sembrano avere qualcosa da nascondere. Nessuno vuole parlare. O può farlo. Il capitano Joris ha perso la parola e sembra non capire nulla di quello che gli viene detto, risponde solo con un sorriso ebete alle cure della sua giovane domestica Julie, finché gli verrà tolta la possibilità di dire o fare alcunché. Il turbolento fratello di quella, Grand-Louis, sorride e sorride anche Ernest Grandmaison, sindaco del piccolo paese. L’unico a non sorridere è Maigret.

L’unica soluzione è smettere gli abiti del commissario e ingaglioffirsi. E non è detto che gli dispiaccia. Entra lentamente, un bicchiere dopo l’altro, nel piccolo mondo fatto di abitudini degli abitanti di Ouistreham, raccoglie informazioni e segue piste sabbiose tra le dune erbose delle spiagge normanne. Usa i suoi trucchi da vecchio sbirro per scoprire la verità oltre la nebbia. Ma non sono i rilevamenti antropometrici, le analisi della scientifica sulla provenienza delle uova di salmone o astratti ragionamenti deduttivi a portarlo verso la soluzione del delitto. E’ la sua empatia, epidermica intuizione umana che gli permettere di leggere oltre i tirati sorrisi dei lavoratori della chiusa. E’ la sua determinazione nell’affrontare la nebbia come qualsiasi altro evento atmosferico, sicuro che alla fine un posto dove scaldarsi ci sarà sempre.

E Maigret si immerge in una nebbia talmente fitta che non vede neppure dove mette i piedi. Trova comunque il cancello. Si rende conto di camminare sull’erba, poi sui sassi di un sentiero. Nello stesso tempo percepisce un rumore lontano che stenta a identificare. Si direbbe il muggito di una vacca, ma con un che di più sconsolato, di più tragico. «Imbecille!» borbotta tra i denti. «È solo la sirena da nebbia…»

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Un blocco di granito.

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Pietr il Lettone (Adelphi, euro 10, pag. 163, traduzione Yasmina Mélaouah) è il mio primo umido incontro con il commissario Maigret ed il primo incontro tra un autore e il suo personaggio:

Forse avevo bevuto uno, due o anche tre bicchierini di ginepro con una spruzzata di bitter. Sta di fatto che un’ora più tardi, quasi vinto dal torpore, cominciai a vedere dinnanzi a me la massa imponente e impassibile di un signore che – mi parve – sarebbe stato un commissario accettabile. Nel corso della giornata aggiunsi al personaggio qualche accessorio: una pipa, una bombetta, un pesante cappotto con il collo di velluto … e gli concessi, per il suo ufficio, una vecchia stufa di ghisa.

E non saranno molte di più le comodità che Georges Simenon concederà al suo uomo. Il suo primo giorno di servizio tra le pagine, Maigret si prende una pallottola in corpo, perde un collega, rischia di morire un paio di volte e di ammalarsi di polmonite un altro paio. È grosso ma non lo si può dire agile o esperto di arti marziali. È intelligente ma è l’istinto e non il ragionamento logico-deduttivo a guidarlo. E’ un investigatore francese. Nessuna traccia del caro Holmes nei suoi modi di fare burberi e quasi rozzi.

Lo stile di Simenon è quasi estremo: nessun orpello letterario, ma l’essenzialità della materia bruta. I capitoli corrono incalzanti, nulla è superfluo, banale o digressivo, neppure i titoli. Il ritmo dato alla narrazione da questo ascetismo estetico è teso e pronto a correre non appena la storia accelera bruscamente. Nelle scene d’azione i periodi si contorcono e si spezzano, se Maigret non si rende subito conto di cosa succede perché dovrebbe farlo il lettore?

Ma non è il personaggio, così bello, o lo stile, così giusto. E’ il perché. Per la prima volta il fuoco non viene messo sul come è avvenuto un crimine o su chi lo ha commesso. Maigret si chiede, da uomo, perché altri uomini abbiano commesso un delitto. E sono solo uomini, banali e comunissimi relitti, non le esaltazioni letterarie di Miller o Baudelaire. E forse è questo a renderli così pieni, così vivi. Seguiamo il commissario dentro grigi quartieri operai o nella ancora più grigia provincia francese, tra le case di vecchi e nuovi ghetti e lungo scale di condominio che puzzano di cavolo rancido. O in un albergo degli Champs Elysees. La puzza di marcio c’è anche lì. Ma noi sempre dietro al nostro gigante di pietra, immobile e silenzioso in mezzo al mondo confuso e sotto la pioggia. Finché qualcosa non lo risvegli.

La presenza di Maigret al Majestic aveva inevitabilmente qualcosa di ostile. Era come un blocco di granito che l’ambiente si rifiutava di assimilare.

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