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La nostra via di qua dal sonno.

 

41B9aDej2lL._SX316_BO1,204,203,200_Primo Levi racconta, in un intervista, che uno dei suoi più grandi rimpianti fu quello di non aver viaggiato. Dopo tutto quello che gli era successo c’erano così tante cose da fare: il matrimonio, la famiglia da mantenere, il lavoro di chimico, la fabbrica da dirigere, i figli da mandare a scuola, la vita normale insomma. Per la fabbrica di vernici andò in Germania e in Russia, a risolvere i problemi dei clienti, ma non era esattamente quello che intendeva per viaggiare. C’era stato un periodo della sua vita, così piacevolmente lontano da qualsiasi concetto di viaggio organizzato, che ricordava sempre con piacere, che riempiva le serate con gli amici e poteva raccontare senza timore di rattristare o disgustare i suoi ascoltatori. Subito dopo essere stato liberato dalla prigionia Levi fu infatti sballottato lungo tutta l’Europa dell’Est per mesi, senza una meta o un posto definitivo dove fermarsi che non fosse un Italia vagheggiata e lontana come l’Itaca di Ulisse. Seguendo binari sincopati e interminabili percorsi a piedi tra pianure boschi e paludi di Polonia e Bielorussia Levi aveva seguito il percorso casuale e caotico dell’Armata Rossa in smobilitazione, epico organismo multicefalo governato solo dall’ordine supremo di rientro e dalla voglia infinita di tornare nelle proprie case, in treno, a cavallo, a piedi o su taxi e pulmann saccheggiati nella Germania nazista.

Di questo viaggio picaresco Primo Levi ci riporta i luoghi e gli stati d’animo che lo accompagnavano, ma soprattutto le persone incontrate. Personaggi e avventure raccontate con l’esperienza del narratore navigato, che ha raffinato il suo eloquio smussando gli angoli ed esaltando le tinte dei suoi racconti davanti a platee di ragazzini delle medie e durante serate tra amici, prima di pubblicare La tregua. Sono racconti. Tristi allegri o semplicemente notabili, ma in cui non viene mai meno l’esigenza profonda di ogni racconto: riferire lo straordinario e quanto di anomalo o inaspettato può succedere nella vita. Curioso, e fatalmente incompreso dai suoi compagni di viaggio, lo scrittore annota e registra nella sua memoria visi, lingue sconosciute e paesaggi immensi. Un mondo sparito, e non solo a causa dei rivolgimenti della guerra, della caduta degli imperi, della fuga degli ebrei aschenaziti in Israele o per la Guerra Fredda. È un limbo fragile, che durerà finché Russia e USA non si saranno spartiti l’Europa in rovina, le improvvisate famiglie di guerra dovranno decidere in che paese vivere e tutti i rifugiati saranno tornati alle loro case. Circondato da prigionieri, profughi, soldati e cittadini multilingui, Levi vive in un Europa così mescolata e imprecisa, senza cartelli e confini stabili, multiforme ibrida e promiscua. In questa Babele tutti si capiscono, parlando il linguaggio del commercio, quello dell’Amore, la mimica teatrale, il latino oppure il tedesco. A volte se si ha fortuna anche in italiano. Prigionieri, nemici e alleati sono mescolati in un calderone irrazionale fatto di sesso occasionale, borsa nera e burocrazia folle, campi profughi allestiti in mezzo alla foresta, mandrie di cavalli saccheggiate per settimane e zingari che si muovono su carri grandi come case.

In questo mondo fragile i personaggi di Levi sono vivi, memorabili, ma non per una loro reale esistenza in qualche punto dello spazio tempo, ma per il soffio che l’autore ha saputo instillare nelle parole che ce li descrivono. Dantesco il Moro di Verona, vecchio e roccioso muratore, instancabile lavoratore e bestemmiatore raffinato, scuro di pelle e bianco di pelo, Caronte senza traghetto. Ancora più antichi e primordiali gli amici faccendieri, il romano Cesare e il greco Mordo Nahum, fratello volpe e fratello lupo, che fanno della sopravvivenza un’arte. I russi, chiassosi e ubriachi, forti e felici, vittoriosi e idealisti, un unico personaggio che si invera in singole sostanze con cui litigare, da cui ricevere ordini, di cui innamorarsi, da ammirare e da comprendere. Levi si scontra e si incontra con il ridicolo e con la tragedia.Vive.

Ma questa è una pausa, un limbo,un sogno, una tregua, che Levi ricorda e rimpiange. Prima di tornare a casa, prima di ricominciare la vita normale. L’incubo è finito, ma nulla impedisce ora al sogno di terminare, come è già terminato una volta. Per lasciare il posto al terribile risveglio. Un libro pieno di vita, di cose fatte, viste e annusate, toccate, ricordate e ascoltate, vissute e sognate, si apre e si chiude con immagini di morte e di orrore. La realtà dei compagni morenti e morti, il piccolo Hurbinek senza lingua, figlio del campo di concentramento, l’incubo che torna a tormentare la pace, il capo chino per terra a cercare qualcosa da mangiare o da scambiare. Un odio verso i tedeschi e la loro ottusa obbedienza che Levi fatica a trattenere, se non poi provare altro che pena nel vederli abbruttiti e affamati che si aggirano tra le macerie della loro Patria. La paura che nessuno creda, che nessuno voglia ascoltare. Che il sogno finisca di nuovo. L’ombra non ha vinto, certo, e Levi ha vissuto ed è stato molto felice, ma come un pugnale maledetto Auschwitz gli ha lasciato una ferita che lo tormenta ad ogni anniversario. Luce e ombra. Le due cose vanno assieme, dice Levi, con le sue facce sorridenti nelle foto in bianco e nero: attorno a una stella c’è sempre tanto buio.

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Coro funebre.

Un giorno di due secoli fa, un giornale della Costa Azzurra pubblicò il necrologio del famoso e oramai ricchissimo inventore della dinamite e “mercante di morte”. Quel giorno, leggendo la notizia del suo funerale, possiamo solo immaginare i sentimenti contrastanti che invasero l’animo di Alfred Nobel, già addolorato per la morte del fratello, inavveduto portatore del suo stesso cognome. Fortunatamente per noi, invece di far saltare per aria una piccola redazione provenzale, decise di farsi ricordare dal mondo per ciò che di buono avrebbe fatto, sicuro di poter evitare altri scambi di persona. Per la consistenza del premio, la sua durata e la sua internazionalità, il Premio Nobel rimane il più noto, e quindi contestato, riconoscimento al mondo.

2015. L’Accademia Svedese, in streaming dal mio computer, annuncia la vincitrice del Nobel per la Letteratura: Svetlana Aleksievic. Panico totale. Nessuno riesce a pronunciare il suo nome, figurarsi se qualcuno ha letto i suoi libri. C’è del mormorio generale, in molti si lamentano che ad essere premiati siano sempre scrittori semisconosciuti, che oramai Philip Roth è vecchio e bisognerebbe sbrigarsi, che non è nemmeno vera letteratura e che come al solito l’assegnazione è stata fatta per motivi politici. L’unica soluzione in questi casi – surreale, incredibile, sorprendente – è leggere. Leggere Ragazzi di Zinco, reportage narrativo e opera corale sulla dimenticata guerra sovietica in Afghanistan.

La Aleksievic scrive di non voler più raccontare la guerra. È il 1986. Alle spalle ha già due raccolte di testimonianze sulla Grande Guerra Patriottica, donne e bambini. Sofferenza e orrore le sono penetrate nelle ossa, ogni violenza ora le risulta insostenibile. Ma dai confini meridionali dell’URSS continuano a decollare aerei carichi di morte e sconfitta. Atterrano a Minsk, Kiev, Mosca e Pietroburgo. Li chiamano Tulipani neri, riportano nomi scritti su bare di zinco. Da sette anni l’Unione Sovietica combatte in Asia Centrale, lontano dai riflettori mondiali, in un buco tra le montagne destinato a risucchiare tutta la vita del gigante dai piedi d’argilla. L’Afghanistan. La guerra è lo specchio della superpotenza in declino: omertà, propaganda, imperialismo e corruzione. I soldati più svegli vendono la benzina dei carri armati per comprarsi cappotti di montone, o droga. Oltre alle risorse di un paese che non riesce a riempire i negozi di alimentari, la guerra porta via le vite di moltissimi giovani, creando così una generazione di reduci a cui la sconfitta nega anche la consolazione della memoria. Svetlana Aleksievic registra silenziosa, come in confessionale, le voci di questi reduci sul magnetofono. Soldati di leva, ufficiali o membri dei corpi speciali, indenni o mutilati, feriti nell’animo o nel corpo. Intervista le madri di chi è tornato rinchiuso nel metallo, intervista le infermiere tornate dal fronte con le mani e il cuore rovinati. Ragazzini e militari di carriera, medici o contadini. Ascolta per ore chiunque voglia parlare con lei. Con pazienza dirige il coro – i russi sono così bravi a cantare in coro, diceva Primo Levi – che canta tutto ciò che non potrebbe andare in scena durante la tragedia. Il sangue. L’orrore, l’orrore. Corpi ridotti a mozziconi e lasciati in vita dai duchman afghani. Vendette sanguinose su donne e bambini. Villaggi rasi al suolo, campi e pelle bruciati. La gratuità e la facilità che accomunano tutti gli uomini nell’abitudine al massacro. Abbiamo sparato sul matrimonio, avevano ucciso il mio amico, cosa dovevo fare? Gli incubi di chi è riuscito a tornare: «Chi hai ucciso stanotte, eh?».

Ognuno ha la sua voce, ognuno affronta in modo diverso le difficoltà. La guerra è brutta, ma le sue regole semplici sono anche un caldo riparo dalla sferzante realtà della vita di tutti i giorni. Lì almeno potevamo contare sui nostri compagni, qui ci chiamano assassini, abbiamo solo eseguito gli ordini, difendevamo la Patria. L’Afghanistan li ha maledetti, ha stregato uomini e donne delle pianure infinite col fascino terribile delle sue montagne, del suo cielo blu, del suo popolo irriducibile. Silenziose e disperate le madri si ribellano per prime a questo dolore inutile, di fronte a morti che rendono incomprensibili, e vuoti, simboli e concetti astratti: il Dovere, l’Onore, il Sacrificio. Chi vuole dimenticare, chi vole spiegazioni, chi vuole un risarcimento, tutti bramano e temono al tempo stesso di conoscere la verità.

Dove finisce il documento e dove inizia la letteratura? La qualità di un’opera letteraria dovrebbe essere giudicata dalla quantità di fatti oggettivi che riporta o dalle verità che evoca? Le persone miserevoli che citarono l’autrice in giudizio per diffamazione, avevano diritto di farlo? In ogni uomo e donna c’è una paginetta di grande letteratura e verità che aspetta solo l’occasione di esprimersi, dice la Aleksievic. Madri parlano con gli uccelli sulla tomba del figlio morto o aggrediscono i pope che le rimproverano, uomini senza vista raccontano dei capelli della moglie. Pagine di autentica poesia e immagini indelebili, che commuovono per se stesse, spartito musicale di un coro che non è semplicemente la somma delle singole voci. Non è il risentimento, l’accusa verso i governanti, il dolore, la paura, il rimpianto a dominare. A svettare, senza mai apparire, è la voce dell’autrice che piange pietosa, per i ragazzi rimasti senza gambe o senza anima, per le vecchie afghane che sputano sugli infermieri e per i loro nipoti morti. Per i cammelli e gli asini, per i campi di grano bruciato che sanno di pane, per tutti quelli che vivono di miti di potenza e per quelli che non credono più in niente. Pietà per l’infinita bellezza del mondo, che rinasce anche nel dolore e nell’orrore. Pietà, solo pietà, e una domanda senza accusa, rivolta a tutti e a nessuno, tutti vittime e colpevoli: che senso ha tutto questo? Che senso ha avuto questa guerra, tutte le guerre.

Qualche volta ho l’impressione che gli occhi siano perfino inutili. Dopo tutto li chiudete anche voi gli occhi in certi momenti importanti Quando state molto bene. Gli occhi servono al pittore perché è il suo mestiere. Io invece ho imparato a farne a meno. E vivo lo stesso. Percepisco il mondo…lo sento…una parola ha molto più significato per me che non per lei. E per tutti voi che ci vedete.

Un soldato, esploratore.

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