Chi segue con devota assiduità questo blog avrà notato tra alcune delle ultime recensioni un sottile filo rosso, o come dicono i francesi: fil rouge. O come dicono i tedeschi: Rotdraht. Una remota popolazione del caucaso non distingue il colore rosso dagli altri e lo indica generalmente con Maragagandu…dicevamo. Una piccola ricerca mi ha permesso di scoprire come tre libri fossero imparentati fra di loro: nell’enorme e infinita biblioteca dello scibile umano questa connessione può risultare ridicola, microscopica e insignificante. Ma dopo averla trovata quasi per caso sono stato felicissimo di seguirla. Tre autori differenti, diversissimi per stile, fortuna, tecniche espressive e poetica, accomunati dal magnetico fascino per le distese polari e i misteri che si celano oltre il novantesimo parallelo. Andiamo a scoprire i nostri protagonisti.
Il capostipite.
Nella sua vita breve e travagliata Edgar Allan Poe trova il tempo e la voglia di scrivere un solo romanzo. Considera questa forma espressiva troppo lunga e dispersiva per catturare l’attenzione del lettore. Nonostante questo Le avventure di Gordon Pym è uno dei più straordinari romanzi d’avventura mai scritti. Avvincente e sottile, la struttura narrativa di questo libro è sorprendente e anticipatrice. Dalla ribollente immaginazione di questo scrittore nascono immagini così potenti da ispirare gli altri due caballeros. Il suo genio riempie gli spazi vuoti della mappa polare come Marco Polo le distese del Cataio, popolandole di esseri e forme bizzarre, di luoghi misteriosi e pieni di meraviglie nascoste.
QUI potete leggere la recensione.
Lo scienziato.
Jules Verne non nascose mai la sua ammirazione per lo scrittore americano, alcuni dei romanzi pubblicati nella serie Viaggi Straordinari sono direttamente ispirati ai racconti di Poe. Ma con La Sfinge dei ghiacci Verne fa molto di più, scrive il seguito delle avventure di Pym. Ma lo fa a modo suo, ripercorrendo la stessa rotta con un atteggiamento diverso: non è più il racconto misterioso di un avventuriero ma il preciso resoconto di un geologo, uno scienziato positivista, per cui ogni mistero può essere risolto con la forza della ragione e dell’esperienza. E’ un ingegnere gestionale con la passione per le avventure in dirigibile. Eppure anche in questo libo i misteri e le domande lasciate senza risposta non mancano.
QUI l’altra recensione.
Il matto.
H. P. Lovecraft, se fosse vissuto ai nostri tempi. sarebbe uno di quegli stramboidi che contattano i blogger per promuovere i loro e-book strampalati e sgrammaticati. Non ci possiamo fare niente. Alle montagne della follia è scritto male. Anche se siete dei fan e non potete arrivare a tanto, dovrete ammettere che non è tra i più riusciti. Pensato come il suo vero grande debutto nel mondo delle lettere, si trasformò in una cocente delusione, ponendo fine alle sue ambizioni di scrittore, nonostante il meglio della sua produzione sia tra le cose scritte in seguito. Pieno di continui e fastidiosi riferimenti al ciclo del Necronomicon e con una varietà di desrcizioni e sinonimi degna di un libretto d’istruzioni, questo libro, inspiegabilmente, attrae. E non sono i mostri schifosi, gli alieni terrorifici, l’ansia claustrofobica. Sono le montagne. Delle montagne altissime, meravigliose e paurose. Tutte le montagne fanno quell’effetto viste dalla pianura. Ma queste montagne, alte più di 10.ooo metri nascondono orrori e segreti senza nome, che annichiliscono proprio perché non vengono mostrati o nominati. Nonostante Lovecraft faccia di tutto per rendercele antipatiche ricordandoci un milione di volte quanto “ricordino l’abominevole altipiano di Lang” loro stanno lì e continuano a spaventarci.
Questi tre autori sono considerati “di culto”. Significa che hanno dei fan-club e della gente mette le loro facce sulle magliette con più disinvoltura di quanto facciano con quella che so, di Primo Levi. Sono letti con ardore anche da personaggi che altrimenti non leggerebbero nient’altro nella vita e trovano accoliti fedeli al limite dell’integralismo. Forse con l’eccezione di Poe sono drammaticamente ignorati da una certa cultura accademica, proprio per i limiti stilistici di cui abbiamo parlato sopra. Ma non è questo a renderceli così simili e così preziosi. E neppure Gordon Pym o il sinistro «Teke-li! Teke-li!» che riecheggia o meno sulle distese ghiacciate delle loro pagine. E non è il Polo Sud e non la neve o le montagne. E’ il mistero. Il non detto, lo spazio bianco sulla carta, la pagina intonsa, lo sguardo fuori campo, il racconto interrotto. I nostri tre cavalieri hanno imparato che non è la loro fantasia a conquistare definitivamente il lettore, non sono mostri, terre fatate e avventure. E’ il sobbalzo, il fremito tra le scapole che precede di poco il pensiero: «E poi?» La voglia pazzesca, non appena hai girato l’ultima pagina, di cercare subito un altro libro, che ti chiarisca quel poi. La sicurezza, la dolce rassegnazione nel sapere che però nessun libro ti soddisferà e che la ricerca sarà senza fine, eterna.