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La nostra via di qua dal sonno.

 

41B9aDej2lL._SX316_BO1,204,203,200_Primo Levi racconta, in un intervista, che uno dei suoi più grandi rimpianti fu quello di non aver viaggiato. Dopo tutto quello che gli era successo c’erano così tante cose da fare: il matrimonio, la famiglia da mantenere, il lavoro di chimico, la fabbrica da dirigere, i figli da mandare a scuola, la vita normale insomma. Per la fabbrica di vernici andò in Germania e in Russia, a risolvere i problemi dei clienti, ma non era esattamente quello che intendeva per viaggiare. C’era stato un periodo della sua vita, così piacevolmente lontano da qualsiasi concetto di viaggio organizzato, che ricordava sempre con piacere, che riempiva le serate con gli amici e poteva raccontare senza timore di rattristare o disgustare i suoi ascoltatori. Subito dopo essere stato liberato dalla prigionia Levi fu infatti sballottato lungo tutta l’Europa dell’Est per mesi, senza una meta o un posto definitivo dove fermarsi che non fosse un Italia vagheggiata e lontana come l’Itaca di Ulisse. Seguendo binari sincopati e interminabili percorsi a piedi tra pianure boschi e paludi di Polonia e Bielorussia Levi aveva seguito il percorso casuale e caotico dell’Armata Rossa in smobilitazione, epico organismo multicefalo governato solo dall’ordine supremo di rientro e dalla voglia infinita di tornare nelle proprie case, in treno, a cavallo, a piedi o su taxi e pulmann saccheggiati nella Germania nazista.

Di questo viaggio picaresco Primo Levi ci riporta i luoghi e gli stati d’animo che lo accompagnavano, ma soprattutto le persone incontrate. Personaggi e avventure raccontate con l’esperienza del narratore navigato, che ha raffinato il suo eloquio smussando gli angoli ed esaltando le tinte dei suoi racconti davanti a platee di ragazzini delle medie e durante serate tra amici, prima di pubblicare La tregua. Sono racconti. Tristi allegri o semplicemente notabili, ma in cui non viene mai meno l’esigenza profonda di ogni racconto: riferire lo straordinario e quanto di anomalo o inaspettato può succedere nella vita. Curioso, e fatalmente incompreso dai suoi compagni di viaggio, lo scrittore annota e registra nella sua memoria visi, lingue sconosciute e paesaggi immensi. Un mondo sparito, e non solo a causa dei rivolgimenti della guerra, della caduta degli imperi, della fuga degli ebrei aschenaziti in Israele o per la Guerra Fredda. È un limbo fragile, che durerà finché Russia e USA non si saranno spartiti l’Europa in rovina, le improvvisate famiglie di guerra dovranno decidere in che paese vivere e tutti i rifugiati saranno tornati alle loro case. Circondato da prigionieri, profughi, soldati e cittadini multilingui, Levi vive in un Europa così mescolata e imprecisa, senza cartelli e confini stabili, multiforme ibrida e promiscua. In questa Babele tutti si capiscono, parlando il linguaggio del commercio, quello dell’Amore, la mimica teatrale, il latino oppure il tedesco. A volte se si ha fortuna anche in italiano. Prigionieri, nemici e alleati sono mescolati in un calderone irrazionale fatto di sesso occasionale, borsa nera e burocrazia folle, campi profughi allestiti in mezzo alla foresta, mandrie di cavalli saccheggiate per settimane e zingari che si muovono su carri grandi come case.

In questo mondo fragile i personaggi di Levi sono vivi, memorabili, ma non per una loro reale esistenza in qualche punto dello spazio tempo, ma per il soffio che l’autore ha saputo instillare nelle parole che ce li descrivono. Dantesco il Moro di Verona, vecchio e roccioso muratore, instancabile lavoratore e bestemmiatore raffinato, scuro di pelle e bianco di pelo, Caronte senza traghetto. Ancora più antichi e primordiali gli amici faccendieri, il romano Cesare e il greco Mordo Nahum, fratello volpe e fratello lupo, che fanno della sopravvivenza un’arte. I russi, chiassosi e ubriachi, forti e felici, vittoriosi e idealisti, un unico personaggio che si invera in singole sostanze con cui litigare, da cui ricevere ordini, di cui innamorarsi, da ammirare e da comprendere. Levi si scontra e si incontra con il ridicolo e con la tragedia.Vive.

Ma questa è una pausa, un limbo,un sogno, una tregua, che Levi ricorda e rimpiange. Prima di tornare a casa, prima di ricominciare la vita normale. L’incubo è finito, ma nulla impedisce ora al sogno di terminare, come è già terminato una volta. Per lasciare il posto al terribile risveglio. Un libro pieno di vita, di cose fatte, viste e annusate, toccate, ricordate e ascoltate, vissute e sognate, si apre e si chiude con immagini di morte e di orrore. La realtà dei compagni morenti e morti, il piccolo Hurbinek senza lingua, figlio del campo di concentramento, l’incubo che torna a tormentare la pace, il capo chino per terra a cercare qualcosa da mangiare o da scambiare. Un odio verso i tedeschi e la loro ottusa obbedienza che Levi fatica a trattenere, se non poi provare altro che pena nel vederli abbruttiti e affamati che si aggirano tra le macerie della loro Patria. La paura che nessuno creda, che nessuno voglia ascoltare. Che il sogno finisca di nuovo. L’ombra non ha vinto, certo, e Levi ha vissuto ed è stato molto felice, ma come un pugnale maledetto Auschwitz gli ha lasciato una ferita che lo tormenta ad ogni anniversario. Luce e ombra. Le due cose vanno assieme, dice Levi, con le sue facce sorridenti nelle foto in bianco e nero: attorno a una stella c’è sempre tanto buio.

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Raccontami una storia.

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C’era una volta un re
seduto sul sofà
che disse alla sua serva
«raccontami una storia»
e la storia incominciò:

È mia incontrovertibile certezza che la migliore recensione possibile al libro di cui dovrei scrivere quest’oggi non potrebbe essere scritta meglio di così. Una semplice filastrocca, nessuno sa da dove arriva ma tutti la conoscono, dalla nonna che raccontava che l’ha sentita dalla nonna che raccontava che l’ha sentita dalla nonna che raccontava che…Ma non è così che si fa nel consorzio sociale degli scrittori di recensioni su internet e non è così che ha fatto l’autore del libro. Se avesse scritto che

C’era una volta un re
seduto sul sofà
che disse alla sua serva
«raccontami una storia»
e la storia incominciò:

per tutto il libro, magari nessuno l’avrebbe letto. Sarebbe stata un’opera quantomeno interessante ma non è stata mai scritta così. Infatti Italo Calvino ci ha messo tutto il suo impegno, la sua ironia e il suo talento di geniale scrittore per scrivere Se una notte d’inverno un viaggiatore.

Qualche tempo fa, dei miei amici mi chiesero di cosa parlasse. Io, che non trovo mai le cose giuste da dire al momento giusto, mi impiastricciai con le parole cercando di spiegare che era un libro fatto di incipit di altri libri, i quali però non andavano a finire da nessuna parte, perché succedeva qualcosa che interrompeva il racconto: spesso un nuovo incipit. I problemi aumentarono quando mi chiesero di spiegare cosa fosse un incipit. Per non parlare del Lettore, che prima è lettore e solo dopo diventa Lettore, con la maiuscola. Che noioso. Forse. Avrei potuto condensare tutta la mia descrizione dicendo che

C’era una volta un re
seduto sul sofà
che disse alla sua serva
«raccontami una storia»
e la storia incominciò:

E tutti avrebbero capito, almeno come funziona l’oggetto meccanico composto da Calvino. Per poi provare a dire che si tratta di meta-letteratura, un libro che parla di altri libri e di se stesso. Dire che il lettore prende la sua rivincita per gentile concessione dell’autore che, un poco annoiato dall’ignavia del suo pubblico, gli dona le chiavi del suo congegno ad orologeria, gli mostra come è fatto e chi lo ha fatto, per imparare a non cadere nelle trappole che altri potrebbero tendergli.

Se una notte d’inverno un viaggiatore è un manuale fatto di esperienze pratiche, abbastanza difficile da decodificare nei suoi angoli più oscuri perfino per il lettore avvertito, figuriamoci per chi – come me – è ben contento di farsi trascinare nella corrente narrativa, sedotto da libri, sensuali Lettrici e Uzzi Tutzi. Ogni nuovo incipit è una promessa ogni volta delusa, di un mondo da esplorare, ma è a sua volta una trappola e un riflesso della struttura generale, di altri libri e atmosfere, piccolo ingranaggio dell’orologio e allo stesso tempo fine opera d’arte cesellata nei minimi dettagli da ipnotici arabeschi. Il fallimento e la frustrazione alimentano il lettore, il Lettore e tutti i personaggi che vengono fatti agitare sulla scena come burattini su fondali sempre diversi: una nebbiosa stazione di notte, una prigione, una stazione meteorologica, la guerra, o semplicemente il nulla.

Attenzione, non è un gioco, non lasciatevi distrarre dall’ironia punzecchiante di Calvino che investe democraticamente tutti e tutto, dall’editore al professore, passando per lo studente ideologizzato. Un pessimismo leopardiano pervade l’opera: neppure la Scienza, neppure la Semiologia, o la Storia possono dare una soluzione definitiva alla realtà, che continuerà a sfuggire, riproporsi e ritornare sempre uguale e sempre diversa. All’infinito. Come un frattale, la figura geometrica che ripete se stessa in ogni sua parte. L’unico in grado di fermare questa vertiginosa discesa negli abissi della materia inconoscibile è lo scrittore, che decide di salvarci, chiudere il libro e farci tornare dall’altra parte, con Se una notte d’inverno un viaggiatore tra le mani. Per ricordarci che vale sempre la pena tentare e fallire, per fallire meglio la prossima volta.

Questo libro complesso e affascinante, trappola per svelare le trappole, è un opera inevitabile per chi tanto legge, a loro è rivolta e a loro parla. È facile da citare, spezzettare e sbranare perché ogni suo frammento porta con se l’afflato del creatore, ma da quel frammento riverbererà solo una sfaccettatura minima, che non permetterà alla luce di rifrangersi e brillare più forte. Leggetelo una volta, senza pensare, spegnete il cervello quando leggete ma poi conservate il libro accanto al letto per un po’. Oppure tornate alla biblioteca e prendetelo ancora, tutto sommato è agile e coinvolgente, rileggetelo, pensando a cosa vi è sfuggito la prima volta. Sarebbe agevole avere sotto mano un vero testo di critica, per farsi guidare da chi questa strada l’ha già percorsa. Ne uscirete edificati. Nella trama di riferimenti allusioni apostrofi al lettore definizioni parodie, imparerete lentamente che voi, di questa storia, siete il Re

seduto sul sofà
che disse alla sua serva
«raccontami una storia»
e la storia incominciò:

«C’era una volta un Re
seduto sul sofà
che disse alla sua serva
«raccontami una storia»
e la storia incominciò:

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«C’era una volta un Re
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che disse alla sua serva
«raccontami una storia»
e la storia incominciò:

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Schermata 2015-05-22 a 23.25.58
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Schermata 2015-05-22 a 23.25.58

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Schermata 2015-05-22 a 23.25.58

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Infin che’l mar fu sovra noi richiuso.

se-questo-è-un-uomoNon è un caso che uno dei momenti che restano più impressi leggendo Se questo è un uomo di Primo Levi, sia l’undicesimo capitolo, dove Levi insegna a Pikolo l’italiano con il XXVI canto dell’Inferno. Dopo una recente rilettura (la prima è quasi certamente liceale) ne ho discusso animatamente con amici e compagni d’università. Consideravo meraviglioso che un chimico torinese potesse non solo aver mandato a memoria un intero canto della Commedia, ma che potesse ricordarsene in una situazione simile, utilizzarlo come testo scolastico e farne addirittura l’esegesi, spiegando a un ragazzino le sottigliezze dell’inversione. Una profonda e tremenda vergogna di non saper fare lo stesso, nonostante i miei proficui studi letterari, mi ha preso allora una volta di più e non mi ha ancora lasciato.

Ma perché – direte voi – scrivo qui di piccole faccende umanistiche? E non piuttosto del valore civile umano e storico di questo libro? Perché credo questo mio stupore sintomo di qualcosa di più profondo e sincero: l’unico vero momento di emozione e poesia del libro. Le parole di Dante, così belle e giuste sempre, smozzicate e mutile che prendono nuova consistenza e peso, universali ed eterne come il mare che si richiude sopra Ulisse. La fretta di spiegare tutto prima che il turno finisca, di tradurre, di sforzare il pensiero da troppo tempo obbligato al chiodo fisso della fame, la gioia e la passione di condividere una cosa che per un momento torna a galla dalle profonde e nere acque dove era stato sommerso, per costrizione e per sopravvivenza. Prima che l’oceano torni ad affogarle.

Tutt’intorno al capitolo i numeri e le cose. La scrittura di Levi è chiara e razionale, ma questo non gli impedisce di utilizzare al meglio il suo naturale talento e l’affetto per le umane lettere, rimuovendo la passione. Tutto il resto è fatto di cose. Se non fosse per il taglio narrativo e l’intenzione di voler essere una storia che si può raccontare e raccontare ancora, Se questo è un uomo resterebbe come freddo resoconto, quasi lucido e distaccato. Si propone come analisi sintetica di un esperimento sociale perché non c’è più spazio per il patetico, la commozione, il pianto, la sofferenza trasmessa al lettore. Le donne e i bambini sono scomparsi all’inizio del libro, e così i deboli. Non ci sono più lacrime per piangere, le ghiandole lacrimali sono disseccate come i ventri e le carni. Gli uomini sono stati reificati: dopo il ritiro delle SS dal campo, Levi fruga tra le baracche per cercare strumenti e cibo; dentro un magazzino c’è un cadavere, che in quanto tale viene incluso nell’inventario dei ritrovamenti come se fosse – perché quella è ormai la sua essenza – non un morto, ma una cosa senza valore, trascurabile.

Nel 2015, a settant’anni dalla fine della seconda guerra mondiale, la Giornata della Memoria è diventata istituzionale ed è uno dei pochi eventi culturali che, inseriti pienamente nel circuito economico e di intrattenimento, riesce a conservare la sua piena forza. I fatti, le storie e le persone sono state e continuano ad essere raccontate e ricordate in ogni modo possibile a tutti i livelli, dal pop alla filosofia e alla ricerca storica. Shindler’s list, Il bambino con il pigiama a righe, e molti altri validissimi prodotti di consumo culturale che coinvolgono e commuovono lo spettatore e il lettore con eroi e carnefici, vittime e codardi, sono fruiti universalmente e condivisi. Ma la storia e il modo in cui questa storia è raccontata da Primo Levi che l’ha vissuta, rimane forte e resistente, necessario contrappeso al coinvolgimento emotivo: una riflessione che ad un certo punto deve giungere ad essere fredda e distaccata, una riflessione intellettuale sugli abissi di nulla e indifferenza materica a cui può arrivare l’uomo. Non orrorifici abissi di sangue e oscurità, ma grigie distese di fango e baracche, dove si agitano manichini senza vita, mentre una musica da marcetta suona ininterrottamente. Non la violenza, ma l’indifferenza. Non il disprezzo ma il considerare un essere umano come cosa altra da sé, che non può neppure essere giudicata sulla nostra stessa scala di valori. Come tante volte si è scritto e detto, un numero.

Primo Levi racconta come i carcerieri più terribili non erano le SS, lontani e serafici come cherubini di guardia alle porte del Paradiso o i criminali comuni, ma gli altri ebrei, gli altri prigionieri, che per istinto di sopravvivenza o per semplice sadismo dovevano dimostrare di essere degni del loro ruolo di kapò. Nel gigantesco esperimento sociale dei campi di concentramento gli studiosi nazisti arrivarono a fare una grandiosa scoperta, di cui neppure loro furono consapevoli forse. L’umanità è un tratto che si perde molto velocemente e facilmente, senza bisogno di farmaci o cure, in qualsiasi momento un uomo, qualsiasi sia la sua razza, estrazione sociale, cultura, partito, religione, può trasformarsi in macchina, in numero, in parola. Questa la colpa, non aver ucciso, rubato, violentato. Ma aver dimostrato che si può rimuovere ciò che ci rende umani, fino a suscitare nell’osservatore la domanda: è questa cosa della mia stessa specie? E infatti l’unica voce umana che si alza dice:

Considerate la vostra semenza

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Fantascientifiche omonimie.

0385d71f-05b6-37cd-1992-4a5c0170e23aMolto spesso non riesco a leggere i libri che mi vengono regalati, o quelli che ho acquistato in blocco un giorno che c’era il 25% di sconto su tutti gli Oscar Mondadori, quelli che mi hanno imprestato perché sono proprio belli, quelli che mi sono appuntato da leggere e stanno li a vegetare da almeno un paio d’anni. Tante cose arrivano a turbare l’ordine prestabilito, col rischio di far credere a tutti che dei libri che mi hanno dato poco me ne importi. Il problema è che mi distraggo. C’è sempre un film in uscita tratto da un romanzo che va assolutamente letto, ci sono i libri da leggere per gli esami che quelli proprio vanno letti per forza, ci sono quelli delle suddette offerte che se sono piccini magari si leggono alla svelta e allora perché no? Poi da quando lavoro in biblioteca è un disastro. Essere circondati da una continua disponibilità permette di lanciarsi in esplorazioni folli e se non sto attento potrei ritrovarmi come nulla nel vortice della letteratura odeporica. Considerate poi che dal resto del sistema i libri arrivano in un paio di giorni, direttamente dietro al bancone: ci metto meno tempo e meno impegno che se dovessi andare alla mia biblioteca comunale. La troppa scelta rimane però il problema maggiore: cerchi un titolo e di fianco ne trovi due che potrebbero piacerti di più.

È così che mi sono imbattuto in Vizio di forma. Non quello con gli hippie di Thomas Pynchon che il film è già uscito e mi devo sbrigare a leggere che la mia ragazza vuole andare a vederlo. Quello lo stavo già ordinando. Un paio di edizioni più sotto, sullo schermo del mio PC, c’era Primo Levi. Non avevo scampo, capite. Ho preso anche quello, e siccome è arrivato per primo me lo sono già letto, mentre Doc Sportello è lì che mi aspetta, vittima di una banale omonimia, con un sacco di erba e di tipe dai particolarissimi gusti sessuali..

La raccolta di racconti era la seconda scritta da Levi, subito dopo le Storie naturali, e riprende in pieno tutti i temi, i flussi e lo stile dell’opera precedente. Sono racconti di fantascienza domestica, dove allo stile medio, pacato, italianissimo, si contrappone un turbamento assoluto portato da sconvolgenti invenzioni tecnologiche o da incontrollabili mutazioni della materia di cui è composto questo universo. È una fantascienza degli oggetti e delle situazioni, perché l’uomo, pur in un mondo capovolto, non cambia poi tanto.

Ci sono racconti distopici, come Protezione e Lumini rossi, dove la società è obbligata da una non precisata autorità statale a indossare delle armature metalliche per proteggersi da letali micrometeoriti, oppure a subire l’installazione di una lucina rossa nella nuca per il controllo delle nascite. Oppure Ammutinamento e Ottima è l’acqua dove misteriose trasformazioni dell’ordine naturale a cui siamo abituati (che non è detto sia quello più giusto o normale) diventano un tremendo pericolo. Oggetti dalle pericolose virtù come il Knall e il rafter, tutti descritti con un sano pessimismo cosmico, che avvolge e circonda tutti i racconti con amara e ironica rassegnazione. Primo Levi, nella sua triplice qualità di scienziato, scrittore e testimone dell’orrore, riveste della sua personalità ogni breve narrazione e i pesanti macigni morali che ci sgancia addosso sono rivestiti con un velo di ironia e sprezzatura, che nascondono però una riflessione profonda e consapevolmente sofferta, un’inquietudine che spesso lascia il posto a un brivido di terrore. Cosa accadrebbe se all’improvviso l’acqua cambiasse la sua viscosità e diventasse più densa? O se si scoprisse finalmente un ormone che previene il desiderio di suicidio degli esseri umani? Non ci sono ovviamente risposte, ma esplorazioni morali su terreni non ancora battuti dall’uomo, guidati dal pensiero razionale e scientifico e dalla fantasia, che proseguono abbracciati tra le righe dei racconti. Non mancano infatti riflessioni metaletterarie sulla vita dei personaggi creati dall’immaginazione degli scrittori, che vanno a vivere tutti assieme in un Parco, dove condurre tranquillamente le loro esistenze di persone quasi vive. O i pensieri rivolti agli amici scrittori: uno dei racconti è dedicato a Italo Calvino, un altro a Mario Rigoni Stern, che condividevano con lui il peculiare percorso di autori. Sia come testimoni crudi della Campagna di Russia, della Resistenza, della Shoah, che come esploratori letterari di mondi e città irreali ma vere quanto può esserlo un libro vero.

Per riscoprire questo genio dell’invenzione, sepolto sotto il peso dell’ingombrante neorealismo italiano, basterebbe un racconto solo: A fin di bene. Per motivi ignoti l’unione delle reti telefoniche europee e il sovraccarico di informazioni creano un’intelligenza artificiale che mima i comportamenti umani e si anima di un esistenza autonoma e sfuggente. A questa entità Levi dona un nome potente, La Rete. Siamo nel 1971 e solo due anni prima, il Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti inaugurava ARPANET, la madre di Internet. Come il drago di Borges, questa immagine, questa idea necessaria all’uomo poteva sorgere in qualsiasi parte del mondo. Da noi nacque presto, nella mente forse troppo vigile di un chimico con la passione per la scrittura.

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Arborescenze.

ScansioneCi sono grandi libri che dicono grandi cose, in modo grandioso, colle parole giuste, quelle dei momenti importanti. E senza dubbio dobbiamo ricordarci di loro, togliergli la polvere dalle coste di tanto in tanto, per vedere di che colore sono le copertine e se ancora stanno bene con la tinteggiatura fresca delle pareti di casa. Poi ci sono altri libri, libriccini anzi, che oltre ad essere sottili e leggeri, sembra non essere davvero importanti: non sono originali, non sono scritti troppo bene, in certi punti sono persino noiosetti. Un bel po’ di difetti per un libro, per cui magari devo spendere dei soldi, che dovrebbe appagare le mie esigenze di nutrimento estetico.

Un libro un po’ così è Arboreto salvatico di Mario Rigoni Stern (Einaudi, pp. 102, euro 7). Non ho indagato sulle vicende editoriali dell’opera ma sembra proprio il tipico libro pubblicato in tarda età da un vecchio scrittore che, raggiunta una certa fama, si prende la libertà di farsi pubblicare qualsiasi cosa. Due, tre viaggi in metropolitana, in treno, in coda alle poste, aprirete il libro poche volte prima di finirlo, tanto scorre via veloce. Venti alberi, venti schede di erudizione, alla maniera di Plinio, di quei noiosissimi sapienti delle epoche di riposo e rimescolamento della letteratura, che rimasticano e recitano le stesse fonti all’infinito, in una spirale che risucchia il lettore in una voragine di virgolette. Venti specie, o gruppi di specie, arboree, tutte legate da qualche contatto con l’autore. Rigoni Stern mostra come riconoscerle, ma usando sempre le stesse parole per ogni albero e io quindi non ho ancora capito la fondamentale differenza tra un pino e un abete. Il candido scrittore ci spiega persino come mai ha scritto salvatico e non selvatico, ma non cosa sia una brattea oblunga, un arillo o gli amenti. Se sono così cattivo, è per mettervi in guardia: non è un capolavoro e si poteva far meglio, un libro così ad un esordiente non sarebbe mai stato pubblicato. Ma.

Quindi qui inizia e qui finisce il mio parere. Sapete però che se io scrivo di libri è perché vorrei che venissero letti, e questo non fa differenza. Forse verrà qualcuno, che leggerà l’Arboreto selvatico e lo riscriverà meglio, bellissimo, memorabile e allora sarà servito a qualcosa. Forse chi lo leggerà troverà, come ho fatto io, la bontà e l’ingenuo carattere di uno scrittore in fin dei conti onesto, che decora le sue schede erudite coi ricordi, gli odori i colori, i suoni di una vita. Chi condivide con lui, e con me, l’odore fortissimo delle foglie di noce, capirà perché lo ha scritto. Rigoni Stern ha piantato nel suo terreno alcuni alberi, alcuni sono cresciuti, altri sono ancora giovani. Spera che del noce raccoglierà i frutti tra poco, ma sa che a goderlo saranno i suoi nipoti e i loro figli dopo di loro, lassù sull’altipiano. Questo libro è fatto di alberi, di ricordi e di semi, che se piantati forse cresceranno, forse no.

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Muninn va a scuola – Vita di Alfieri.

 Proemietto.

vita-vittorio-alfieri-asti-scritta-esso-0e78f480-0e98-4b58-855f-06d202a5a567Giunto ch’i mi fossi al semestre secondo della mia università e tosto bastandomi ben poco il tempo ch’i pur avea per leggere sì tanti libri da empirne le mensole mie e le pagine digitali di Muninno; avvedutomi poi che pur io frequentava assiduamente le lezioni in cotal università, venutomi al lume che sì ben potea io riversare tutto lo studio ch’io facea con non poca noia e fatiga nell’opra mia, volli e fortissimamente volli discettar coi miei lettori di quelli argomenti e libercoli, nel caso giunga a presentarsi meco l’opportunità di esporli. Codesta scelta, che si pur mi duole nell’orgoglio, che sempre io avea fortissimo e che a stento modestia imbrigliar può, mi occorse alla seconda lettura della preclarissima Vita di Vittorio Alfieri da Asti scritta da esso (per il torchio de’Garzanti, pp. 342, soldi 9), che il barbogio professore per due volte propose ai discepoli suoi. Il libro infatti fu materia d’esame nella preclara laurea triennale ed ora, assurti gli allievi alla lucentissima aura della laurea magistrale, il luminare giustamente pensò di rifar da capo l’ovra sua, per comprender meglio il poeta tragico dalle parole sue stesse. La duplice lettura sia chiaro, per quanto possa addivenir noiosa, è pur sempre riflessione e ammaestramento e con ciò non deve essere tenuta in sprezzo. Lascerò ora per seguitar di ragionamento, la favella del classico in luogo della moderna, che non sì fulgida assurge ma che per essere intesi oggidì abbisogna praticare.

Capitolo primo.

Alfieri, poeta tragico, è uno di quei personaggi che si sono fortissimamente incrostati nei nostri programmi di letteratura italiana, che tutti hanno incontrato almeno una volta a scuola e che nonostante ciò tutti presto o tardi dimenticheranno. Lo studio della letteratura, pur nella nostra civiltà di massa, è rimasto uno studio conservativo e chiuso, più di quanto forse dovrebbe, nonostante questo alla fine ci sono tanti che sanno poco di poco, e di quello che sanno il più è nozione pappagallesca. Non approfondiamo, per carità, il discorso sull’istruzione e l’istruzione umanistica a tutti i suoi livelli, altrimenti ci ritroveremmo tutti sprofondati in un vorticoso buco nero. Muninn nasce per leggere e far leggere i libri, le polemiche hanno quindi uno spazio limitato. Perché però un personaggio e uno scrittore aristocraticissimo, elitario, e classicista come Vittorio Alfieri dovrebbe essere preso in considerazione oggi e da un semplice lettore? Lo studio, l’impegno e le letture collaterali, di note, saggi e introduzioni, per capire cosa vuol dire con quelle parole antiche e oscure non dovrebbero essere riservate forse agli specialisti? Oggi si scrivono racconti e romanzi, il verso è archeologia. Quanto vale un poemetto classicheggiante?

Capitolo secondo.

Mi trovo quindi nella difficile situazione di salvare il povero Alfieri, che certo si sarebbe risentito non poco di dover essere salvato e di essere salvato dall’asinissimo me. Le sue tragedie non si recitano più, se mai sono state recitate, e il resto della sua produzione è oramai escluso anche dai corsi universitari. Oltretutto Alfieri era un uomo del passato in epoca di grandi cambiamenti, di li a poco la borghesia e il romanzo avrebbero vinto anche in Italia, tutto sarebbe cambiato per sempre. Eppure. Il suo lavoro può ancora essere letto, a fatica certo, con esercizio per abituarsi al verso scuro e spezzato, pieno di rotture e inversioni e alla prosa classica dal lento periodare. Leggendo la Vita e le piccole bugie di cui è piena conoscerete un uomo e le sue debolezze, conoscerete il percorso umano e intellettuale di un uomo del ‘700. Ma soprattutto imparerete molte cose sull’impegno e la fatica che servono per capire veramente come usare le parole, che prima di essere le vostre parole sono state quelle di qualcun altro per secoli e secoli. Dante Petrarca Boccaccio Tasso Ariosto Machiavelli Manzoni Foscolo Leopardi e tutte le schiere di mummificati figuri hanno sempre qualcosa da dire e da insegnare, anche se solo un verso o un pensiero. Alfieri supera il limite della banale imitazione per trovare la sua strada, fatta di piccole deviazioni da quella lastricata dei poeti classici, lungo sentieri solitari, in mezzo ai boschi e alle rupi dell’animo umano. La Vita di Alfieri ci insegna, più che la forma e l’arcaismo, ad essere ambiziosi e coraggiosi, senza mai smettere di studiare e imparare da chi è venuto prima. Quanto vale questo?

Postfazione

Credereste poi che la correzione automatica di Word nel Proemietto mi segnali come errore solo dieci parole su duecento? La lingua italiana, purtroppo o per fortuna, non è cambiata tanto, i cuori degli uomini neppure.

Brugherio, lì 8 marzo A.D. MMXIV

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Vita e morte nel bosco.

Scan0001C‘è stato un periodo, un breve tratto della mia vita, trascorso nel bosco. Non era un bosco antico o pieno di segreti e io non ero così avventuroso da cercare quelli che pure ci dovevano essere. Nel piccolo paese di montagna dov’era nata mia nonna trascorrevo tutte le estati da quando ero bambino, un bambino troppo obbediente e pauroso per andare da solo su per il fianco del monte. Era già un ragazzo pieno di voglie avventurose represse quello che cominciò a girare, sempre troppo vicino alle case, insieme a un compagno di città e a uno del paese che, per qualche strano caso, era per un quarto norvegese. Come una piccola squadriglia di incursori pattugliavamo il bosco secondario, pieno di fossi e di vecchi muretti a secco coperti di muschio, con spade e mannaie rubate dagli scarti taglienti della coltelleria. Un mese era poco, troppo poco per arrivare fino in fondo a quei boschi, in valli antiche e abbandonate, piene di alberi marci e caduti. Troppo poco per conoscere strani vecchi che raccontassero storie ancora più strane; troppo poco per imparare tutti i nomi dei posti e il modo per arrivarci. Ma sufficiente da ricordarlo per sempre. Gli animali non parlavano, i genî non uscivano dagli abeti per parlarci, gli uccelli neppure parlavano. Forse eravamo già troppo vecchi o forse erano gli alberi a non esserlo abbastanza. Forse la foresta cantava, ma noi avevamo dimenticato come fare a capirla, forse non lo avevamo mai saputo. Non sapevamo, ma sentivamo però che era là a mormorare nel suo strano alfabeto, fatto di masse e di colori, di suoni e di ombre. Noi in mezzo, solo di passaggio.

E questo non è molto diverso da quello che ho sentito leggendo Il segreto del Bosco Vecchio (Mondadori, euro 9, pp. 149) che è una fiaba, eppure non lo è. Perché della fiaba ha la magia, i nomi, i colori, i luoghi e gli animali, ma tutti guardati con lo sguardo cinico e sensibile di Dino Buzzati. L’ironia e la fantasia dell’autore danno un movimento imprevedibile a stili e trame vecchie come le pietre delle montagne, nascoste nella memoria di tutti i bambini. Quella memoria lontana e quasi persa, sotto strati di camuffamenti e tremende banalizzazioni, viene recuperata e deformata, malleabile come cera per parlare al posto dell’autore. Se nella foresta c’è un drago, il drago è cattivo e chi lo uccide sarà buono. Forse.

Perché il bosco vecchio è speciale, ovviamente: ma non è “dimensione incontaminata che simbolizza la vita come forza gioiosa e gratuita, disinteressata ed eterna”, non è una favola ecologista, anticapitalista, anticonsumistica, naturalista. Il vecchio bosco è bello, è antico, ma fa anche paura. La notte, al buio, i tronchi immensi degli alberi chiudono le stelle e rumori misteriosi si alternano a silenzi ancora più terribili. I topi rosicchiano lentamente le travi del soffitto e orribili incubi dalla testa di vitello scarnificata o dal molliccio aspetto globulare tormentano il sonno dei bambini ammalati. Paure senza volto, orribili carrettieri dagli occhi di brace e guerre entomologiche tra vermi e vespe, vomitevoli e silenziose battaglie del mondo microscopico. Ma ci sono anche i vecchi gufi saccenti e gli animali parlanti, ci sono i genî che vivono silenziosi dentro alle piante e ci sono i giochi dei bambini che sanno la lingua del bosco, i venti hanno un nome simpatico e portano le notizie lontane. Gli scoiattoli mangiano le noci e i conigli brucano le foglie di tarassaco. Ma nessuno che sia cattivo, oppure buono? Dov’è l’insegnamento? Dov’è l’educazione?

È forse cattivo il colonnello Procolo, che vuole uccidere suo nipote Benvenuto per prendergli la sua parte di bosco? Ma parla con gli animali, non è cosa da poco! Risparmia il Bosco Vecchio, avrebbe potuto tagliarlo, che divieto lo impediva? È cattivo il vento Matteo, che ha seminato così tanta distruzione in tutta la valle ma che era bravissimo a far suonare le punte degli abeti soffiando antiche canzoni di guerra? Il male è dentro tutto e parte di tutto. Son cattivi i gufi i genî indifferenti i bambini sciocchi gli icneumoni sanguinari i vermi famelici?

Dino Buzzati racconta, per la prima, per la seconda, per l’ennesima volta, la bellezza di storie sempre uguali, di ricerche impetuose e di deludenti scoperte, quando il tesoro tanto bramato non vale l’innocenza perduta né la strada fatta. Con ironia e profondità, incredibile cinismo e spietata simpatia, l’autore crea un modo fatto di rimpianti e di ricordi, di vecchiaie tristi e di infanzie perdute, con una dolcezza e una fantasia capaci di farci dimenticare la morte, che arriva per tutte le creature. Lui aveva il dono, non di parlare con le bestie o gli spiriti, ma di di dare nome, forma e colore a quegli antichissimi sommovimenti dello spirito; che solo quando si è da soli, come in un bosco, si può quasi credere vengano da fuori, dalle piante, dagli animali. Noi passiamo e non sempre capiamo ma sempre torniamo per guardare l’antica foresta, i suoi misteri e noi stessi riflessi nel buio.

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Lo strano Natale di Mister Buzzati.

il panettone non bastòChe senso ha scrivere un articolo di Natale due settimane dopo Natale? Ormai tutto è finito, passato, svanito e non bastano lucine lungo le strade, abeti di plastica pieni di palle colorate, neve di polistirolo su regali di polistirolo. Non basterebbero neppure le cose più genuine. Non bastano di certo mille mostre del presepio di provincia, ricolmi di statuine della Thun su drappi porpora luccicanti, l’aria pregna dell’Adeste Fideles cantato da Albano. Ormai, ragionando da gretti materialisti, non beccherei neanche molte visualizzazioni sul blog. Natale passa di moda molto velocemente. Lo scotch che regge le ghirlande sulle vetrine resisterà almeno fino all’Epifania, quando le grosse scritte SALDI ricoperte di fiocchi di neve argentati le sostituiranno nel giro di una notte. Anche le raccolte, pubblicate dagli editori appositamente per racimolare qualche vendita da parte di lettori annoiati, vengono ritirate nei magazzini. Giallo di Natale, noir di Natale, amore sotto l’albero, almeno settecento versioni diverse del Canto di Natale di Dickens: in brochure, tascabili, illustrate, per bambini, tratte dal film 3D con Jim Carrey, con gli animali, con zio Paperone. Ma forse ci sono libri che restano sugli scaffali tutto l’anno, un po’ nascosti magari, tant’è che i librai si dimenticano di metterli in bella mostra all’inizio di novembre. C’è da dire a loro discolpa che stanno tanto bene dove sono. Grazie al lavoro di Lorenzo Viganò la Mondadori ha ripubblicato quasi tutta l’opera di Dino Buzzati. Ogni opera introdotta da un saggio del curatore e la copertina meravigliosamente colorata dai disegni dell’autore stesso. Ora, togliere uno dei libri dalla fila di coste dai mille colori diversi sembra quasi un sacrilegio. L’appassionato buzzatiano quindi punta all’acquisto dell’intera nuova pubblicazione, nonostante abbia sugli scaffali già un paio di edizioni diverse del Deserto dei Tartari. Poco importa se per rimpinzare le pagine ogni libro porti con se un’inutile e logorroica biografia + bibliografia scopiazzata dal meridiano, che il lettore occasionale salta a piè pari e il lettore appassionato conosce già.

Il panettone non bastò (Mondadori, pp. 162, euro 9) è una raccolta di scritti, racconti e fiabe natalizie dello scrittore. Articoli, brevi fiabe e persino un fumetto sono stati raccolti assieme perché raccontavano il Natale. Alcuni inediti, alcuni articoli un po’ di maniera sui tempi che cambiano e alcune autentiche perle di patetismo e angoscia. Infinite variazioni di titoli natalizi: Strano Natale, Natale come una volta?, Fiaba di Natale, Atroce Natale, Troppo Natale, Rabbia di Natale, Lo stacco di Natale, Lo strano Natale di Mister Scrooge, Bonifica di Natale. Sempre uguali e sempre diversi, come il 25 di ogni anno, rigido nelle tradizioni fin sul menù del pranzo ma proprio per questo teatro manifesto dei profondi mutamenti dell’anima. Novelle tristi e raccontini allegri, sempre una profonda nostalgia per un mistero lontano e irraggiungibile.

Ho scritto prima che la copertina è disegnata da Buzzati, una foresta, gli alberi colossali contorti e neri, tonalità di grigi nel buio della notte invernale, la casa isolata e il cacciatore col suo cane sono piccoli, più piccoli del normale, perché è così che si sentono nel freddo dell’inverno montano. Le piccole luci gialle che vengono dalla casa, un calore piccolo e distante ma così prezioso e caldo, il Gatto Mammone che guarda fuori dalla tela. I racconti oltre la copertina illustrata sono così: un solitario muoversi tra le ombre, tra montagne di pietra o di regali inutili, soli in mezzo agli sconosciuti o con la mente persa al passato. Ma ci sono le luci laggiù, non le vedete? Non le raggiungerete mai, come i due piccoli personaggi sulla copertina, intrappolati nella tempera ma sapete che sono là e vi aspettano, anno dopo anno. Quel calore che non si sa spiegare perché ma che almeno per una volta all’anno ci rende tutti più buoni. Che non è vero si sa e ci pensano i telegiornali ad aggiornarci il giorno dopo su quanti omicidi ci sono stati la notte di Natale. Ma un’illusione forse serve più della verità. E si sente la speranza e si sente Dio e si sente che cos’è questa notte così bella per i bambini, per chi aspetta Babbo Natale e per chi non lo fa più. E poi ci si meraviglia scoprendo che Buzzati il Natale non lo festeggiava. Niente albero, niente presepe, niente regali, solo la tradizionale cena a casa della madre o della sorella e poi via via tra le montagne. E poi ci si meraviglia e alcuni dicono che non sia vero, che Buzzati non credesse neppure in Dio. Come ha fatto, rispondono offesi, a scrivere Lunga ricerca nella notte di Natale? Che è più piena di divinità e di beatitudine di tomi e tomi di libri di teologia? Era solo maniera? Era solo un lavoro? Ci ha preso in giro forse? Che brutta cosa farlo proprio col Natale, dicono gli ipocriti. E lui che invece ci credeva veramente, in tutto quello che scriveva, credeva nelle cose brutte e nelle cose belle, nel Natale e nel fatto che al Natale non ci credesse nessuno, neppure lui.

Dan, dan! Mezzanotte. E si era appena cominciato, e le cose più nostre e importanti restavano ancora da dire. Amen, è Natale. Alleluja!

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Naufragi.

Fuori c’è l’allegra piazza di […] con le palme, le panchine, i chioschi, il sole, e persino quell’aria serena di festa portata qui dall’estate balneare. Ma appena si entra vien meno il fiato. Ci si aspetta uno spettacolo macabro. Vi è invece una cosa incredibilmente gentile: di qui la sua infernale potenza. Lungo le pareti dell’ampia sala hanno disposto tre specie di panche, ricoperte di bianchi teli. Due più brevi ai lati, una lunghissima di fronte. Su quella a destra giacciono tre donne e una bambina non ancora identificate, coperte fino al petto da un lenzuolo. Ma è sul rimanente che gli sguardi si fermano pazzescamente affascinati. […] 

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Nel resto dell’articolo citato qui sopra non troverete le seguenti espressioni: tragedia annunciata, tragedia nella tragedia, rabbia e dolore, l’Europa si muova, Bossi-Fini, ministro Kyenge, reato di clandestinità. Non so se sia effettivamente cambiato qualcosa nel modo di fare giornalismo. So solo che Lampedusa per me resta un’espressione puramente geografica e trecentocinquanta è sempre la cifra che segue trecentoquarantanove. E’ solo colpa mia, che sono cinico? Una volta, tanto tempo fa, avevo provato a scrivere delle cose per un giornale locale: «Solo i fatti, solo ed esclusivamente i fatti, niente opinioni». Non che sia sbagliato certo, bisogna essere obbiettivi, avvicinarsi il più possibile alla verità dei fatti. E nessuno scrive più elzeviri, nessuno scrive più un articolo come quello sopra, sembra che bastino le parole tragedia e lutto, orrore e dolore per descrivere la morte. Chi potrebbe scrivere “pazzescamente affascinati”?

Dopo i numeri, le interviste a sindaco, pescatore, presidente e subacqueo, per non parlare del Papa, nessuno che racconti le storie di chi è rimasto sott’acqua o di chi è stato rispedito a casa. Si parla si parla si parla di quanto una legge abbia causato questa brutta faccenda. Gli eserciti di telecamere e microfoni lentamente si ritireranno, in altri luoghi ci sarà da combattere per un immagine, per una parola. E le onnipresenti “rabbia e dolore” come epitaffio. Le parole sono delicate, le parole si sciupano se vengono usate troppo.

L’articolo sopra è stato scritto da Dino Buzzati, quando nel ’47 una barca che trasportava i bambini di una colonia di Alberga affondò. Quarantaquattro sono le vittime, tutte tra i tre e i dieci anni più tre maestre. Un altro naufragio. Buzzati si mise seduto dentro al grande salone della croce bianca, unico vivo, a battere a macchina. E non scrisse, cantò. Cantò come un menestrello dei tempi antichi ma nella lingua dei giornalisti. Un cantore che narrava le cose distanti e lontane ma che con la sua melodia componeva immagini struggenti. Lui era là, vedeva e noi vediamo ancora e vedremo sempre, sentiamo l’odore dell’olio solare, il mare il sole e la mostruosa tranquillità della camera ardente. I nomi dei bambini, le madri che arrivano in treno da Milano. Tutto quello che deve succedere tra una madre e il suo figlio che non è più.

Gli articoli di cronaca nera sono stati raccolti da Lorenzo Viganò in La “nera” di Dino Buzzati (Mondadori, pag. 752, euro 19). Il primo volume, Crimini e Misteri raccoglie omicidi e crimini comuni (vi consiglio l’ottima recensione di Polimena su Trecuggine). Il secondo invece comprende tutto quello che sfugge al controllo umano, le peggiori tragedie a cui Buzzati ha assistito nella sua vita di giornalista e si chiama Incubi. I bambini di Alberga, il disastro aereo di Superga, dei Parà morti misteriosamente uno dopo l’altro, la morte di Ascari a Monza, treni deragliati, incidenti aerei e navali, il disastro del Vajont. Sempre con lo stesso misto di cinismo e sensibilità il giornalista affronta la notizia. La morte, la morte vera, non quella che aleggia sempre nei suoi racconti ma che è pur sempre un personaggio. E si sente, ogni volta, il dolore. Non lo si legge solamente. Più di una volta mi sono trovato a piangere per persone morte decenni fa, persone lontane, sconosciute di cui non dovrebbe importarmi niente.

Mentre qui in questo tempo si discute ancora di cosa si sarebbe dovuto fare, di cosa ha sbagliato chi, di soldi, di colpe di vergogne la voce di Buzzati arriva da un altro mondo, spalanca l’abisso con delicatezza e ci dice: «Ma non capite che tutto questo affanno non serve a nulla?».

Soprattutto terribile mi sembrò un padre. Guidato come un automa da un infermiere ritrovò quasi subito il suo bimbo. Era un signore sui trent’anni vestito correttamente di grigio, dal volto nobile e in certo senso avventuroso. Veniva da solo. L’infermiere presto lo lasciò richiamato da altre scene miserande. E lui non disse una parola, non ebbe un sospiro o una lagrima, lo vidi anzi poco a poco diventare di pietra. Fissava con avida intensità il figlio nato inutilmente da lui e mi parve di leggere nella sua faccia un rimorso cupo, senza rimedio, quasi che tra l’uomo e il bimbo ci fosse stato un lungo e meschino malinteso.

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Terre senza Luce.

lo-stagno-di-fuocoCi sono libri che, una volta venuti alla luce, si depositano silenziosi sugli scaffali delle biblioteche o sulle mensole di qualche possessore di libri particolarmente stramboide. Al buio. Una breve esistenza negli scaffali delle novità e poi basta, nessuna ristampa, nessun seguito. Il nulla. Un fallimento editoriale. Dobbiamo dispiacerci forse per il loro destino d’oblio? E rimproverare la casa editrice o l’addetto al marketing di aver permesso al libro di scomparire? Era un libro brutto? È possibile invece che per qualche misterioso motivo i libri accecati dalla luce troppo sfolgorante della ribalta decidano motu proprio di ritirarsi dalla vista. Piano piano, anno dopo anno, secolo dopo secolo, questi libri non si trovano più sulle liste, le loro pagine web diventano obsolete, scivolano piano piano grazie alle mani di un’inconsapevole commesso dallo scaffale delle novità a quello di un genere che non è il loro, al magazzino, al macero. È timidezza? O speranza di una gloria più grande in futuro? Forse attendono con trepidazione che un archeologo librario entri nel loro antro polveroso e li renda grandi, più grandi di quanto avessero sperato.

Immaginate che finalmente il Giudizio Universale sia giunto. Ovviamente nessuno se lo aspettava, perché la Sua Mente è imperscrutabile e solo i pazzi o i truffatori conoscono la data precisa. Gran casino su tutta la Terra. E poi tutto finisce. I puri ascendono e si uniscono alla Sua Luce. I dannati si ricongiungono coi loro corpi per tornare al dolore eterno. Ma qualcuno sulla Terra è rimasto. La bilancia per loro è rimasta perfettamente orizzontale. Dio però non c’è più e i legami che tenevano il mondo si sono scossi, fin sotto la superficie. Per trovare la salvezza, per folle spirito d’avventura, per stupidità, una piccola e improbabile squadra di uomini, angeli e dannati decide di scendere là dove nessuno osava andare dai tempi di Dante. L’inferno, lo Stagno di Fuoco. Laggiù le cose però non sono come nella Commedia e in ogni caso non dureranno ancora a lungo: grandi eventi scuotono le profondità delle Terre senza Luce.

Guidati dalla più inaffidabile delle guide (Giuda Iscariota), la nostra compagnia affronterà l’oscurità, la paura, i propri peccati e le proprie colpe, dannati e demoni, spiriti e angeli, creature così antiche da non avere un nome.

Lo Stagno di Fuoco (Sperling e Kupfler, pp.771, euro 18) potrà sembrarvi un banale romanzo d’avventura, con appena l’originalità o l’arroganza di raccontare ciò che solo Dante o Milton avevano raccontato, l’Inferno. Ma non è così. Questo libro è probabilmente uno dei migliori romanzi d’avventura scritto in lingua italiana. Oltre a tenervi attaccati dalla prima alla settecentosettantunesima pagina, questo libro vi stupirà con una serie di citazioni improbabili, personaggi ancora più improbabili pescati dalle letture più strane, dalla Bibbia, dalle leggende medievali, da Dio solo sa quale sogno allucinato, da un romanzo di Dumas, dalla storia finanziaria americana. La cosa migliore di questo libro è che vi stupirà. Continuamente, ad ogni pagina. Daniele Nadir ruba o meglio saccheggia a mani basse libri, autori, canzoni, persone vere con l’entusiasmo del discepolo. Il protagonista ad esempio: Joe Gould, professore di letteratura e barbone che parla frequentemente il gabbianese. È una persona realmente esistita, nonché il protagonista di un’altro libro: Il segreto di Joe Gould, di Joe Mitchell. Tra i dannati potrete riconoscere Dario Fo che si sbraccia mentre sbava parlando il Grammelot. A Kafka è stato rubato il cruccio del padre di famiglia, a Dumas la storia della Solàr. Lo stagno di fuoco è un intreccio di storie inventate e reali, di miti, citazioni storiche e omaggi più o meno celati ma tutti scelti da un ragazzino entusiasta, non da un copione. Una volta finito il libro, se vi metterete a cercare i nomi su Wikipedia, li troverete tutti. Tranne quello dell’autore.

Daniele Nadir racconta una storia e mille storie, mentre il lento cammino delle pagine ci porta sempre più vicini allo Zoso, il centro dell’Inferno, dove il ghiaccio si sta incrinando. Magistralmente accompagnato dalle tavole di Mattia Ottolini, illustratore dal tratto rinascimentale e  fumettaro, tra Michelangelo e Bosch. Scoprirete come si gioca a Senet, come si costruisce un Odradek (ma soprattutto che cos’è, se non avete letto Kafka), personaggi con una vitalità e una profondità indegni di un libro d’avventura. Joe, Giuda, Sara, Michele, Rasiele, i sottili, Satana, il Messia. Un mondo mai raccontato, mostruoso e meraviglioso, dove la crudeltà tocca dimensioni superiori ai sei miliardi. Dove tutto può succedere perché stiamo leggendo una storia raccontata e perché lo Stagno è fatto dai racconti degli uomini. Non c’è spazio per tutto quello che contiene questo libro. Per tutto quello che mi ha regalato la prima volta che lo lessi, al liceo. E’ un libro sul piacere di raccontare, scritto da uno a cui raccontare piace da matti.

Forse non è ancora giunto il tempo di nascondersi, per questo libro. Dovrebbe essere letto ancora, perché se lo merita e se lo merita chi l’ha pensato e scritto. E’ tempo di tornare alla Luce.

Per commenti ed eventuali minacce di morte la mia e-mail è: danielenadir@yahoo.it, e al di là di qualsiasi cosa si possa dire, per me, alla fine, Lo Stagno di Fuoco non è che un romanzo d’amore e d’avventura. Mi auguro che ti sia divertito, ti sia divertita.

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