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Coro funebre.

Un giorno di due secoli fa, un giornale della Costa Azzurra pubblicò il necrologio del famoso e oramai ricchissimo inventore della dinamite e “mercante di morte”. Quel giorno, leggendo la notizia del suo funerale, possiamo solo immaginare i sentimenti contrastanti che invasero l’animo di Alfred Nobel, già addolorato per la morte del fratello, inavveduto portatore del suo stesso cognome. Fortunatamente per noi, invece di far saltare per aria una piccola redazione provenzale, decise di farsi ricordare dal mondo per ciò che di buono avrebbe fatto, sicuro di poter evitare altri scambi di persona. Per la consistenza del premio, la sua durata e la sua internazionalità, il Premio Nobel rimane il più noto, e quindi contestato, riconoscimento al mondo.

2015. L’Accademia Svedese, in streaming dal mio computer, annuncia la vincitrice del Nobel per la Letteratura: Svetlana Aleksievic. Panico totale. Nessuno riesce a pronunciare il suo nome, figurarsi se qualcuno ha letto i suoi libri. C’è del mormorio generale, in molti si lamentano che ad essere premiati siano sempre scrittori semisconosciuti, che oramai Philip Roth è vecchio e bisognerebbe sbrigarsi, che non è nemmeno vera letteratura e che come al solito l’assegnazione è stata fatta per motivi politici. L’unica soluzione in questi casi – surreale, incredibile, sorprendente – è leggere. Leggere Ragazzi di Zinco, reportage narrativo e opera corale sulla dimenticata guerra sovietica in Afghanistan.

La Aleksievic scrive di non voler più raccontare la guerra. È il 1986. Alle spalle ha già due raccolte di testimonianze sulla Grande Guerra Patriottica, donne e bambini. Sofferenza e orrore le sono penetrate nelle ossa, ogni violenza ora le risulta insostenibile. Ma dai confini meridionali dell’URSS continuano a decollare aerei carichi di morte e sconfitta. Atterrano a Minsk, Kiev, Mosca e Pietroburgo. Li chiamano Tulipani neri, riportano nomi scritti su bare di zinco. Da sette anni l’Unione Sovietica combatte in Asia Centrale, lontano dai riflettori mondiali, in un buco tra le montagne destinato a risucchiare tutta la vita del gigante dai piedi d’argilla. L’Afghanistan. La guerra è lo specchio della superpotenza in declino: omertà, propaganda, imperialismo e corruzione. I soldati più svegli vendono la benzina dei carri armati per comprarsi cappotti di montone, o droga. Oltre alle risorse di un paese che non riesce a riempire i negozi di alimentari, la guerra porta via le vite di moltissimi giovani, creando così una generazione di reduci a cui la sconfitta nega anche la consolazione della memoria. Svetlana Aleksievic registra silenziosa, come in confessionale, le voci di questi reduci sul magnetofono. Soldati di leva, ufficiali o membri dei corpi speciali, indenni o mutilati, feriti nell’animo o nel corpo. Intervista le madri di chi è tornato rinchiuso nel metallo, intervista le infermiere tornate dal fronte con le mani e il cuore rovinati. Ragazzini e militari di carriera, medici o contadini. Ascolta per ore chiunque voglia parlare con lei. Con pazienza dirige il coro – i russi sono così bravi a cantare in coro, diceva Primo Levi – che canta tutto ciò che non potrebbe andare in scena durante la tragedia. Il sangue. L’orrore, l’orrore. Corpi ridotti a mozziconi e lasciati in vita dai duchman afghani. Vendette sanguinose su donne e bambini. Villaggi rasi al suolo, campi e pelle bruciati. La gratuità e la facilità che accomunano tutti gli uomini nell’abitudine al massacro. Abbiamo sparato sul matrimonio, avevano ucciso il mio amico, cosa dovevo fare? Gli incubi di chi è riuscito a tornare: «Chi hai ucciso stanotte, eh?».

Ognuno ha la sua voce, ognuno affronta in modo diverso le difficoltà. La guerra è brutta, ma le sue regole semplici sono anche un caldo riparo dalla sferzante realtà della vita di tutti i giorni. Lì almeno potevamo contare sui nostri compagni, qui ci chiamano assassini, abbiamo solo eseguito gli ordini, difendevamo la Patria. L’Afghanistan li ha maledetti, ha stregato uomini e donne delle pianure infinite col fascino terribile delle sue montagne, del suo cielo blu, del suo popolo irriducibile. Silenziose e disperate le madri si ribellano per prime a questo dolore inutile, di fronte a morti che rendono incomprensibili, e vuoti, simboli e concetti astratti: il Dovere, l’Onore, il Sacrificio. Chi vuole dimenticare, chi vole spiegazioni, chi vuole un risarcimento, tutti bramano e temono al tempo stesso di conoscere la verità.

Dove finisce il documento e dove inizia la letteratura? La qualità di un’opera letteraria dovrebbe essere giudicata dalla quantità di fatti oggettivi che riporta o dalle verità che evoca? Le persone miserevoli che citarono l’autrice in giudizio per diffamazione, avevano diritto di farlo? In ogni uomo e donna c’è una paginetta di grande letteratura e verità che aspetta solo l’occasione di esprimersi, dice la Aleksievic. Madri parlano con gli uccelli sulla tomba del figlio morto o aggrediscono i pope che le rimproverano, uomini senza vista raccontano dei capelli della moglie. Pagine di autentica poesia e immagini indelebili, che commuovono per se stesse, spartito musicale di un coro che non è semplicemente la somma delle singole voci. Non è il risentimento, l’accusa verso i governanti, il dolore, la paura, il rimpianto a dominare. A svettare, senza mai apparire, è la voce dell’autrice che piange pietosa, per i ragazzi rimasti senza gambe o senza anima, per le vecchie afghane che sputano sugli infermieri e per i loro nipoti morti. Per i cammelli e gli asini, per i campi di grano bruciato che sanno di pane, per tutti quelli che vivono di miti di potenza e per quelli che non credono più in niente. Pietà per l’infinita bellezza del mondo, che rinasce anche nel dolore e nell’orrore. Pietà, solo pietà, e una domanda senza accusa, rivolta a tutti e a nessuno, tutti vittime e colpevoli: che senso ha tutto questo? Che senso ha avuto questa guerra, tutte le guerre.

Qualche volta ho l’impressione che gli occhi siano perfino inutili. Dopo tutto li chiudete anche voi gli occhi in certi momenti importanti Quando state molto bene. Gli occhi servono al pittore perché è il suo mestiere. Io invece ho imparato a farne a meno. E vivo lo stesso. Percepisco il mondo…lo sento…una parola ha molto più significato per me che non per lei. E per tutti voi che ci vedete.

Un soldato, esploratore.

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Naufragi.

Fuori c’è l’allegra piazza di […] con le palme, le panchine, i chioschi, il sole, e persino quell’aria serena di festa portata qui dall’estate balneare. Ma appena si entra vien meno il fiato. Ci si aspetta uno spettacolo macabro. Vi è invece una cosa incredibilmente gentile: di qui la sua infernale potenza. Lungo le pareti dell’ampia sala hanno disposto tre specie di panche, ricoperte di bianchi teli. Due più brevi ai lati, una lunghissima di fronte. Su quella a destra giacciono tre donne e una bambina non ancora identificate, coperte fino al petto da un lenzuolo. Ma è sul rimanente che gli sguardi si fermano pazzescamente affascinati. […] 

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Nel resto dell’articolo citato qui sopra non troverete le seguenti espressioni: tragedia annunciata, tragedia nella tragedia, rabbia e dolore, l’Europa si muova, Bossi-Fini, ministro Kyenge, reato di clandestinità. Non so se sia effettivamente cambiato qualcosa nel modo di fare giornalismo. So solo che Lampedusa per me resta un’espressione puramente geografica e trecentocinquanta è sempre la cifra che segue trecentoquarantanove. E’ solo colpa mia, che sono cinico? Una volta, tanto tempo fa, avevo provato a scrivere delle cose per un giornale locale: «Solo i fatti, solo ed esclusivamente i fatti, niente opinioni». Non che sia sbagliato certo, bisogna essere obbiettivi, avvicinarsi il più possibile alla verità dei fatti. E nessuno scrive più elzeviri, nessuno scrive più un articolo come quello sopra, sembra che bastino le parole tragedia e lutto, orrore e dolore per descrivere la morte. Chi potrebbe scrivere “pazzescamente affascinati”?

Dopo i numeri, le interviste a sindaco, pescatore, presidente e subacqueo, per non parlare del Papa, nessuno che racconti le storie di chi è rimasto sott’acqua o di chi è stato rispedito a casa. Si parla si parla si parla di quanto una legge abbia causato questa brutta faccenda. Gli eserciti di telecamere e microfoni lentamente si ritireranno, in altri luoghi ci sarà da combattere per un immagine, per una parola. E le onnipresenti “rabbia e dolore” come epitaffio. Le parole sono delicate, le parole si sciupano se vengono usate troppo.

L’articolo sopra è stato scritto da Dino Buzzati, quando nel ’47 una barca che trasportava i bambini di una colonia di Alberga affondò. Quarantaquattro sono le vittime, tutte tra i tre e i dieci anni più tre maestre. Un altro naufragio. Buzzati si mise seduto dentro al grande salone della croce bianca, unico vivo, a battere a macchina. E non scrisse, cantò. Cantò come un menestrello dei tempi antichi ma nella lingua dei giornalisti. Un cantore che narrava le cose distanti e lontane ma che con la sua melodia componeva immagini struggenti. Lui era là, vedeva e noi vediamo ancora e vedremo sempre, sentiamo l’odore dell’olio solare, il mare il sole e la mostruosa tranquillità della camera ardente. I nomi dei bambini, le madri che arrivano in treno da Milano. Tutto quello che deve succedere tra una madre e il suo figlio che non è più.

Gli articoli di cronaca nera sono stati raccolti da Lorenzo Viganò in La “nera” di Dino Buzzati (Mondadori, pag. 752, euro 19). Il primo volume, Crimini e Misteri raccoglie omicidi e crimini comuni (vi consiglio l’ottima recensione di Polimena su Trecuggine). Il secondo invece comprende tutto quello che sfugge al controllo umano, le peggiori tragedie a cui Buzzati ha assistito nella sua vita di giornalista e si chiama Incubi. I bambini di Alberga, il disastro aereo di Superga, dei Parà morti misteriosamente uno dopo l’altro, la morte di Ascari a Monza, treni deragliati, incidenti aerei e navali, il disastro del Vajont. Sempre con lo stesso misto di cinismo e sensibilità il giornalista affronta la notizia. La morte, la morte vera, non quella che aleggia sempre nei suoi racconti ma che è pur sempre un personaggio. E si sente, ogni volta, il dolore. Non lo si legge solamente. Più di una volta mi sono trovato a piangere per persone morte decenni fa, persone lontane, sconosciute di cui non dovrebbe importarmi niente.

Mentre qui in questo tempo si discute ancora di cosa si sarebbe dovuto fare, di cosa ha sbagliato chi, di soldi, di colpe di vergogne la voce di Buzzati arriva da un altro mondo, spalanca l’abisso con delicatezza e ci dice: «Ma non capite che tutto questo affanno non serve a nulla?».

Soprattutto terribile mi sembrò un padre. Guidato come un automa da un infermiere ritrovò quasi subito il suo bimbo. Era un signore sui trent’anni vestito correttamente di grigio, dal volto nobile e in certo senso avventuroso. Veniva da solo. L’infermiere presto lo lasciò richiamato da altre scene miserande. E lui non disse una parola, non ebbe un sospiro o una lagrima, lo vidi anzi poco a poco diventare di pietra. Fissava con avida intensità il figlio nato inutilmente da lui e mi parve di leggere nella sua faccia un rimorso cupo, senza rimedio, quasi che tra l’uomo e il bimbo ci fosse stato un lungo e meschino malinteso.

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